Torino – Corteo anarchico

TORINO.   Tensione in corso Vercelli all’angolo con via Belmonte dove una cinquantina di anarchici hanno organizzato un corteo contro le disposizioni del Governo, accusando le forze dell’ordine di aver «diffuso il virus».

Gli antagonisti stanno bloccando la strada, urlando “Libertà” e stanno invitando i residenti del quartiere a scendere in strada e a ribellarsi Ad un certo punto gli anarchici hanno accerchiato un dirigente della Questura: un antagonista è stato fermato.

https://www.lastampa.it/torino/2020/04/23/news/anarchici-di-nuovo-in-piazza-a-torino-tensione-in-corso-vercelli-1.38752835

Siamo in guerra: storia di una strage

Collettivo Tilt

L’epidemia da Coronavirus, tra le tante cose, ci consegna anche la temperatura della questione sociale nel nostro paese. Il contagio biologico è stato solo il terreno – devastante – su cui si è innestata la coltura del virus sociale. Ci dicono che siamo in guerra contro un nemico invisibile: in realtà, ce ne sono diversi che senza alcun pudore si sono messi in mostra.

Perché, mentre partiva la caccia alle streghe del runner solitario, c’era chi era costretto – giorno dopo giorno – ad andare a lavorare. È il caso di chi opera in settori essenziali (sanità, logistica, trasporti, grande distribuzione, servizi di pulizia), ma anche di molti operai e impiegati costretti al lavoro in settori secondari e non indispensabili. Come e chi li ha tutelati? Dopo le zone rosse di Lodi e Vò Euganeo, infatti, il governo ha progressivamente esteso le restrizioni a tutto il paese, senza tuttavia imporre lo stop alle attività produttive, nemmeno nelle province più colpite dall’epidemia, come Bergamo e Brescia. Intanto, arrivava la notizia della morte di due dipendenti di Poste Italiane in provincia di Bergamo, mentre segnali ancora più allarmanti riguardavano gli operatori sanitari: secondo i dati dell’ISS, più del 9% dei casi totali di Covid-19 in Italia era personale medico, trovatosi, fin dall’inizio dell’epidemia, insufficientemente protetto per “mancanza di risorse”.

La tanto sbandierata tutela del lavoro era in realtà uno specchietto per le allodole. La guerra era prima di tutto una guerra di classe, in cui interessi ben precisi – da tempo consolidati dalle dinamiche neoliberali – emergevano nell’attacco deliberato rivolto alle proletarie di questo paese. Termini antichi? Forse, ma almeno in grado di rappresentare l’asprezza dello scontro che si sta consumando. La strage che sta avvenendo ha dei responsabili: per non dimenticarli, teniamo traccia della cronaca di questa guerra. Perché almeno una cosa vera l’hanno detta: siamo in guerra; se da una parte del fronte ci sono i lavoratori e le lavoratrici mandate al macello, dall’altra risiedono interessi ben precisi. È una classe, quella imprenditoriale, che mai come oggi – a nostra memoria – si è mostrata per quello che è: affarista, predatoria e miserabile.

Cerchiamo di ricostruire attraverso la cronaca e le dichiarazioni degli ultimi giorni quali sono state le priorità per una parte di questo paese, mentre un’altra era ormai in isolamento sociale da settimane.

Parliamo di Confindustria. Ipotesi: strage.

Secondo le loro stesse ammissioni ufficiali, “già dai primi segnali di allarme dell’emergenza Coronavirus in Cina, data la portata dell’impatto della situazione sanitaria anche sulle attività economiche, Confindustria ha costituito una Task force interna coinvolgendo i responsabili delle Aree di competenza su tutte le tematiche oggetto di interesse.” Per fare cosa, verrebbe da chiedersi? Fare lobbying e indirizzare le scelte politiche di contrasto al contagio da Coronavirus: “La Task force, punto di raccordo tra Confindustria e gli attori istituzionali, risponde in maniera puntuale ed efficiente alle esigenze del Sistema associativo” [1].

Diverse sono state le prese di posizioni locali, anche nelle province lombarde più colpite dall’epidemia, con focolai ormai fuori controllo [2]. Il 28 febbraio, per esempio, Confindustria Bergamo rassicura i partner esteri con un video che titola: “Business in Bergamo is running” [3]. Il rischio è minimo, dicono, e tutte le precauzioni sono state prese. Non a caso, il 27 febbraio, era uscito un documento congiunto del maxi cartello corporativo formato da Abi, Coldiretti, Confragricoltura, Confapi, Confindustria, Legacoop, Rete Imprese Italia, Cgil, Cisl, Uil: tutti assieme appassionatamente a dichiarare “dopo i primi giorni di emergenza, è ora importante valutare con equilibrio la situazione per procedere a una rapida normalizzazione, consentendo di riavviare tutte le attività ora bloccate” [4].

L’imperativo era ed è uno solo: normalizzare. Il business deve correre. Corre veloce, però, anche l’epidemia. Il rischio aumenta: risulta ormai chiaro che i focolai locali in alcune province lombarde siano in crescita esponenziale. “In molti casi, la malattia peggiora così in fretta che anche quando i sintomi diventano molto gravi, spesso non c’è tempo di procedere al trasporto [in ospedale]. Un numero non quantificato di persone, quindi, muore a casa o nelle case di risposo spesso senza finire nei conteggi ufficiali. […] A Bergamo il numero di morti è così alto che l’unico forno crematorio della città non riesce a gestire il numero di corpi che arriva ogni giorno” [5].

Alla spicciolata alcune fabbriche iniziano a chiudere. “Le chiusure sono state imposte dalle proteste, dalla crescita dell’assenteismo e dal crollo degli ordinativi, dice Eliana Como della Fiom-Cgil che è a Bergamo e da fine febbraio invoca la chiusura totale delle produzioni non necessarie”.

Il 14 marzo viene trovato l’accordo sul protocollo Confindustria-Sindacati relativo alle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro. Presenti Cgil, Cisl, Uil, Confindustria e Confapi. “Tredici i punti del protocollo[…]: informazioni; modalità di ingresso in azienda; modalità di accesso dei fornitori esterni; pulizia e sanificazione in azienda; precauzioni igieniche personali; dispositivi di protezione individuale; gestione degli spazi comuni (mensa, spogliatoi, aree fumatori, distributori di bevande e snack); organizzazione aziendale (turnazione, trasferte e smart work); gestione degli orari di lavoro; rimodulazione dei livelli produttivi; gestione entrata e uscita dei dipendenti; spostamenti interni, riunioni, eventi interni e formazione; gestione di una persona sintomatica in azienda; sorveglianza sanitaria, medico competente, Rls; aggiornamento del protocollo di regolamentazione” [6].

La salute è la priorità, si affrettano a dichiarare un po’ tutti. Ma la produzione, per ora, non si ferma. Già dalla settimana del 9 marzo monta la protesta, nascono scioperi spontanei, Confindustria si trova praticamente isolata nel pretendere la prosecuzione dei propri affari. Il 10 marzo gli operai scioperano spontaneamente alla FIAT di Pomigliano: abbandonano le linee di produzione perché non ritengono sufficienti le precauzione adottate [7]. E sono tante le attività e i servizi rimasti aperti dove lavoratori e lavoratrici non sono messe nelle condizioni di lavorare in sicurezza, perché non vengono garantite le misure di protezione [8]. Chissà che luoghi di lavoro aveva in mente il Presidente di Confindustria Giovani quando definiva “irresponsabili” gli scioperi spontanei di quei giorni! [9]

Qualcuno prova a leggere i focolai epidemici nel paese anche in funzione delle attività produttive ancora operative: un discorso complesso, privo di dati certi a supporto, ma che segnala la questione reale che molti fanno finta di ignorare. Mentre il paese è fermo, con le scuole chiuse da quasi un mese (per alcune regioni del nord) e le limitazioni alle libertà personali in vigore dal 10 marzo (con il noto decreto “Io resto a casa”, che estende le restrizioni già previste al nord a tutto il paese), sono solo le attività produttive, insieme a quelle commerciali necessarie, a non fermarsi. Stampa e social network, invece, in una campagna sempre più parossistica, se la prendono con chi passeggia o va a correre.

Mentre sembra che alcune rappresentanze di Confindustria a livello provinciale e regionale siano ormai convinte dell’ineluttabilità della serrata, e d’altronde tutt’attorno lo scenario di morte e collasso sanitario è sotto gli occhi di tutti, in giro per il paese è ancora un valzer di dichiarazioni di responsabilità: “Continuare l’attività durante l’epidemia di Coronavirus non è un capriccio o un atto di incoscienza. Non lo è a Prato come non lo è in altre aree del paese. C’è un significato profondo sia economico che civico nel provare a portare avanti le nostre attività”. A parlare è Confidustria Toscana, il 19 marzo [10].

Il sodalizio degli industriali, tuttavia, non è soddisfatto. Il 20 marzo se ne esce con un documento di proposte, intitolandolo “Affrontiamo l’emergenza per la tutela del lavoro – Proposte per una reazione immediata” [11].

Da sottolineare, “per la tutela del lavoro”. Le statistiche di questi giorni, a prescindere dalle modalità di tamponamento, sono impietose (e probabilmente al ribasso [12]): salgono i morti, crescono i ricoverati, le terapie intensive in alcune Regioni sono ormai alla saturazione. In Lombardia, la locomotiva italiana, è una strage. La classe padronale – perché di responsabilità di classe nella diffusione di quest’epidemia stiamo parlando – non contenta, ancora incalza. Potrebbe andarsene in quarantena nelle ville di lusso, cogliere il danno, farsi da parte. Invece no, deve comandare, suggerire, indirizzare.

Il documento che pubblica Confindustria, in sostanza, è una richiesta di denaro pubblico, per attivare “un ingente flusso di liquidità attraverso garanzie e finanziamenti agevolati che consentano di diluire nel lungo termine l’impatto della crisi senza appesantire eccessivamente i debiti pubblici nazionali”. Favoriscono una strage e poi chiedono soldi per tutelare il lavoro, ovvero i loro saggi di profitto. Non c’è una misura che parli di lavoratori, salari, sicurezza sul lavoro, a parte questa: “la concessione, a richiesta ma senza obblighi documentali, del pagamento diretto da parte dell’INPS delle integrazioni salariali anche per le imprese che hanno riduzioni o sospensioni di orario con intervento della cassa integrazione COVID 19”. Senza obblighi documentali, paghi lo Stato, in sintesi.

L’apice lo raggiungono, però, con la richiesta di istituire un “Comitato Nazionale per la tutela del lavoro, che rappresenti un luogo permanente di confronto politico ed economico e che intervenga con immediatezza individuando le azioni, le soluzioni e le risorse di volta in volta necessarie affrontare l’emergenza nella sua evoluzione”. Formato da chi? Governo, imprese e banche [13]. Per la tutela del lavoro.

È un tic che gli parte continuamente: per parlare di impresa e profitti utilizzano l’eufemistica espressione della “tutela del lavoro”. Lo fa anche la Confederazione spagnola di [delle?] organizzazioni aziendali (CEOE), per limitarsi a un altro esempio: “mantener la actividad protegiendo el empleo [mantenere l’attività proteggendo l’occupazione]” [14].

Non c’è uscita pubblica che non metta le mani avanti in questo modo. Proteggere l’occupazione, tutelare il lavoro.

Questa retorica è tipicamente neoliberale. Non fai impresa per i profitti, ma per creare posti di lavoro, come pia concessione alla società, senza ammettere che in realtà hai bisogno di quei lavoratori proprio per estrarre i tuoi guadagni. Ecco, questa pappa che ci hanno rifilato per anni, oggi si scontra con la realtà: erano e sono evidentemente i profitti il principio del far impresa, tanto da essere disposti a sacrificare i lavoratori per assicurarseli, anche in situazioni epidemiche fuori controllo.

