“Di respirare la stessa aria dei secondini non ci va”

Tratto da https://evasioni.info/2020/05/06/734/

Pubblichiamo questo estratto sul carcere tratto dall’opuscolo “Krino. Riflessioni sulla pandemia” allegato alla fine del testo.

Di respirare la stessa aria dei secondini non ci va”

E’ a partire dal 7 marzo che abbiamo assistito a una delle più vaste rivolte delle carceri avvenute nella storia di Italia. È ormai un dato abbastanza accertato che la polizia (vedremo se con la complicità dello Stato), nei giorni successivi ha fatto delle spedizioni punitive dentro le celle, spesso lasciando i detenuti nudi in una pozza di sangue.

I fatti:

Tutto è cominciato a Salerno, dove la sospensione dei colloqui con i parenti, giustificata come misura per proteggere i detenuti, è stata la miccia che ha fatto scattare la rivolta. Sono circa in 200 a devastare un’intera sezione e ad accedere al tetto. Il giorno dopo da Modena, a Milano, a Pavia, a Roma e in moltissime altre carceri italiane, vi saranno incendi, occupazione di padiglioni, ostaggi e tutto ciò che può essere usato da un detenuto per cercare di cambiare la propria condizione. Uno scenario che in Italia non si vedeva da moltissimi anni, e difatti, come accade spesso quando si disabitua la mente, fanno più scalpore le rivolte dei moventi o, ancora peggio, dei morti (ovviamente dipende da che parte sono). Chissà; forse perché in Italia siamo abituati a vedere morire quei disperati che si dividono in due categorie: coloro che annegano e coloro che “se la sono andata a cercare”.

Tornando alle rivolte di quei giorni di marzo (7,8 e 9), il bilancio è pesantissimo: le rivolte si sono estese a quasi tutti i penitenziari del territorio nazionale e il numero dei morti fra i detenuti è di 13 persone, il tutto in 72 ore circa. Un susseguirsi così rapido di eventi probabilmente è stato mosso, se non si vuole credere alla narrazione della destra e di Salvini, da paura e disperazione dovuta a condizioni di vita indecenti: sovraffollamento, ricatti lavorativi e amministrativi, e trattamenti che la maggior parte delle volte non rispettano la dignità umana.

Le richieste dei prigionieri erano l’indulto e/o l’amnistia per coloro che avevano meno di 5 anni da scontare. Ricordiamo che in Iran sono state liberate circa 70.000 persone e anche nella non proprio democratica Turchia vi è stato un importante svuota-carceri.

Alcuni dati

Per capire meglio le carceri e i detenuti riportiamo alcuni numeri: al 30 aprile 2019 l’Italia ha 60.439 persone nei penitenziari, che significa circa 1 detenuto ogni 1000 abitanti.

I posti letto sono ufficialmente disponibili 50.511 (bisognerebbe sottrarre tutti gli eventuali in manutenzione), non andiamo oltre riguardo il sovraffollamento che è abbastanza evidente.

Chi c’è dentro queste strutture?

L’Italia è uno dei paesi in Europa dove si uccide meno, gli omicidi (prendiamo uno dei reati più gravi) sono calati tra il 2015 e il 2016, eppure il nostro paese è il primo dell’UE per aumento della popolazione detenuta tra il 2016 e il 2018.

Nel 2013 i detenuti per rapina erano il 28,9% dei casi, mentre quelli legati alle droghe il 38,8% che poi nel 2018 caleranno al 31,1%. La media europea comunque è del 18%. Anche qui non ci dilunghiamo nel dibattito sul ruolo del carcere e i consumatori di droghe, che forse riguarderebbe più una questione di salute che penitenziaria. Altra riflessione doverosa è notare come nel 2013 quasi il 70% della popolazione carceraria fosse dentro per questioni legate a droga, furti e rapine. Crediamo anche sia importante, anche se forse banale, ricordare che coloro che sono dentro per aver rubato non sono gli stessi che rubano migliaia o milioni di euro alla gente per vivere nel lusso… la maggior parte di questi è fuori. Dentro ci sono i poveri, a mostrare quanto quelle mura siano solo uno strumento di classe volto a contenere quelle “risorse umane” ritenute difettose in quanto non vivono (spesso per necessità) una vita scandita dai ritmi della produzione e del consumo. Non ci rimane che fare un’ultima riflessione a riguardo, e cioè che l’uguaglianza politica e civile non può che essere formale in una società fondata sulle disuguaglianze economiche: la legge criminalizza e punisce le condotte che quella parte di popolazione che vive in uno stato di disagio sociale o di deprivazione economica è costretta ad avere.