Il 21 marzo esce un’intervista su “la Stampa” a Vincenzo Boccia, presidente di Confindustria [15]: “Si aspettava la violenza con cui il coronavirus si è abbattuto su Bergamo?”, gli chiedono. “Dicono che le aziende non hanno chiuso anche grazie alla nostra pressione. Non ci aspettavamo un’epidemia del genere. Ma noi non siamo virologi, non è il nostro mestiere. Abbiamo sottovalutato la situazione? Può darsi. I problemi ora mi paiono altri.”

E ancora:

D: “Cosa direbbe se il governo decidesse di fermare le aziende in alcune zone del Paese?”

R: “Non spetta a noi fare queste valutazioni [ma come, e la pressione di cui sopra?] Spettano agli esperti della sanità e della politica. La Lombardia è il cuore pulsante dell’economia italiana. Se finora le aziende sono rimaste aperte, è stato per evitare di rimanere tagliata fuori da filiere importantissime della manifattura mondiale. Ora siamo entrati in una fase del tutto nuova: l’emergenza è continentale.”

D: “Quindi se sarà necessario fermare le aziende non direte nulla? È così?”

R: “Gli imprenditori sono i primi ad essere preoccupati. Per noi la cosa più semplice in questo momento sarebbe chiudere tutti i capannoni senza assumerci nessuna responsabilità né penale né nei confronti del paese. Per noi conta guardare avanti. Se il governo deve fermare tutto in alcune zone del paese, lo faccia. Non spetta a noi deciderlo. Sia chiara però una cosa: stiamo combattendo una guerra, e per non trovarsi solo con macerie bisogna occuparsene ora”. Vittimismo, omertà, paraculismo, mentre si mettono sul piedistallo della responsabilità e scaricano la patata bollente su altri: un compendio della classe imprenditoriale del belpaese.

In pratica si rivendicano le pressioni dicendo che non potevano mica sapere, ma si lasciano scappare che l’hanno fatto solo per interessi di filiera (la stessa adesso completamente saltata, comunque…), invitano ora a guardare avanti e a non concentrarsi sulla strage compiuta, e poi mostrano il loro senso di responsabilità nei confronti del paese. Quale? Quello della produzione! Le macerie di cui parlano non sono quelle della sanità pubblica, ma quelle del loro sistema produttivo.

Nella stessa edizione de “la Stampa” del 21 marzo, in un articolo si ricorda che dal 16 marzo (le misure di isolamento sociale sono del 10 marzo) “in Lombardia hanno già chiuso Brembo, Gefran, Beretta, Alfa acciai, Lonati, Lucchini, Riva acciaio, Acciaieria Feralps, per citare solo le più grandi.” A Bergamo le aziende già chiuse sono il 65%: il 35% quindi ancora lavora.

“Ma chiudere non è facile se sei Mario Gualco, meccanica di precisione, le loro viti pure sui treni USA, 10 dipendenti di cui 6 in servizio a Erba in provincia di Como, 1 milione di fatturato: «se la prendano prima con chi va a spasso. Sono loro il vero pericolo. Chiudere 15 giorni si può fare, ma ci vuole un intervento del credito e del fisco. Nei miei calcoli nei prossimi due o tre mesi ho già perso il 30% del fatturato. Non ci dorme di notte»”.

Eccoli i padroncini di provincia: prima minacciano, se la prendono con “chi va a spasso” e poi battono cassa.

“O se ti chiami Paolo Catalfamo, fabbrichetta di serramenti a 10 km da Orzinuovi, 35 morti in due settimane su una popolazione di 12 mila abitanti, 8 operai tutti a casa da mercoledì per una settimana almeno: «Spero di riaprire. Ci sono gli ordini da onorare. Fatturo 1 milione, il 50% con l’estero»”.

Ma i fenomeni sono ovunque: “Lo dice Marco Bonometti, 65 anni, presidente di Officine Meccaniche Rezzatesi vicino a Brescia e di Confindustria Lombardia: «La verità è che le aziende che si potevano chiudere lo hanno già fatto. Ora non si tratta più di un problema regionale o nazionale, ma europeo. Stanno chiudendo i gruppi internazionali, dunque serve una consapevolezza più ampia della questione e tutta l’Europa devi fermarsi»” [16].

Le viti e i serramenti non potevano non essere prodotti. Necessità, ovvero mantenere la competizione a livello europeo. Dicono ora, “chiudiamo tutti, pari e patta”, ma solo dopo un calcolo preciso: tenere in piedi la produzione fino a quando anche gli altri paesi hanno mollato il colpo (e non gli arrivano più materie prime o comande da esportare). Hanno fatto il conto delle morte per i loro schei, sulla pelle di lavoratrici e lavoratori, mai come prima proletari/e, cercando di guadagnarci fino all’ultimo minuto utile (e c’è chi ancora sta tirando sta corda della vergogna, non soddisfatto di quanto è già riuscito a mettere in cassaforte).

Siamo in guerra! Lo dice, in fondo, anche Confindustria!

Intanto si moltiplicano gli scioperi dei lavoratori nel bresciano, “perché in reparto mancavano mascherine, guanti, gel e non erano garantite le distanze di sicurezza” (e parliamo di fonderie!).

“Andrea Donegà di Fim Cisl Lombardia racconta quello che sanno tutti: «gli imprenditori dicono che in mancanza di un divieto continuano a produrre»” [17].

Nel frattempo, a Udine resta attivo il gruppo Danieli (multinazionale con sede a Buttrio, leader nella produzione mondiale di impianti siderurgici, 11 mila dipendenti nel mondo, di cui il 40% in provincia di Udine in diverse aziende controllate). Il 18 marzo è risultato positivo al coronavirus un dipendente di Danieli Automation (che ha sede sempre a Buttrio), a casa per malattia dal 13 marzo. “Il Gruppo ha in vigore ormai da due settimane una serie di misure per ridurre il rischio da coronavirus. In Danieli Automation, circa 400 dipendenti, società specializzata nell’automazione, informatizzazione e controllo dei processi siderurgici, circa il 65% degli addetti è operativo attraverso lo smart working, e quindi lavora da casa, il 18% [ovvero oltre 70 persone] è presente in azienda, il restante è in ferie. Questo ha consentito di distanziare le postazioni di lavoro per garantire le distanze di sicurezza.”, scrive il Messaggero Veneto [18].

Al 30 giugno 2018, il fatturato di Danieli ha toccato i 2,70 miliardi di euro, utile di 58,4 milioni.

È una delle tante situazioni che si presentano un po’ dappertutto. Mentre si tenta di rassicurare i lavoratori sulla loro salute, il contagio avanza anche nelle fabbriche. Il 21 marzo, arrivano dunque le dichiarazioni di apertura di Confindustria nazionale (e di quelle locali, soprattutto lombarde, che da diversi giorni sono sempre più preoccupate di essere considerate causa dell’espansione dell’epidemia). Gli imprenditori cominciano ad accorgersi che, ormai, non conviene più proseguire forsennatamente la produzione. Inizia così un confronto tra governo (sollecitato anche da alcune Regioni) e parti sociali.

“Il fronte sindacale è compatto. Quello delle imprese meno. Confartigianato, Legacoop, Confapi, Rete Imprese Italia sono per la serrata d’Italia. Confindustria frena, chiede tempo per ragionare [fino all’ultimo, dunque, continuano a raschiare il barile dei loro profitti]. Ma non è un’opposizione rigida: propone di usare gradualità, di non intervenire con l’accetta per tutti i settori e ovunque, con più severità in Lombardia e meno altrove. La riunione straordinaria di oggi, convocata da Palazzo Chigi in videoconferenza, era stata chiesta da Cgil, Cisl e Uil che avevano scritto al premier Conte chiedendogli di fare un punto sul Protocollo per la sicurezza sui luoghi di lavoro, siglato con i rappresentanti delle imprese giusto una settimana fa. E sui provvedimenti a sostegno dell’economia. Ma soprattutto per valutare la situazione nelle fabbriche” [19].

Il 21 marzo, in serata, l’annuncio di Conte: è in arrivo un nuovo decreto che prevede la chiusura di tutte le attività produttive ritenute non essenziali. Dodici giorni dopo l’estensione delle misure di contenimento a tutto il territorio nazionale. Venticinque giorni dopo la chiusura di scuole e università nel Nord Italia.

Ma non è finita. Il giorno successivo il decreto tarda. Confindustria batte i pugni sul tavolo e pretende una serrata graduale, unita alla garanzia che attività non essenziali possano ugualmente proseguire la produzione per ragioni sostanzialmente economiche [20]. Il decreto finale garantisce così l’apertura “anche [del]le attività che sono funzionali ad assicurare la continuità delle filiere delle attività di cui all’allegato [cioè quelle ritenute essenziali e strategiche]” [21] e lascia tempo alle imprese, fino al 25 marzo, per organizzare la progressiva chiusura, continuando a sacrificare la salute di lavoratrici e lavoratori sull’altare degli interessi economici. Inoltre, ulteriori spiragli sono previsti per garantire la prosecuzione dell’attività economica nelle industrie capaci di esercitare la necessaria pressione sulle istituzioni pubbliche (il decreto indica, infatti, la possibilità di continuare le attività degli impianti a ciclo produttivo continuo, anche quando non connesse all’erogazione di un servizio pubblico essenziale, “previa comunicazione al Prefetto della provincia ove è ubicata l’attività produttiva, dalla cui interruzione derivi un grave pregiudizio all’impianto stesso”).

I sindacati confederali denunciano che l’elenco delle attività essenziali è stato ampliato rispetto a quello precedentemente negoziato e minacciano mobilitazioni, fino allo sciopero generale, che tuttavia non viene ancora ufficializzato [22].

Si chiude così la cronaca di queste settimane, di una strage annunciata, consapevole, perpetrata. Mentre una nuova settimana si apre con gli scioperi in tutto il Paese e le priorità di chi lo governa appaiono sempre più evidenti.

Finito di redigere in data 23/03.

Note:

[1] https://www.confindustria.it/coronavirus

[2] https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/03/21/qui-a-bergamo-siamo-quasi-tutti-contagiati-e-i-deceduti-in-casa-li-scopriremo-fra-giorni/5744179/

[3] https://www.confindustriabergamo.it/comunicazioni/news?id=34783

[4] https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/03/20/allarme-gia-a-febbraio-ma-confindustria-bergamo-is-running/5742931/

[5] https://www.ilpost.it/2020/03/19/morti-bergamo-statistiche/; per approfondire, https://www.ecodibergamo.it/stories/bergamo-citta/quasi-mille-morti-nella-bergamascai-sindaci-ma-sono-molti-di-piu_1346006_11/. Probabilmente saremo in grado di valutare l’entità di questa strage solo quando usciranno i dati ISTAT sulla mortalità di questi mesi da confrontare con l’anno precedente.

[6] https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/03/14/coronavirus-firmato-protocollo-per-sicurezza-lavoratori-si-ad-ammortizzatori-sociali-e-pausa-attivita-conte-italia-non-si-ferma/5736397/. Il testo del protocollo è consultabile qui: https://i2.res.24o.it/pdf2010/Editrice/ILSOLE24ORE/ILSOLE24ORE/Online/_Oggetti_Embedded/Documenti/2020/03/14/Protocollo%20condiviso_docx-1.pdf

[7] https://www.ilmattino.it/napoli/cronaca/coronavirus_campania_napoli_sciopero_spontaneo_fiat_di_pomigliano-5102791.html

[8] https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/03/13/coronavirus-i-servizi-essenziali-continuano-ma-le-misure-di-protezione-non-sono-sempre-garantite-specie-nel-pubblico/5734755/

[9] https://www.open.online/2020/03/13/coronavirus-giovani-industriali-scioperi-irresponsabili-bloccare-produzione-mettere-sicurezza-intervista/

[10] https://www.lanazione.it/prato/cronaca/coronavirus-aziende-aperte-1.5074367?fbclid=IwAR0LJiBROa_8GOhJO1Qy9uvzE759yfcco6A_b4ohNBGmgIxtq7yKRfvRADM

[11] https://www.confindustria.it/wcm/connect/5159345e-3729-4c8b-9179-fc2c51aa8b03/Affrontiamo%2Bl%27emergenza%2Bper%2Bla%2Btutela%2Bdel%2Blavoro%2B-%2BSintesi.pdf?MOD=AJPERES&CACHEID=ROOTWORKSPACE-5159345e-3729-4c8b-9179-fc2c51aa8b03-n3Vx8U8

[12] https://www.francescocosta.net/2020/03/19/dati-ufficiali-illusione-ottica/

[13] https://twitter.com/dariodivico/status/1241082434537631745/photo/1

[14] https://www.elperiodico.com/es/economia/20200315/ceoe-cepyme-ayudas-coronavirus-7890520

[15] La Stampa, edizione cartacea del 21 marzo

[16] La Stampa, edizione cartacea del 21 marzo

[17] La Stampa, edizione cartacea del 21 marzo

[18] https://messaggeroveneto.gelocal.it/udine/cronaca/2020/03/19/news/coronavirus-primo-caso-alla-danieli-automation-dipendente-positivo-1.38613357

[19] https://www.repubblica.it/economia/2020/03/21/news/chiudere_le_fabbriche_il_premier_conte_convoca_imprenditori_e_sindacati-251907191/

[20] https://www.repubblica.it/economia/2020/03/22/news/caos_serrata_confindustria_al_governo_non_si_puo_chiudere_tutto_scrivete_bene_il_decreto_-251987770/

[21] Il testo del decreto: https://www.gazzettaufficiale.it/atto/serie_generale/caricaDettaglioAtto/originario?atto.dataPubblicazioneGazzetta=2020-03-22&atto.codiceRedazionale=20A01807&elenco30giorni=true

[22] https://www.adnkronos.com/soldi/economia/2020/03/22/decreto-sindacati-accusano-non-era-questo-elenco-concordato_zyUIKAPJiqXaXRc4N8tMjN.html?refresh_ce

Seconda parte

Fase due. Facciamo partire la ripresa, è l’ora di ripartire, il paese non può permettersi di perdere altro tempo: questo è ciò che sentiamo ripetere dall’inizio di aprile, quando i dati ufficiali relativi alla diffusione dell’epidemia di SARS-CoV-2 hanno iniziato a mostrare un rallentamento dei contagi [1].

Come nel periodo immediatamente precedente, la costante resta sempre la stessa: il ruolo spudorato, infame e affarista di Confindustria [2]. Quest’ultima, dopo aver parzialmente ammesso alcuni errori di valutazione nelle province focolaio dell’epidemia (senza tuttavia assumersi veramente le responsabilità di quegli errori), ha ripreso il solito refrain: produzione a tutti i costi e “ripartenza” immediata, anche dei settori “non essenziali”.

L’urgenza di ripartire è ovviamente tutta politica. Un’indicazione sulla possibile “riapertura” la fornisce, ad esempio, il pediatra e ricercatore Ernesto Burgio, tra i pochi che, senza facili ottimismi, ha affrontato con franchezza la natura dell’epidemia. Dopo aver notato che “essendo un virus respiratorio, il 90% dei contagi avvengono tra persone che hanno un rapporto diretto, che hanno un’esposizione ravvicinata, in ambienti chiusi. Cioè: famiglia, luoghi di lavoro e purtroppo ospedali. È molto difficile che ci si contagi per strada“, l’esperto ha infatti dichiarato: “Credo che dovremo sperare di poter avere una parziale riapertura di alcune parti del circuito economico-finanziario intorno a metà maggio, sempre che si confermi la quasi-scomparsa dei casi. Non prima, però, di aver valutato attentamente altre priorità: “la riflessione e gli investimenti dovranno essere indirizzati a ristrutturare quel sistema sanitario nazionale che è stato letteralmente devastato negli ultimi 15-20 anni di politiche liberiste e di privatizzazioni. E chiosando: “Se non riusciremo a farlo rapidamente è evidente che una possibile/probabile seconda fase sia peggio della prima. Quindi sì alla ripresa dell’economia, ma rafforzando il sistema sanitario, e aiutando i cittadini ad avere una diversa consapevolezza: a essere informati, formati e protetti” [3].

Come ha notato ancora Silvio Paone, dottore di ricerca in Malattie Infettive, Microbiologia e Sanità  Pubblica, “tutti i dati ci indicano che una riapertura frettolosa potrebbe avere conseguenze terribili su una situazione che proprio in questi giorni inizia a ridimensionarsi ma che resta comunque drammatica ed allarmante.” [4]

In realtà, ciò che è mancata è stata – piuttosto – proprio la “fase 1”. Il governo ha infatti disposto la chiusura delle aziende non essenziali, ma – tra un elenco estremamente ampio di attività considerate strategiche, le deroghe e le “furbizie” (parola, questa, amatissima dalla stampa mainstream delle ultime settimane) – sono numerosissime le imprese ancora funzionanti: 71 mila sono soltanto quelle in deroga [5], localizzate per il 65% nelle regioni più colpite dall’epidemia (Lombardia, Veneto, Piemonte ed Emilia Romagna) [6].

È questo il risultato delle famose autocertificazioni, quelle che contano veramente: mentre è tutto un j’accuse e una polemica sulle dichiarazioni individuali per poter uscire di casa (le cui versioni sono, ormai, infinite e incomprensibili), nessuno pare essere in grado di porre il tema della pericolosità insita nelle autocertificazioni inviate dagli industriali alle prefetture di tutta Italia, documenti che permettono di proseguire con la propria produzione senza ulteriori formalità.

Secondo i calcoli effettuati dall’ISTAT, il decreto dell’11 marzo imponeva la chiusura o l’obbligo di lavoro da casa per circa metà delle aziende italiane e, tuttavia, solo un terzo della produzione italiana si è effettivamente fermata. Considerando il numero degli occupati (tra cui anche gli impiegati pubblici), le persone che ancora lavorano in Italia sono pari circa ai due terzi del totale complessivo: più o meno 15,5 milioni di lavoratori (compresi però anche quelli in smart working) [7].

La CGIL Lombardia, ad esempio, stima che sui 1,61 milioni di lavoratori attivi in Lombardia prima del 25 marzo soltanto 30mila persone si siano fermate, dopo l’emanazione del dpcm disponente la chiusura della produzione non essenziale. [8]

Tante sono le segnalazioni sul proseguimento di numerose attività lavorative, anche nelle aree più colpite dall’epidemia. Off Topic News, ad esempio, ha testimoniato come a Milano “il sindaco Sala ha annunciato la ripresa dei lavori in 55 cantieri […]sotto la pressione di costruttori e immobiliari. Più in generale, la testata ha sottolineato “la pressione congiunta di Confcommercio a Milano e delle Confindustrie di Lombardia, Veneto, Piemonte ed Emilia-Romagna […] le zone del paese che rappresentano il 45% del PIL nazionale e i 2/3 dell’export italiano, dove più estesi sono il tessuto manifatturiero e i luoghi di lavoro ad alta concentrazione di persone e dove maggiore è stata anche la mortalità.” [9]

Un altro esempio paradigmatico è quello di Piacenza, dove più di 1200 aziende hanno richiesto la deroga per proseguire la propria attività [10]. Diversi infermieri piacentini si sono ribellati a questa situazione, lanciando un appello: “Noi operatori sanitari di Piacenza abbiamo fatto l’impossibile per tutelare la salute di tutti i cittadini, tutti e tutte, nessuno escluso, anche di coloro che si sono messi a rischio, in barba a decreti e provvedimenti. […] Sembrava la fine di una strage senza precedenti. Ora queste autorizzazioni ci fanno temere un pericoloso colpo di coda: non siamo ancora in fase di ripresa, stiamo ancora risolvendo la fase di picco! Davvero vogliamo vanificare gli sforzi? Davvero vogliamo correre il rischio di dover affrontare una nuova fase di emergenza con ripercussioni ancora peggiori sul sistema sanitario e sull’economia? State a casa, fermate le attività ancora per qualche giorno. Invertite la rotta o saremo noi infermieri a fermarci” [11].

Oltre 5000 sono le aziende bresciane che dall’otto aprile hanno comunicato alla Prefettura di Brescia la riapertura a suon di deroghe e cavilli, appellandosi al fatto che le proprie produzioni sono “indispensabili” al sostegno della filiera giudicata essenziale [12].

Le richieste di deroga cadono a piogga, e – valendo il silenzio assenso – non c’è neanche modo di controllarle tutte: “[Al 5 aprile] la prefettura era riuscita ad analizzarne circa 500 – commentava Francesco Bertoli, segretario della Camera del Lavoro – ma intanto le altre sono comunque ripartite, sempre che si fossero fermate”. E il problema non è solo rappresentato dalle grandi aziende, ma anche dalle medie e dalle piccole, “quelle in cui non sempre c’è il sindacato a controllare” [13].

Nell’area del Sebino sono stati proclamati 11 giorni di sciopero alla Lucchini, grande gruppo dell’acciaio con stabilimenti a Cividate, Camuno e Lovere, ossia a cavallo delle province di Brescia e Bergamo, zone ormai devastate dal Covid19. Secondo i sindacati, lo sciopero si è reso necessario per “contrastare l’atteggiamento cieco della Lucchini Rs, che intende riaprire la produzione” e con la quale “non è stato possibile concordare nulla, in ottica di prevenzione e tutela della salute dei lavoratori” [14].

In Veneto, “tirate le somme, su 550mila imprese grandi e piccole, solo il 20% non ha subito il lockdown ma la necessità di resistere al mercato ha fatto scattare l’offensiva. L’offensiva degli industriali, in pratica, è chiaramente ideologica: non chiudono come fanno credere, ma – nella logica vittimistica del “chiagni e fotti” – si mettono nella posizione di accaparrarsi rendite e profitti spremendo al massimo le risorse (forza lavoro e aiuti di stato) che la situazione gli consente.

La stampa del 9 aprile continua: “E sui tavoli dei prefetti sono arrivate 15 mila domande, con Padova e Treviso a guidare la carica, rispettivamente con 3300 e 2000 richieste di ripresa delle attività” [15].

Gli industriali da settimane sbraitano sulla grossolanità dei criteri adottati per determinare la chiusura delle fabbriche, sulla rigidità del codice ATECO, sull’essenzialità di ogni cazzo di componente prodotta (che guarda caso, nella narrazione industriale, serve sempre per un macchinario ospedaliero, un respiratore, un servizio strategico). L’industria italiana, improvvisamente, si scopre improntata all’altruismo: ogni fabbrica, azienda, ufficio produce almeno un componente essenziale alla salute pubblica, è parte di una filiera necessaria a tutelare la collettività, è operativa – insomma – per il nostro bene.

Tra le richieste arrivate alle prefetture, per fare qualche esempio, c’è anche quella di un’azienda che produce passeggini nel bresciano. Il motivo riportato nella richiesta di deroga? L’azienda vende sul sito Amazon, che essendo nel settore della logistica può tenere aperto [16]. In pratica, per gli industriali italiani è da tenere aperta ogni attività, semplicemente perché i propri prodotti vengono scambiati sul mercato. Amazon come passpartout, dunque, a rimarcare l’ontologica connotazione regressiva della maxi-piattaforma dell’e-commerce. La faccia degli industriali come il culo, a raccontare una volta di più le storie di impresa di questo paese.

Per non parlare dell’industria bellica, neanche lontanamente messa in discussione dalle misure di lockdown. Così a Taranto, dov’è ormeggiata per manutenzione la portaerei Cavour, alla fine di marzo ancora si lavora, perché si deve rispettare la tabella di marcia decisa da Fincantieri e Ministero della Difesa. In realtà, i lavori sono ormai conclusi: “stiamo lucidando maniglie, testimonia un operaio in appalto [17]. Nel bel mezzo di una pandemia, padroni e generali si mostrano sorprendentemente simili: la guerra, in fondo, non è nient’altro che produzione di morte.