Altro e ultimo dato che riteniamo molto interessante, è che coloro che sono dentro senza una condanna definitiva rappresentano il 34,5% circa della popolazione carceraria anche se, stando alla Costituzione, si tratta di persone innocenti. Per trovare altri dati vi rimandiamo alla nota qui sotto.

Alcune riflessioni

Quindi tornando alle persone che chiedevano amnistia e/o indulto per coloro a cui rimaneva da scontare una pena inferiore ai 5 anni, contro di essi si è scagliata gran parte dell’opinione pubblica. Etichettandoli come dei possibili pericoli per la società (e vi rimandiamo ai dati appena mostrati per una riflessione) dimenticandosi, come spesso accade, che se oggi molte persone muoiono perché non hanno un posto in ospedale le responsabilità sono di altre persone. In più forse non si riflette che il vero pericolo per la società è non fare un decreto che svuoti in maniera più consistente le carceri, in quanto ad oggi sono più di 133 i positivi al virus dentro i penitenziari ma se si creano nuovi focolai ne risentiranno anche gli ospedali e le persone fuori.

Abbiamo assistito quindi a un dibattito praticamente unilaterale dove oltre a stigmatizzare queste persone, si giustificava la misura presa dell’interruzione dei colloqui come una misura di tutela nei confronti dei detenuti. Sarebbe buffo, se non fosse ipocrita, notare che è sempre nelle situazioni di emergenza che ci si preoccupa delle condizioni inumane nelle quali si vive o si lavora (dalle carceri agli ospedali o alle fabbriche), quando per tutto il resto del tempo si fanno tagli e ci si preoccupa di altro. Le carceri sono dei luoghi sovraffollati e dove vi sono scarse condizioni igieniche, rendendoli degli ambienti favorevoli per la propagazione dei virus. Si può comprendere una misura del genere solo se è accompagnata da un’amnistia o indulto, cioè un provvedimento che riduca la popolazione carceraria per tutelare la salute delle persone, solo se la si accompagna parallelamente con una informazione costante di quello che accade fuori (non cercando di oscurare le informazioni come invece è avvenuto), se di conseguenza si fossero aumentate subito le telefonate e videochiamate, se si fossero prese anche tutte le altre misure preventive (mascherine per tutti, gel, etc…). Tutto questo o non è stato fatto o solo in piccola parte e male. Infatti chi si trovava in cella, probabilmente si è chiesto come mai il proprio parente fosse più pericoloso per la propria salute del secondino che tutti i giorni ha di fronte (il quale entra ed esce dal carcere) oppure di tutto il resto del personale. Coloro che dovevano essere protetti dalla sospensione dei colloqui con i parenti non ci hanno messo molto a capire sia che questa misura era una presa in giro e che forse Coronavirus sarebbe potuto essere un forte pericolo anche per loro: come la preoccupazione divampa fra i cittadini in stato di libertà, fra i detenuti in poche ore questa paura si è espressa con l’unico mezzo che chi è recluso possiede per farsi sentire da chi sta fuori e cercare di ottenere qualcosa.