Mentre si invoca lo sforzo della popolazione – con il corredo dei “restate a casa”, delle delazioni, degli episodi insulsi – i dati sul trasporto pesante stanno là a dimostrare qualcos’altro. Con sorpresa della sola redazione di Repubblica, il traffico pesante (in parte legato alla distribuzione alimentare, ma anche connesso a produzione industriale e altre attività) è diminuito nel mese di marzo solo del 25% [18].

Off Topic News argomenta: “I dati sugli spostamenti monitorati dalla piattaforma Covid-19&Mobility conferma che la maggioranza dei movimenti delle persone è dovuto a motivi lavorativi o di sopravvivenza (fare la spesa, andare in farmacia), come dimostra il picco delle persone a casa nei fine settimana (77% il 28-29/03) e una media infrasettimanale del 65%” [19].

E tante altre sono le industrie, le aziende, gli stabilmenti che scalpitano per ripartire. Tra queste, anche la Fincantieri di Monfalcone, che conta migliaia di lavoratori/trici, pronta a riaprire i battenti già il 6 aprile [20].

Il ruolo di Confindustria si conferma, senza alcuna sorpresa, il medesimo dall’inizio dell’epidemia: garantirsi i profitti con il mantenimento delle filiere, variando il registro retorico a seconda delle occasioni (qua minimizza, là invoca la responsabilità, poco oltre si smarca con un “non è il momento delle polemiche” per, infine, rilanciare l’insopportabile discorso sull’utilità della propria linea produttiva) [21].

Perfino le tardive ammissioni di aver sottovalutato l’epidemia, come evidentemente ha fatto la comunità affaristica italiana, non trovano d’accordo tutti. Bonometti (Presidente di Confindustria Lombardia), per esempio, ancora dichiara: “Il vero errore è stato quello di lasciare che la gente andasse in giro, andasse nei bar, nei ristoranti, nelle discoteche, rigettando così qualunque responsabilità dei padroni delle attività produttive.

Alla domanda su come si possa spiegare, allora, la strage avvenuta in Lombardia e nella bergamasca, la risposta di Bonometti è la seguente: “Ci sono diverse ragioni: innanzitutto qui c’è una presenza massiccia di animali e quindi c’è stata una movimentazione degli animali che ha favorito il contagio, parlo degli allevamenti, e questa potrebbe essere una causa. Gli animali. Anche di fronte all’ecatombe di morti, mantengono quell’aria tra il cialtrone e l’arrogante, tipica del padroncino arricchito: un’intera categoria sfigurata in volto da fatture e bilanci, che vagheggia, intimidisce, prova a colpire, con il culo comodamente appoggiato al sedile di una Porsche. E che si permette di prendere in giro chi rischia la propria salute per andare in fabbrica.

In che senso, mi scusi? Gli animali non sono considerati veicolo di contagio di questo virus.

Se non sono stati ritenuti veicolo di contagio, non c’è spiegazione, anche se un’altra causa è che si tratta di zone densamente popolate da industrie e quindi la movimentazione delle merci e della gente ha certamente favorito. Non all’interno delle fabbriche, però, perché le fabbriche sono considerate per noi i luoghi più sicuri” [22]

Non all’interno della fabbriche: di questo, noi – costretti tra qualche metro quadro in affitto, un’autocertificazione e il lavoro – dobbiamo stare certi.

La cartina al tornasole di questa insopportabile retorica è rappresentata dai numeri dei controlli promossi dalle forze di polizia: ben tre milioni di accertamenti condotti nel solo mese di aprile, di cui più di 120mila tramutati in sanzioni amministrative [23]; controlli condotti nelle strade deserte, alle poche persone che si avventurano a fare la spesa o una passeggiata, che sono costrette ad andare al lavoro o che cercano un po’ di aria attraverso “normalissime evasioni” [24]. Per quanto riguarda gli accertamenti promossi nelle aziende, risulta invece impossibile trovare un’indicazione numerica complessiva, il che la dice lunga sull’importanza che le istituzioni stanno dando all’argomento.

Sulla stampa, intanto, viene pubblicata la scoperta dell’acqua calda: secondo l’Inail Piemonte, “sono circa 500 i casi di infezione sul lavoro da coronavirus denunciati in Piemonte e quasi 300 riguardano la provincia di Torino; tutti i casi accertati faranno scattare la piena tutela dell’Inail, come per gli altri infortuni o malattie, già a partire dal periodo di quarantena” [25]. È una notizia tutto sommato ovvia: nell’Italia delle misure di distanziamento fisico in vigore da settimane, gli unici luoghi del contagio sono le abitazioni (dove in quarantena sono “isolati” i positivi a SARS-CoV-2 con sintomi lievi o asintomatici), gli esercizi commerciali ancora aperti e le attività produttive in funzione.

Il 9 aprile, sempre sulla Stampa, Paolo Scudieri, presidente del gruppo Adler (componentistica dell’auto) e di Anfia (associazione di Confindustria che riunisce le imprese del settore automotive) dichiara fermamente: “Noi diciamo che la fabbrica è il luogo più sicuro dal punto di vita della salute” [26].

La dichiarazione è pura propaganda: a prescindere dal Covid19, l’Italia conta normalmente tre morti sul lavoro al giorno [27] e nei primi due mesi del 2020 le denunce di infortunio pervenute all’Inail sono state oltre 95 mila [28].

D’altronde, prima del Covid19, l’86% delle aziende controllate nell’anno 2019 dall’ispettorato del lavoro non rispettavano le norme su salute e sicurezza dei lavoratori [29]: perché dovrebbero iniziare a farlo ora? Per senso di responsabilità?

Mentre piove una montagna di liquidità sulle imprese – con gli oltre 400 miliardi stanziati dal governo come garanzia, senza alcuna contropartita se non generiche dichiarazioni di intenti sul rispetto delle misure di sicurezza – continua la baraonda di documenti, lettere e dichiarazioni degli industriali.

L’oggetto del contendere è ormai quello della famigerata “fase 2”, con le Confindustrie del Nord in prima linea nello sproloquiare in proposito.

In un documento dell’8 aprile intitolato “Agenda per la riapertura delle imprese e la difesa dei luoghi di lavoro contro il Covid-19” [30], tra le altre cose dichiarano:

– “In questo gravissimo contesto, la salute è certamente il bene primario, e ogni contributo affinché si possano alleviare e contrastare le conseguenze dell’epidemia è cruciale. […] Dobbiamo tuttavia essere consapevoli che all’emergenza sanitaria seguirà una profonda crisi economica: dobbiamo quindi essere in grado di affrontarla affinché non si trasformi in depressione e per farlo abbiamo bisogno innanzitutto di riaprire in sicurezza le imprese.

– “Prolungare il lockdown significa continuare a non produrre, perdere clienti e relazioni internazionali, non fatturare con l’effetto che molte imprese finiranno per non essere in grado di pagare gli stipendi del prossimo mese.

– “Chiediamo quindi di definire una roadmap per una riapertura ordinata e in piena sicurezza del cuore del sistema economico del Paese. È ora necessario concretizzare la “Fase 2”.

– “Occorre uscire dalla logica dei codici ATECO, delle deroghe e delle filiere essenziali a partire dall’industria manifatturiera e dai cantieri. È una logica non più sostenibile e non corretta rispetto agli obiettivi di sanità pubblica e di sostenibilità economica. Il criterio guida è la sicurezza.

– “In sintesi, occorre ripartire rapidamente per dare al Paese, alle imprese e ai lavoratori un’agenda chiara ed un quadro certo in cui operare.

Già dal 6 aprile, Confindustria Udine e Alto Adriatico, Confartigianato e altre categorie economiche, chiedono a gran voce di ripartire [31].

Il governo, nelle ipotesi sulla fase 2, non a caso ha già impostato la road map su questo schema: prima le imprese, poi le persone [32].

Il 9 aprile, sulla carta stampata, escono le prime indiscrezioni sulla discussione in corso tra governo, Confindustria ed esperti. Questi ultimi dicono apertamente: “per noi le condizioni per ripartire non ci sono. E tanto meno per mandare la gente a spasso. Ma se proprio si deve, limitiamo la ripartenza a qualche comparto industriale più essenziale e seguendo le misure di sicurezza che vi suggeriamo”. A cui Conte risponde: “Non posso fare quello che voi dite, l’economia deve ripartire o il Paese rischia di fallire” [33].

Confindustria Udine, a trazione Danieli, evidentemente non si fida delle rassicurazioni. Non trovando niente di meglio, lancia una petizione per proporre Mario Draghi come presidente del consiglio [34]. Ad ognuno i suoi bisogni.

Nelle province di Udine e Pordenone, le aziende che non hanno mai chiuso sono 1677, mentre scalda i motori la Danieli di Buttrio (UD), pronta a ripartire il 14 aprile [35].

Non soddisfatta, la presidentessa di Confindustria Udine si permette persino di dichiarare: “si rischia una strage” [36]. Una strage, spesso silenziosa, è già in corso, ma i timori degli industriali si indirizzano esclusivamente a ricavi e fatturati. Non è necessario alcun giudizio morale – un padrone non è cattivo, è solo un padrone – basta solo la constatazione che la strage, quella vera, è invece l’effetto di quanto vanno evocando: i profitti, le filiere, le commesse.

Il virus nel frattempo dilaga. In provincia di Udine – da Paluzza a Mortegliano – si cade come in guerra, nelle RSA e nelle case di riposo [37].

Ma la parola d’ordine per gli industriali, qualora non fosse ancora chiaro, è una sola: riapertura!

Il campo viene preparato minuziosamente con dichiarazioni ad hoc e una lunga campagna pubblica sulla necessità di ripartire, sciorinata dagli inizi di aprile in modo martellante, scomposto e ricattatorio.

Il 3 aprile, tra le altre cose, viene siglato un accordo tra Confindustria e il Commissario straordinario Domenico Arcuri, per rispondere all’emergenza Covid-19 sostenendo la continuità produttiva delle imprese e garantendo la tutela della salute dei lavoratori [38]. L’oggetto principale del concordato è rappresentato dalla fornitura delle famose mascherine, dispositivi – come notano i WuMing – diventati una sorta di talismano, simbolo di efficienza nell’affrontare le necessità del momento, cioè quelle degli industriali [39].

All’approssimarsi della scadenza del decreto sulle misure di contenimento del Covid-19 – prevista per il 13 aprile – cresce così il dibattito tra governo, imprese, parti sociali ed esperti. Il 9 aprile, la segretaria della Fiom dichiara in merito: “Le pressioni di Confindustria e degli industriali sono cieche – afferma -: più dura l’epidemia, più a lungo l’economia non si riprenderà. Deve essere la comunità scientifica a dirci quando sarà il momento di riaprire”. Per la sindacalista “le regioni del Nord sono proprio i territori in cui il disastro sanitario sta impattando di più anche perché non sono state fatte le chiusure delle imprese nell’immediato, e Bergamo ne è la dimostrazione” [40].

Per gli industriali, la famigerata “fase 2” non sarà poi molto dissimile dalla situazione già in atto: il momento della ripartenza è in realtà un fantasma mediatico da agitare a seconda delle convenienze.

Nel frattempo arrivano anche le decisioni del governo in seguito al confronto con le parti sociali, le cui indiscrezioni parlano di una proroga fino al 3 maggio delle misure restrittive. “Tranne marginali aggiustamenti riguardanti attività connesse ai servizi essenziali, ha spiegato Giuseppe Conte, il resto rimane chiuso fino a nuove decisioni del governo” [41].

“Il resto” è proprio questo: le poche attività industriali rimaste davvero chiuse, i grandi gruppi operanti nel terziario tagliati fuori dalle misure di contenimento, ma soprattutto la selva di artigiani, piccoli produttori, partite-iva e micro-imprese.

Quest’ultimi, spesso equiparabili alla moltitudine di dipendenti precari per salario e condizioni di vita, sono gli unici non-salariati che stanno pagando di tasca propria l’emergenza sanitaria e la necessità (reale) di limitare il più possibile la diffusione dell’epidemia: i soli “indipendenti” che lavorano per tirare a campare e non per accumulare profitti o maxi-bonus, fra i pochi ad aver effettivamente chiuso i battenti delle proprie attività, non disponendo così di un reddito e dovendo sperare di rientrare nelle categorie beneficiarie del fantomatico bonus di 600 euro.

Ai padroni delle grandi industrie, tuttavia, la situazione attuale non basta, e così continuano a rimestare la merda che scaricano su sanità, bilanci e salute collettiva.

Tocca questa volta a Giuseppe Pasini, presidente di Confindustria Brescia (provincia epicentro della strage, seconda in Italia per numero di contagiati assoluti, quinta per contagi sulla popolazione) e proprietario del gruppo siderurgico Feralpi (1,3 miliardi di fatturato, 1500 dipendenti, fermo dal 16 marzo).

– “Francamente non me lo aspettavo [la proroga fino al 3 maggio]. Tutta Confindustria è perplessa, si figuri chi vive e lavora a Brescia, nell’area più a rischio, dove ci sono stati tanti contagiati e decessi.

La perplessità, frammista all’odio, in realtà è di chi legge. L’intervistatore, non a caso, incalza:

– “Non dovreste essere proprio voi i più sensibili alla salute?

– “Certamente è la priorità, ma bisogna chiarire che aprire in sicurezza non compromette nulla.

E poco oltre, di nuovo, il mantra della sicurezza aziendale.

– “Nelle nostre aziende le persone sarebbero più sicure che fuori. Impedire il lavoro senza controllare che la gente vada a fare le passeggiate o le scampagnate, come abbiamo visto questa settimana, non ha senso.

Tre milioni di controlli contro quanto?

Pasini continua fra codici ATECO, chiusura delle aziende bresciane per la perdita delle commesse all’estero e una lieve ammissione che negli ultimi giorni le aziende stanno effettivamente riaprendo, ritornando poi all’affarismo di sempre: “A Brescia [la nostra azienda è chiusa] totalmente dal 16 marzo, con 850 dipendenti in cassa integrazione, mentre la parte tedesca tra Dresda e Lipsia va alla grande: almeno lì si fattura. Conclude, infine, con un cenno sulla pioggia di liquidità prevista dal governo: “È un pacchetto virtuale sotto scacco della burocrazia, la rovina dell’Italia” [42].

Al 16 aprile, in Italia si contano ufficialmente 22.170 morti per Coronavirus (di cui oltre 11mila nella sola Lombardia), circa 3.000 persone sono ricoverate in terapia intensiva, 169.000 sono state contagiate. Quante fatture per ogni caduto?

Dello stesso registro le dichiarazioni di Maurizio Lupi, uno dei simboli del comitato d’affari lombardo (sanità/comunione&liberazione/confindustria/politicalocale), che al diffondersi delle ultime indiscrezioni posta prontamente sui social: “Leggo che ripartiremo dopo il 3/5, ma pochi giorni fa Conte aveva detto che eravamo pronti per la fase 2. Il Paese non può stare fermo altri 24 giorni. La vita non è solo quella biologica. Abbiamo il dovere di salvare il nostro #MadeInItaly. Con gradualità, ma dobbiamo ripartire” [43].

Nella serata del 10 aprile, Conte ufficializza in conferenza stampa la decisione del governo: prolungamento delle misure in corso fino al 3 maggio, con la sola riapertura di librerie, studi professionali e negozi per bambini. Tutto continua come prima, dunque, ma con le rassicurazioni del caso. “Il secondo segnale di Conte mira a tacitare lo scontento del mondo imprenditoriale. È quell’invito alle imprese di sanificare le proprie strutture: una sorta di «preparatevi e abbiate fiducia» che forse aprirete prima. Accompagnato da una frase evocativa di più orizzonti: «prometto che se anche prima del 3 maggio si verificassero le condizioni, cercheremo di provvedere con ulteriori aperture. Non possiamo aspettare che il virus sparisca. Dobbiamo ripensare le nostre organizzazioni di vita»” [44].

Ovunque, dopo le ultime decisioni del presidente del consiglio, circola il timore che i cittadini “rompano le righe”. Tradotto in un’altra prospettiva, che le persone si accorgano del bluff, chiusi in casa e impossibilitati a muoversi all’aria aperta anche in sicurezza e mantenendo il distanziamento fisico, quando invece imprese e moltissimi altri luoghi di lavoro proseguono le attività provocando proprio quegli assembramenti in luoghi chiusi da cui gli esperti mettono in guardia.

Chi lavora lo sa, e se ne accorge. Per questo, di nuovo, la prospettiva dello sfruttato svela sempre con maggior chiarezza la verità dietro la cortina fumogena che avvolge il paese.

Le dichiarazioni di Conte provocano, però, anche un nuovo giro sulle montagne russe della miseria dell’impresa. Tocca questa volta a Gabriele Buia, presidente dell’Associazione nazionale dei costruttori. Vale la pena ricordare che i cantieri edili, nel nostro paese, sono tra i luoghi di lavoro più insicuri, costellati da sfruttamento e lavoro nero.

Riaprono le librerie? Con tutto il rispetto per la cultura, ma i libri non si possono comprare su internet? Sono pazzi. Quale beneficio economico pensano di produrre in questo modo? E la sicurezza come pensano di garantirla?” [45].

È proprio la domanda che ci piacerebbe fargli, sotto interrogatorio però.

Inutile aggiungere, poi, che anche il settore culturale ha lavoratori e lavoratrici che non se la passano bene [46], anche qui è tuttavia evidente che il beneficio economico di cui parlano si misura non in salari, o in ricchezza collettiva, ma in utile netto, che i padroni si intascano sulla pelle di una popolazione mandata al macello.

Ma è al buio di Buia che bisogna tornare. Perché pare sempre più evidente che quanto pronuncia Conte – “dobbiamo ripensare le nostre organizzazioni di vita” – rischia di toccare esclusivamente l’esistenza di individui, sfruttati/e, precari/e e poveri/e, senza tangere minimamente l’organizzazione delle imprese e il loro modo di produrre. Non a caso, il presidente dell’Associazione nazionale dei costruttori insiste proprio su cantieri e investimenti: come se la cura del cemento fosse una verità inconfutabile che non può essere messa in discussione neanche da una crisi pandemica come quella attuale.

Dobbiamo per forza accelerare tutti i processi e questo rinvio non fa bene al settore perché ormai siamo alla stremo“, dichiarano dal settore delle costruzioni. Aggiungendo, in questa perenne oscillazione tra polemica e richiesta di denaro: “Ci aspettavamo un po’ più di attenzione, perché superata l’emergenza sanitaria la grande sfida sarà sugli investimenti infrastrutturali che saranno i primi a partire” [47].

La crisi colpisce a fondo il sistema economico, e può provocare effetti imprevedibili, disoccupazione di massa e nuova precarietà, come anche ristrutturazioni imponenti e accelerazioni repentine nella composizione del capitale e nell’organizzazione complessiva dei comparti produttivi e logistici. Come scrivono dalla Grecia, paese che ha già sperimentato sulla propria pelle gli effetti di una ristrutturazione violenta ad opera della cosiddetta “Troika”:

Senza ignorare l’importanza della Salute pubblica, che è attualmente messa a dura prova da parte di un virus incontrollato, riteniamo che il nucleo della gestione pandemica non sia tanto di ripristinare la sicurezza sanitaria, quanto di affrontare le sue conseguenze devastanti sull’economia. Lo scoppio della pandemia non si è verificato in un tempo storico neutrale, ma durante cambiamenti epocali, avviati, almeno nell’ultimo decennio, dallo scoppio della crisi capitalista globale. È un dato di fatto, quindi, che la gestione della crisi sanitaria sia incorporata nella più ampia gestione della crisi del sistema e dei deadlock che si sono creati. […] Pertanto, l’arresto della produzione, la riduzione o l’annientamento dei profitti e l’accumulo di debiti per un certo numero di settori strategici (turismo, energia, commercio), creeranno un radicale riarrangiamento del mercato con chiusure aziendali e licenziamenti di massa” [48].

La corsa al riarmamento di quella che da più parti viene definita “economia di guerra” è quindi il nocciolo duro delle pressioni dei capitali e del settore imprenditoriale: nella dinamica del capitale – che più che un blocco monolitico, è l’esito dinamico della composizione di articolazioni e interessi – si tratta di mettersi in una posizione di forza, acquisire vantaggi strategici che permettano di guadagnare terreno nella rincorsa allo sfruttamento di risorse e forza lavoro.

Perché anche di forza lavoro bisognerà parlare e, sulla base dei nuovi fabbisogni dell’organizzazione capitalista, valutarne le conseguenze sull’economia complessiva. “Di quanta forza lavoro ha attualmente bisogno il capitalismo, e di quanta ne avrà bisogno domani? Quali dimensioni è destinata a raggiungere la schiera degli inutili al mondo? La necessità di serrare le vite di tanti uomini e donne alle catene del lavoro salariato con la prigione, il marchio a fuoco e con la forca, quali corrispondenze conserva con l’oggi? E ancora, quali porzioni di territorio restano da colonizzare per dar sfogo, isolare e valorizzare, come in passato, chi è di troppo?” [49].

Tra gli annunci di Conte, ce n’è uno interessante sotto questo profilo: la costituzione di una task force di esperti, guidata dal manager Vittorio Colao, che avrà il compito di “dedicarsi alla ricostruzione del Paese dopo il coronavirus, producendo proposte capaci di modificare la «qualità della vita», «ripensare modelli di vita sociale» e della organizzazione del lavoro” [50].

Il comitato d’affari lavora dunque su più fronti, in una guerra permanente che ha dichiarato ad intere popolazioni. Il suo interesse diverge ormai radicalmente dallo stesso obiettivo della sopravvivenza, in un processo che, a guardarlo fino in fondo, appare del tutto irreversibile. Lavoro e salute, oggi, non sono conciliabili. L’impresa, e l’organizzazione stessa della produzione, sono sempre più incompatibili con una gestione collettiva della crisi epidemica. La frattura sociale si estende, non c’è più tempo né modo per una sua ricomposizione, neanche di facciata. Tuttavia, il capitalismo non è per questo in crisi, ma nutre la propria accumulazione sulla crisi, è la crisi stessa. E in ogni crisi, nessun esito è scontato. Resta da sciogliere perciò il nodo fondamentale: chi riorganizzerà gli ambiti della vita e del lavoro? Saranno un’altra volta quelli del diktat a fatturare? E in che modo? Con la violenza di nuovi morti e nuove oppressioni? Permetteremo questo?

Finito di redigere in data 17/04

AGGIUNTA AL TESTO DEL 17/04

Ieri Confindustria ha trovato il tempo di eleggere il suo nuovo Presidente nazionale: si tratta di Carlo Bonomi, precedentemente a capo di Assolombarda, l’associazione di categoria dell’area di Milano, Monza, Brianza e Lodi. Supportato da Bonometti, presidente di Confidustria Lombardia (citato nel nostro testo per l’ottusità delle sue dichiarazioni), appartiene all’ala stragista del conglomerato padronale. Mentre riceveva le entusiastiche congratulazioni di Attilio Fontana (Presidente della Regione Lombardia), tra le sue prime dichiarazioni da neo-Presidente si segnalano: “occorre far riaprire le produzioni” e “non pensavo di sentire più l’ingiuria che le imprese sono indifferenti alla vita dei propri collaboratori. Sentire certe affermazioni da parte del sindacato mi ha colpito profondamente. Credo che dobbiamo rispondere con assoluta fermezza”. La sua elezione è una dichiarazione precisa: significa “ci rivendichiamo tutto”. Il modello Lombardia, che è poi il modello Italia, non può far altro che combattere la sua guerra fino in fondo, non facendo altro che confermare quanto abbiamo scritto: per usare le loro sporche parole, occorrerà senz’altro assoluta fermezza. [51]

Note

[1] Sui dati ufficiali e quelli reali dell’epidemia ci sarebbe molto da discutere. Proprio in quei giorni sono uscite le prime statistiche dell’ISTAT sulla mortalità generale ( http://www.salute.gov.it/portale/caldo/sismg/SISMG_sintesi_2020w11.pdf), uno dei pochi dati affidabili perché ottenuti attraverso campionamenti omogenei: come previsto, si è trattato di un massacro avvenuto silenziosamente tra le mura di casa, delle RSA e delle case di riposo. Sui comuni di cui abbiamo a disposizione i dati, l’ISTAT ha fatto un raffronto tra le prime tre settimane di marzo e le media dello stesso periodo negli ultimi cinque anni. Risultato: decessi raddoppiati nel nord Italia, in provincia di Bergamo quadruplicati (a Bergamo, solo la metà di questo incremento di mortalità è riconducibile “ufficialmente” a Covid19; oltre 2000 morti non sono stati testati…) – tra i morti in eccesso c’è da fare poi la distinzione tra diretti da Covid19 senza tampone e indiretti (cioè dovuti, per esempio, al collasso del sistema sanitario, ecc.)

Qui una prima lettura: https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/04/01/coronavirus-diretta-istat-nel-nord-italia-i-decessi-sono-piu-che-raddoppiati-nei-primi-21-giorni-di-marzo-a-bergamo-mortalita-337-conte-firmato-dpcm-restrizioni-prorogate-fino-al-13-apr/5756205/

Qui una mappa con gli incrementi che possiamo calcolare: https://twitter.com/matheusagaso/status/1245399244565090305/photo/2

Qui una mappa che rappresenta visivamente la situazione di Bergamo: https://twitter.com/RossanoGuerri/status/1245473070841769987/photo/1

Qui una spiegazione di perché le previsioni ufficiali non sono affidabili: https://www.ilpost.it/francescocosta/2020/04/12/i-dati-ufficiali-non-avevano-senso-prima-e-non-hanno-senso-adesso/

[2] Per una ricostruzione dettagliata del ruolo di Confindustria nella gestione dell’epidemia, si può vedere il testo “Siamo in guerra: storia di una strage” https://web.archive.org/web/20200323235136/https://www.facebook.com/notes/collettivo-tilt-resistenze-autonome-precarie/siamo-in-guerra-storia-di-una-strage/626425264586539/

[3] https://it.businessinsider.com/ernesto-burgio-2-o-3-cose-che-so-su-questa-pandemia-quando-riaprire-dove-ci-si-contagia-gli-errori-da-non-rifare/

Ernesto Burgio, diverse settimane prima, aveva approfondito in una trasmissione radiofonica alcuni aspetti relativi all’epidemia di SARS-CoV-2: https://www.ondarossa.info/redazionali/2020/03/coronavirus-origini-effetti-e

[4] https://www.facebook.com/DatiAnalisiCoronavirus/posts/127320662221451?__tn__=-R , dove si può leggere un buon approfondimento che mette in relazione le pressioni degli industriali con le misure di contenimento dell’epidemia.

[5] La Repubblica (edizione cartacea del 08/04/2020), pdf disponibile su rassegna stampa di Confartigianato (pag. 28): https://www.confartigianato.it/wp-content/uploads/2020/04/202004080739483096.pdf

Fino a 110 mila comunicazione di deroga alla prefettura su scala nazionale, secondo altre fonti: http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/2020/04/15/la-ripartenza-la-fretta-e-lautogol/

[6] https://www.affaritaliani.it/cronache/coronavirus-per-80-mila-aziende-fase-2-gia-iniziata-aperture-in-deroga-664724.html e https://www.ilpost.it/2020/04/08/lavoro-coronavirus-italia

[7] https://www.ilpost.it/2020/04/08/lavoro-coronavirus-italia

Secondo l’ISTAT, “oltre la metà dei lavoratori dell’industria e dei servizi privati va al lavoro anche in tempo di lockdown. Si tratta del 55,7%. Milano, con il 67,1 per cento, è perfino oltre la media nazionale.

http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/2020/04/15/la-ripartenza-la-fretta-e-lautogol/

[8] https://t.me/offtopic_lab

[9] https://t.me/offtopic_lab

[10] https://www.telecolor.net/2020/04/piacenza-1-300-aziende-chiedono-la-deroga-per-lavorare/

[11] La presa di posizione degli infermieri: https://www.piacenzasera.it/2020/04/lappello-degli-infermieri-alla-prefettura-stop-alle-attivita-o-saremo-noi-a-fermarci/336986/#.Xozp8iSJq_o.twitter

[12] https://www.radiondadurto.org/2020/04/09/covid-19-in-quali-condizioni-hanno-riaperto-e-a-quali-voglio-riaprire-le-aziende-a-brescia/, dove si possono ascoltare anche prese di posizione di sindacalisti e lavoratori nell’area del bresciano.

[13] https://www.rassegna.it/articoli/la-fretta-delle-aziende-e-i-dubbi-della-scienza

[14] https://www.radiondadurto.org/2020/04/03/lavoro-sciopero-alla-lucchini-per-evitare-il-contagio-di-coronavirus/

[15] La Stampa, edizione cartacea del 9 aprile

[16] https://www.ilpost.it/2020/04/08/lavoro-coronavirus-italia

[17] https://www.rassegna.it/articoli/sulla-nave-militare-al-lavoro-come-se-nulla-fosse

[18] https://www.repubblica.it/motori/sezioni/attualita/2020/04/07/news/sorpresa_emergenza_coronavirus_i_camion_non_si_sono_mai_fermati-253366179/

[19] https://t.me/offtopic_lab

[20] https://twitter.com/FaberCova/status/1245641870518046728/photo/1

[21] Una buona ricotruzione delle pressioni degli industriali nel cuore dell’epidemia (leggi: strage) lombarda, si può trovare anche in questa puntata del programma Report: https://www.raiplay.it/video/2020/03/Report—La-zona-grigia-d2723d6e-ca03-426f-9223-6945f1bebe50.html

[22] https://www.tpi.it/economia/confindustria-lombardia-zone-rosse-in-regione-intervista-presidente-bonometti-20200407580914/amp/?__twitter_impression=true

[23] Dati ufficiali dei servizi di controllo della Polizia: https://www.interno.gov.it/it/coronavirus-i-dati-dei-servizi-controllo

[24] Raccolta di racconti di “evasioni” fatta dal collettivo Alpinismo Molotov: http://www.alpinismomolotov.org/wordpress/2020/03/19/quarantena-molotov-normalissime-evasioni-prima-puntata/

[25] https://www.lastampa.it/torino/2020/04/06/news/coronavirus-boom-di-contagi-negli-ambienti-di-lavoro-1.38687033

[26] La Stampa, edizione cartacea del 9 aprile

[27] https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/09/13/morti-su-lavoro-in-italia-aumentano-sono-3-al-giorno-strage-negli-ultimi-7-mesi-599-vittime-le-leggi-ci-sono-ma-mancano-i-controlli/5449799/

https://cadutisullavoro.blogspot.com/

[28] https://www.inail.it/cs/internet/comunicazione/sala-stampa/comunicati-stampa/com-stampa-open-data-febbraio-2020.html

[29] https://www.ispettorato.gov.it/it-it/in-evidenza/Documents/Rapporto-annuale-2019-attivita-di-vigilanza-INL-slide.pdf

[30] https://confindustria.lombardia.it/comunicazione/comunicati-stampa-e-dichiarazioni/agenda-per-la-riapertura-delle-imprese-e-la-difesa-dei-luoghi-di-lavoro-dal-covid-19/08-04-2020-documento-confindustrie-del-nord_def.pdf

[31] https://www.rainews.it/tgr/fvg/video/2020/04/fvg-Confindustria-udine-alto-adriatico-presidente-regione-fedriga-fase-due-ripresa-attivita-cfe0a6f1-f39b-4bad-a81d-a933675efe36.html

[32] https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/04/07/coronavirus-diretta-fase-2-vertice-tra-il-premier-conte-e-il-comitato-tecnico-scientifico-grande-prudenza-nelle-riaperture-prima-lok-alle-fabbriche-poi-agli-spostamenti-speranza-indic/5762371/

[33] La Stampa, edizione cartacea del 9 aprile

[34] https://www.draghiperitalia.it/

[35]  https://twitter.com/ConfindustriaUd/status/1247780224076378112/photo/1.

[36] https://www.rainews.it/tgr/fvg/video/2020/04/fvg-Mareschi-danieli-apertura-imprese-Confindustria-Udine-Agrusti-Pordenone-059d75cd-9e00-4c8c-a2a9-1870a1564f27.html

[37] Qui un thread che raccoglie alcune notizie a riguardo: Il 10 aprile, sull’onda di altra inchieste simili in giro per il paese, il procuratore capo di Trieste ha reso noto di aver aperto un’inchiesta sulla gestione delle case di riposo nel corso dell’emergenza COVID19, senza tuttavia aggiungere altro (https://twitter.com/TgrRaiFVG/status/1248617697379676161)

[38] https://bit.ly/2RIwLUb

[39] https://www.wumingfoundation.com/giap/2020/04/obbligo-mascherina/

I Wu Ming, in particolare, mettono in luce l’utilità alla retorica imprenditoriale della proliferazione dell’obbligo di indossare le mascherine nei luoghi pubblici: “In questo modo la narrazione mediatico-governativa riuscirà a sopravvivere nella fase 2, a rigenerarsi contraddittoriamente, allentando la presa sulla libertà di movimento per salvare le attività produttive e al contempo omologando e militarizzando ulteriormente la vita sociale.

[40] https://www.huffingtonpost.it/entry/la-fiom-attacca-confindustria-cieche-pressioni-pensa-solo-al-profitto_it_5e8eea35c5b6b371812c5945

[41] Corriere della sera, edizione cartacea del 10 aprile

[42] La Stampa, edizione cartacea del 10 aprile

[43] https://twitter.com/Maurizio_Lupi/status/1248556114880483329

[44] La Stampa, edizione cartacea dell’11 aprile

[45] La Stampa, edizione cartacea dell’11 aprile

[46] Per un approfondimento su come se la passano librerie e case editrici durante l’emergenza Covid si può leggere https://www.wumingfoundation.com/giap/2020/03/sisyphus-coronavirus-editoria/

[47] La Stampa, edizione cartacea dell’11 aprile

[48] https://ilrovescio.info/2020/04/10/contrattacco-di-classe-pandemia-come-sintomo-dello-stato-di-emergenza-del-sistema/

[49] https://macerie.org/index.php/2020/04/07/dietro-langolo-pt-1/

[50] La Stampa, edizione cartacea dell’11 aprile

[51] https://ilmanifesto.it/trionfa-il-falco-bonomi-e-subito-attacca-governo-e-sindacato/

Siamo in guerra: Dopo la strage, si ritorna a fatturare

Dietro l’angolo pt.3 – Nord sud ovest est

QUALCHE IPOTESI SU COVID 19 e SUL MONDO IN CUI VIVREMO

Saranno innumerevoli gli effetti, i riverberi e gli echi che la presente epidemia di Covid-19 lascerà in seno al consorzio umano, tanto attesi e prevedibili quando impensabili e inauditi. Nelle righe che seguiranno si proverà a seguire una prospettiva che potremmo definire macroscopica. Riteniamo che una mappatura, pur abbozzata, di questo tipo possa essere utile per inquadrare le dinamiche con cui, su un piano più direttamente osservabile, avremo a che fare in un futuro prossimo.

I

L’epidemia ha evidenziato i nervi scoperti del modello di produzione postfordista.

Quello che sembrava il momento più avanzato del capitalismo, non ulteriormente perfettibile, è entrato in profonda crisi dopo appena un mese di blocco pur parziale del mondo. La produzione snella, il sistema just-in-time e gli enormi apparati logistici e comunicativi che sottendono le due principali caratteristiche degli odierni modelli produttivi hanno mostrato inquietanti crepe e debolezze poco prevedibili. Un tale sistema si è dimostrato rivoluzionario in un funzionamento ordinario ma incapace di affrontare battute di arresto indipendenti dal mercato:

  • i famosi colli di bottiglia – gli snodi cruciali dei vari modelli produttivi – sono esplosi;
  • le lunghissime supply chains – che, ironia della sorte, convogliavano innumerevoli linee produttive in Cina – si sono spezzate;
  • la politica no stock si è rivelata tragica (si pensi ad esempio al caso della mancanza di materiale sanitario);

L’impatto sulle economie nazionali già da dieci anni impantanate nelle sabbie mobili della recessione globale sarà devastante. Ci saranno da ripensare a livello locale obiettivi, strategie e modelli produttivi, dal ritorno al settore primario al riavvicinamento del settore secondario. La logistica e il terziario, i cui stati di salute nella crisi e al suo indomani, si trovano agli antipodi, dovranno affrontare implementazioni e sfrondature inimmaginabili.

II

L’epidemia ha colpito soprattutto i modelli economici votati all’esportazione – non più capaci di trovare sfogo alle proprie merci causa lockdown – e quelli votati alla trasformazione di beni prodotti altrove – ritrovatisi con flussi di filiere produttive non più regolari –.

Con uno scenario a medio termine caratterizzato da grande incertezza riguardo a futuri blocchi generali, ad esempio per affrontare contagi di ritorno, sembra plausibile che gli Stati tenteranno da una parte di ricercare nuove alleanze commerciali basate più sulla sicurezza delle supply chains che sul profitto immediato e si focalizzeranno sull’economia interna cercando di mitigare la dipendenza da un mercato internazionale troppo fragile. Tali strategie comporteranno una ridefinizione della competizione intercapitalistica.

Il rafforzamento del settore primario acquisterà un nuovo e antichissimo valore strategico. È bastata qualche settimana di lockdown, con i grandi Paesi produttori che hanno fermato il flusso di molte merci destinate all’esportazione, per vedere schizzare ad esempio il prezzo del grano: e se si pensa che l’Italia importa circa il 62% del suo fabbisogno di grano tenero, non è difficile capire l’importanza del ripensamento strutturale del settore.

Ma la presente emergenza ha portato alla penuria di un’altra merce non banale, il lavoro, perlomeno in quei settori, come l’agricoltura, impreparati o impossibilitati all’adempimento delle direttive anticontagio. Coldiretti già a fine marzo lamentava il fatto che con le frontiere chiuse non sarebbero arrivati gli stagionali che ogni anno garantiscono il raccolto made in Italy. Le soluzioni al vaglio sono un buon prototipo del mondo che verrà, tra proposte di regolarizzazione di massa dei braccianti – che però toglierebbe la possibilità del lavoro nero, sede principale della competitività dei prodotti nazionali – o l’ipotesi di accordi internazionali con Paesi esteri per garantire corridoi sanitari per la forza lavoro straniera, o ancora la mozione di fare lavorare nei campi chi percepisce il reddito di cittadinanza.

Risulta dunque certo che il settore, finora tenuto in piedi da aiuti statali ed europei e basato su forza lavoro migrante e irregolare, sarà costretto a rinnovarsi. Altrettanto sicuro è che l’inevitabile aumento dei prezzi dei prodotti agricoli in un frangente in cui molte persone affronteranno la crisi innescata dal virus potrebbe condurre a conseguenze facilmente immaginabili.

III

Le lunghe catene del valore sono state messe a dura prova: interi comparti hanno dovuto rallentare la produzione a causa della mancanza di questo o quel componente. Il lockdown cinese, ad esempio, ha portato i colossi globali dell’elettronica a ridurre della metà la produzione di laptop per il mese di marzo. Lo stop durante l’istituzione della prima zona rossa dell’italianissima MTA di Codogno, che produce componentistica di precisione per molti grandi marchi automobilistici, ha rischiato di compromettere seriamente il funzionamento delle catene di montaggio di Fiat, Renault, Bmw, Peugeot. Di esempi come questi se ne potrebbero trovare a bizzeffe.

La necessità di accorciare le filiere produttive al fine di evitare shock come questi si unirà alla necessità di incorporare alle aziende madri quelle funzioni che in questi anni sono state esternalizzate a una costellazione di piccole e medie aziende ultra-specializzate, dato che molte di queste, già pesantemente indebitate, non vedranno la luce alla riapertura.

Queste tendenze verosimilmente creeranno spazio per investimenti importanti sul versante tecnologico e innovativo, dando il via libera definitivo ad una ristrutturazione profonda: modelli organizzativi e strumentazioni che, pur al netto della propaganda di stato sulla rivoluzione industriale 4.0, sembrano ancora avveniristici potrebbero plasmare ogni piano della struttura economico-sociale in un futuro prossimo.

Le strategie di gestione della crisi saranno variegate e a tratti contraddittorie. Una possente corsa verso l’automazione sembra far rima con una inferiore richiesta di lavoro vivo. Eppure proprio il lavoro umano sarà, per le sue inimitabili caratteristiche, un ulteriore e conseguente campo sottoposto al ridisegnamento dei margini di sfruttamento. Già da oltralpe un chiarissimo e lucido Geoffroy Roux de Bézieux presidente dell’unione degli industriali francese ha dichiarato che «sarà necessario porsi la questione del tempo di lavoro, delle ferie e dei congedi retribuiti, per accompagnare la ripresa economica». Ma in questi giorni prossimi alla cosiddetta Fase 2 non si fa fatica a trovare dichiarazioni affini da ogni frangia dello sciocchezzaio politico italiano.

IV

Un po’ in tutto il mondo, in queste ultime settimane, sono stati presi d’assalto gli uffici atti alle richieste di disoccupazione, notevole il caso statunitense con più di sessanta milioni di richieste in pochi giorni. L’italianissimo INPS, fiore all’occhiello di un welfare state in via d’estinzione, è andato in panne per la richiesta di buoni spesa goffamente decretati da un governo sempre più simile ad una unità di crisi.

Scene che saremo destinati a rivedere. E con attori inaspettati.

Per ora, nel mezzo della crisi, assistiamo a formule molto creative di assistenza al reddito della popolazione lavoratrice (nei casi migliori, forme di cassa integrazione rispolverate da ere economiche di un passato prossimo eppure lontanissimo).

Ma molte imprese medie e piccole – che sono la carne del tessuto produttivo italiano ma anche la pancia della Confindustria nazionale –, sia nel settore industriale che in quello dei servizi, già pesantemente indebitate prima dell’epidemia, faranno fatica a riattivare macchinari e computer dopo l’arresto inatteso, nonostante i tentativi statali di agevolare prestiti – misura che, senza essere economisti esperti, puzza di malasorte e disgrazia per cosa si è visto in anni passati –.

All’indomani di una stagnazione forzata chi aveva capitali sicuri potrà facilmente ripartire, magari inserendosi nei nuovi spazi di economia produttiva e distributiva (dal tessile alla cosmetica, dal settore automobilistico all’alimentare sono diverse le aziende che sono riuscite a commutare la produzione in brevissimo tempo).

D’altra parte, crescerà la porzione di lavoratori dequalificati o più propriamente espulsi dall’enorme crisi del settore dei servizi (ristorazione, accoglienza, cura della persona). Come ogni crisi, anche questa sarà un’inattesa occasione di ottimizzazione e specializzazione delle dinamiche produttive: al prevedibile calo dei consumi post-epidemia si aggiungeranno quindi misure atte a rendere i servizi più funzionali, all’altezza dei nuovi parametri di consumo, erogazione e sicurezza (d’ora in poi con un occhio anche a quella biologica) che riconfigureranno drasticamente tutto il settore. E il nostro modo di fruirne.

Il celebre e abusato concetto di esercito industriale di riserva assumerà come protagonisti molti di coloro i quali fino a ieri ne erano minacciati. Ma ancora peggio, probabilmente si ingrosseranno le fila di coloro i quali non vi saranno neanche più arruolabili, in quanto incapaci di leggere i rapidissimi mutamenti di paradigma dei modelli produttivi.

Non osiamo immaginare quali saranno le formule con cui si combineranno i rapporti di lavoro a crisi terminata, o meglio, a crisi stabilizzata; da una parte, per quello che riguarda la inclusione forzata, riteniamo piuttosto preciso il concetto, per ora eminentemente sociologico, di working poor. Masse di lavoratori a cui il salario non garantisce gli strumenti di pianificazione minima dell’esistenza.

Per ciò che concerne tutto il resto, beh, i concetti non ci saranno d’aiuto per inquadrarne lo spettro insieme tragico e minaccioso.

V

Il comportamento degli Stati in questa epidemia evidenzia come essi siano indispensabili al funzionamento del capitalismo: un esempio su tutti, lo Stato in caso di pericolo può decidere di sospendere le leggi di mercato, con buona pace del mantra sulla famigerata mano invisibile. Si pensi ad esempio alle misure varate dalle varie banche centrali per tenere bassi gli interessi su prestiti ricevuti dai vari Stati nazione dai vari BCE o FMI. Un neo keynesismo che arriva da voci disparate, anche inaspettate.

Ad ogni modo, è opportuno ricordare che prestiti ed aiuti non sono mai emessi gratis et amore Dei, ma evidentemente come garanzia di profitti futuri soprattutto per chi li eroga. Ogni prestito dovrà essere rimborsato, e al di là delle valutazioni più o meno populiste sul ruolo dei vari fondi monetari, possiamo essere discretamente sicuri che i costi di tale montagna di operazioni parafinanziarie verranno accuratamente socializzati, in maniera diretta o indiretta. I famosi tagli alla sanità e all’istruzione, alla previdenza sociale non sono forse da catalogare in un riassetto dei conti statali? Uno Stato con i conti in ordine di questi tempi non è altro che uno Stato che ha tagliato i rami secchi nei settori non direttamente produttivi, di cui quelli appena citati non sono che l’apice.

VI

L’impatto della disoccupazione di massa su una società fortemente neoliberale in cui le forme di welfare sono state erose negli ultimi trent’anni si tradurrà in un potente attacco alle condizioni di vita di una fetta sempre più grande di popolazione. La transizione dal consumo di massa alla inoccupazione come status normale non sarà semplice né priva di conflitti.

La tenuta degli Stati si misurerà nell’elaborazione di metodi gestionali delle sacche di esclusione in continua espansione.

Un interessante testo risalente a più di dieci anni fa sosteneva, in uno studio di caso, che saranno due le principali strategie di tale contenimento: da una parte il vecchio mercanteggiare sui diritti, che prenderà la forma specifica e inedita della contrattazione di un reddito universale. Dall’altra, l’ancora più vecchia ricetta della reclusione, ovvero la criminalizzazione della miseria e la sua logica conseguenza, la galera.

Tale dicotomia, pur sbrigativa, sembra tuttavia capace di rendere conto di ciò che ad oggi è in cantiere da tempo. L’idea di un reddito d’esistenza è stato un cavallo di battaglia non solo di uno dei partiti attualmente al governo in Italia, ma anche di una certa sinistra con addosso gli ultimi cenci della radicalità. Per non citare una certa produzione accademica genericamente critica.

Balza subito agli occhi come tale strumento, a partire da una banale analisi nominale – reddito di cittadinanza, reddito di sussistenza, reddito minimo universale – porti già nella sua concezione accurate linee di demarcazione e precise relazioni di potere. Riprendendo quindi l’ipotesi delle due strategie di contenimento sociale di cui sopra, vediamo come in realtà non siano due opzioni definitivamente alternative, ma siano una il margine di definizione dell’altra, due misure strettamente intrecciate. Da qui, e lo si vedrà a breve, i destinatari di reddito di base e di restrizioni a vario titolo non saranno persone diverse, piuttosto gli stessi soggetti che, di volta in volta, riceveranno o l’una o le altre.

La retorica di un crescente benessere che il capitalismo avrebbe pian piano assicurato un po’ a tutti, è ormai morta e sepolta da tempo.
L’immagine con cui le autorità hanno tentato di rappresentare il mondo riservato alla gran parte degli uomini e delle donne, è diventata più simile a una scala a pioli, cui bisogna tentar di restare aggrappati con le unghie e coi denti, per evitare di cadere giù ai tanti scossoni che le vengono dati.
Una scala cui continuano a togliere punti d’appoggio, mentre aumenta il numero di uomini e donne in cerca di un appiglio. La prepotente entrata in scena del Covid19 minaccia di renderla ancor più carica e traballante.
Tenteremo di approfondire la questione in un testo che uscirà a puntate, una a settimana, in cui se ne affronteranno di volta in volta alcuni specifici aspetti. Un testo redatto a più mani, da alcuni compagni che partecipano alla redazione di questo blog e da altri che invece non ne fanno parte. I singoli capitoletti potranno quindi avere uno stile e magari dei punti di vista diversi o contenere delle ripetizioni.
Del resto le possibilità di confrontarsi collettivamente in questi giorni sono notevolmente ridotte e discutere attraverso piattaforme online non è certo la stessa cosa che farlo vis a vis.

Se vi siete persi le altre puntate di Dietro l’angolo potete leggerle cliccando qui sotto.

Tra salti e accellerazioni. A mo’ d’introduzione.

Cablaggi di Stato

Non solo staliniani e «miscredenti» del virus. In Nord Ossezia è rivolta sociale

Articolo del Manifesto

Vladikavkaz, capitale della Ossezia settentrionale, repubblica autonoma della Federazione russa, 350 mila abitanti. Scoppia qui la prima rivolta popolare all’epoca di Covid-19.
Già dalle prime ore del mattino un fiume di povera gente, donne, anziani si era riversata ieri in piazza Shtyba dove ha sede il governo della repubblica. I manifestanti urlavano «fame! fame!» chiedendo la riapertura delle aziende in lockdown e le dimissioni del governo. Una rottura violenta del regime di quarantena esemplificato dal fatto che nessuno in piazza indossava le mascherine e non badava in alcuno modo a tenere distanze di sicurezza.

INIZIAVA A GIRARE LA VOCE, poi risultata fondata, che la ribellione era stata organizzata dal gruppo Cittadini dell’Urss, un’organizzazione informale di nostalgici dell’Urss con tinte vagamente staliniane diretta da Vadim Celdiev, un ex soprano prestatosi alla politica convinto che coronavirus non esista e sia semplicemente un’invenzione dei «poteri forti globali» per asservire i popoli. Con il passare delle ore la tensione cresceva con l’arrivo dei reparti speciali della polizia, gli Omon, mentre i manifestanti iniziavano a installare tende con l’intenzione di presidiare giorno e notte la piazza. Veniva anche invitata per una trattativa nella sede del governo una delegazione di manifestanti, ma l’iniziativa non produceva risultati.

LE RICHIESTE DEI DIMOSTRANTI (liberazione dei leaders della protesta arrestati già in mattinata, aiuto economico alla popolazione e dimissioni del governo) venivano tutte respinte. E così nel giro di pochi minuti iniziavano le cariche della polizia per sgomberare la piazza. Malgrado la resistenza dei manifestanti che rispondevano agli attacchi e ai lacrimogeni con una violenta sassaiola, in serata la piazza veniva infine “ripulita”.

Secondo quanto informa il canale telegram Osetia, gli scontri sono proseguiti in altre zona della città e la polizia ha proceduto a rastrellamenti nei quartieri periferici. Tutti gli accessi stradali alla città sono ora stati sigillati mentre sui tetti delle case continuano a volteggiare gli elicotteri.

PER MOLTE ORE le principali agenzie di notizie russe, non si sa se imbarazzate o rispondendo a qualche direttiva, non hanno informato di quanto stava succedendo. Kommersant il quotidiano di Confindustria, quasi ad esorcizzare quanto stava avvenendo nel Caucaso ha messo in rilievo solo l’elemento caricaturale, sottolineando come la manifestazione fosse stata indetta da un gruppo staliniano e cospirazionista. «La manifestazione di “miscredenti nel coronavirus” non può essere definita spontanea: circa un mese fa, era stata indetta da un ex cantante lirico, Vadim Cheldiev. Dall’introduzione della quarantena, sul suo canale Telegram egli esortava alla ribellione contro la “cospirazione mondiale” e chiedeva “verità”, accusando i medici che lavorano nelle aree “sporche” degli ospedali di cospirare con il governo», chiosava il giornale moscovita.

In serata i politici locali hanno evitato di farsi vedere in tv. Sugli schermi intanto i medici affermavano che «la scelta di scendere in piazza è stata un disastro sanitario e provocherà un focolaio immenso».

ORA IN MOLTI SI CHIEDONO se la scintilla di Vladikazakaz potrebbe estendersi in tutto il paese. Difficile dirlo. La miseria e la disperazione sociale osseta non è generalizzabile a tutta la Russia. Molti commercianti di quella regione hanno attività in nero e quindi né loro né i loro dipendenti possono ricevere gli aiuti finanziari decisi da Putin. Tuttavia più passano i giorni e più i segnali di cedimento della coesione sociale iniziano a manifestarsi in varie provincie e la proverbiale pazienza dei russi potrebbe essere sul punto di finire.

Mascherine o maschere antigas?

Molte persone, in questi giorni, si stanno preoccupando di come tutelare sé stessi o gli altri nel momento in cui occorrerà scendere nuovamente – o ancora – in strada. Magari per fare la spesa, andare in farmacia o in banca…

Mentre l’OMS ancora oggi (22/04/2020) non inserisce nelle sue linee guida l’utilizzo delle mascherine, esse secondo il governo ed i sindacati dovrebbero invece proteggere dal contagio e permettere l’avvio della fase 2 e la ripartenza del paese.

Per non affidare le nostre vite nelle mani degli esperti, pensiamo che occorra fare di più per la tutela della salute. Questa notizia allarmante di oggi ci dice infatti che anche attraverso gli occhi potrebbe venire trasmessa l’infezione. Soprattutto attraverso le lacrime.

Consigliamo quindi a tutte e a tutti di non uscire di casa senza indossare prima una maschera antigas, dei guanti da saldatore per spegnere i lacrimogeni e soprattutto di non scoprirsi mai il viso.

Ne va della nostra salute!

Il segretario dell’UN “I disastri climatici saranno molto peggio del Covid-19”

Il segretario delle Nazioni Unite António Guterres ha dichiarato che i disastri causati dai cambiamenti climatici avranno degli effetti sulla popolazione mondiale molto più gravi di quelli causati dalla pandemia di Coronavirus.

Durante il lockdown, in tutto il mondo, si sono registrati gli effetti positivi della netta riduzione delle emissioni causate dai siti produttivi e dai veicoli. Così come la ‘riconquista’ di molte città da parte degli animali selvatici..

Il ritorno alla ‘normalità’ farà purtroppo ritornare le emissioni allo stesso livello di quelle pre-pandemia riaccellerando i processi di surriscaldamento globale.

Questi processi, come dice Guterres, potranno causare disastri ecologici dagli effetti imprevedibili. Desertificazioni, tornado, tsunami, innalzamento dei mari, sono solo alcune delle possibilità..

Abbiamo visto che se la società umana non funziona come dovrebbe il pianeta torna a respirare.. vogliamo davvero ritornare al mondo pre-epidemia, aspettando che da un momento all’altro ci colpisca un nuovo disastro? Magari non un’epidemia – comunque plausibile se non cambia la società – ma un disastro ambientale.

Se non vogliamo vivere altri disastri simili, se non peggiori, di questo meglio pensare ad un altro mondo..

Appello per il 25 aprile

Appello per il 25 aprile

Mentre governo e Regioni stanno riaprendo i luoghi della produzione e del commercio, il divieto di uscire all’aria aperta perdurerà almeno fino a maggio. Questa palese discrepanza non risponde ad alcuna “evidenza scientifica” (a meno di non confermare quello che un filosofo scriveva più di trent’anni fa, e cioè che lo Stato ha «abbattuto il gigantesco albero della scienza all’unico scopo di farne un manganello»). Da un lato si deve produrre e consumare; dall’altro, prima che la gente possa uscire si vuole aver già programmato come sorvegliarla. Ecco. Dobbiamo anticiparli, se non vogliamo subire, oltre alla “crisi sanitaria”, anche la ristrutturazione economica che l’accompagnerà. E quale data più evocativa per resistere del 25 aprile?

Lanciamo un appello a violare le misure. Seguendo il principio di cautela per l’altrui e la nostra salute. E ognuno secondo le sua disponibilità. Alle ore 16,00. Da soli, in pochi, a gruppi distanziati, anche nei pressi di casa, con un cartello, della musica (canti partigiani, lettura di testi…) o qualsiasi altro segnale di disobbedienza. Per non aspettare di avere il permesso di tornare nel mondo reale, ma “tracciati”, medicalizzati a forza, con la paura dell’altro, in base a criteri insensati secondo ogni logica sanitaria (i luoghi chiusi sono più a rischio di quelli all’aria aperta, come la gestione di questa emergenza ha fin troppo dimostrato), ma molto sensati secondo la logica del controllo sociale. Contro la produzione bellica (che non si è mai interrotta), in solidarietà con i detenuti in lotta e con chi è stato arrestato di recente per aver reagito alla violenza poliziesca.

Non si tratta solo di affermare la responsabilità contro l’obbedienza, ma di dire chiaro e tondo che non accettiamo la divisone tra sacrificabili e salvabili; che le nostre vite non sono “dati da estrarre e da analizzare”; che non c’è salute senza relazioni di mutuo appoggio con gli altri e con la natura da cui dipendiamo.

Non vogliamo “convivere con le pandemie”, ma farla finita con l’organizzazione sociale che le crea.

 

 

 

Appello per il 25 aprile

Cosa dicevano i partigiani e le partigiane…

Ricordare il passato può dare origine ad intuizioni pericolose, e la società stabilita sembra temere i contenuti sovversivi della memoria

Herbert Marcuse

Se per caso una bomba cade vicino alla fabbrica dove voi lavorate così da scuotere tutta la costruzione, approfittate subito per rompere le macchine. Queste macchine sono così sensibili!

Gli operai hanno almeno le stesse possibilità di ridurre la produzione. La lentezza è l’ingrediente numero uno.

Non c’è una sola macchina che non abbia qualche difetto inerente alla costruzione.

Non c’è un campo dove si possa sabotar meglio lo sforzo di guerra tedesco che quello ferroviario.

Uno dei mezzi migliori per frenare lo sforzo di guerra tedesco consiste nell’applicare alle lettera i regolamenti, specialmente durante la formazione dei treni merci. Il regolamento ordina notoriamente ai macchinisti di non correre rischi in ogni caso… di non correre, per farla breve. Quindi, al passo, con calma, compagno, al passo.

I trasporti hanno acquistato una tale importanza nella guerra moderna che non si può mai fare abbastanza per ostacolare la circolazione normale delle autocolonne tedesche.

Innanzitutto la strada. Rovinare una strada è presso a poco alla portata di tutti. Niente di più facile che fare dei buchi nella strada.

Sulle strade di campagna sarà molto efficace deviare i ruscelli con leggeri lavori si scavo: la prima grande pioggia farà frenare il fondo stradale.

I due punti più sensibili al sabotaggio di un automezzo, sono il carburatore e l’accensione.

Bisogna sforzarsi di sabotare tutte le industrie che lavorano con il nemico.

Alcuni stralci tratti da:

 

Cosa dicevano i partigiani e le partigiane…