Se la paura e il virus sono qualcosa che può colpire tutti gli esseri umani, risulta evidente che il diritto è qualcosa che difende solo alcuni. L’articolo 2 della Costituzione (un testo non male per certi aspetti, peccato che vorrebbe essere la realtà, un testo di diritto e non un libro fantasy) recita: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. In senso generale questo articolo vorrebbe prendere le distanze dalla visione nazionalista di destra, e del fascismo, che lega lo Stato al cittadino. Così la Repubblica riconosce (attenzione al verbo!), in quanto il diritto fa già parte dell’essere umano e non gli è assegnato, una dignità a tutti gli uomini, cittadini e non. Altro verbo importante dell’articolo è: inviolabili. Lo Stato quindi riconosce, garantisce e difende l’essere umano e il suo diritto inviolabile. E’ evidente che in questo caso il carcerato non è riconosciuto come essere umano.

Quando nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (vicino Caserta) il 5 aprile (un mese dopo la sospensione dei colloqui) un detenuto viene trasferito in isolamento in quanto positivo al Coronavirus, succede che 150 dei 400 reclusi, fanno una piccola rivolta (che non è più di una battitura e alcune barricate) che rientra nel giro di poche ore, con la concessione e promessa di un colloquio con il Magistrato di Sorveglianza. Il giorno dopo, una volta andato via il Magistrato, entrano 400 agenti in antisommossa che in gruppi da 7 entrano nelle celle massacrando di botte i detenuti. Non ci dilunghiamo nel racconto dei dettagli di questa mattanza (per chi è interessato alleghiamo l’articolo1), prendiamo solo nota del fatto che questo non è altro che l’ennesimo caso in cui le richieste dei carcerati vengono represse nel sangue.

A seguito delle proteste, oltre a pestaggi in cui sono state spaccate mascelle e setti nasali2 (c’est la démocratie…), trasferimenti che non hanno fatto altro che portare il virus da un carcere all’altro (come avvenuto da Bologna al carcere di Tolmezzo) è seguito un decreto che ha punito chi si è ribellato in quei giorni, incrementato le forze dell’ordine per evitare che la paura si esprimesse di nuovo e che i detenuti si facessero nuovamente sentire. I provvedimenti presi per il sovraffollamento è chiaro che sono ancora troppo timidi, e soprattutto che escludono anche solo chi è sospettato di aver preso parte alle rivolte. Ricordiamo che un terzo dei detenuti sono ancora innocenti in attesa che il giudice si esprima. E’ evidente come la discrepanza fra la Costituzione e la realtà sia ampia e come tutte le volte che ci sbattono in faccia la “bellezza della nostra Costituzione”, ci stanno semplicemente mostrando qualcosa che non esiste. Spesso veniamo anche tacciati di essere utopisti, a questi rispondiamo che siamo utopisti che accusano la realtà di non essere ciò che ci viene mostrato.

Oltre a questo decreto, i detenuti hanno ricevuto anche un’altra cosa “molto importante”: un caloroso saluto dalla persona più importante del nostro Stato, Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che evidentemente oltre a esprimere vicinanza e riconoscere che la situazione all’interno “non sempre rispetta la dignità umana”, non poteva fare di più (ricordiamo che il Presidente della Repubblica ha il potere di dare l’amnistia senza passare per altri organi). Insomma, come spesso accade, le uniche risposte sono state paternalismo e repressione.

Il carcere non agisce solo su chi si trova dentro, ma angoscia anche tutti gli amici e i familiari che sono fuori. Alcuni parenti dei detenuti hanno segnalato che questi ultimi oltre a non avere più i corsi scolastici, gli incontri con i volontari, i colloqui, le attività sportive etc, adesso cominciano anche a rinunciare alla propria ora d’aria per paura del contagio, così da vivere giornate ancora più grigie, monotone e pesanti. Segnaliamo a tal proposito questa testimonianza e domanda fatta alla Associazione Antigone riguardo un detenuto autoimmune: “il ragazzo ormai vive nel terrore di ammalarsi perché sa che non può prendere nessun farmaco. Vive rinchiuso nella sua cella, evita pure di telefonare a casa tutte le volte che vorrebbe perché ha paura pure di prendere il telefono in mano e sta sviluppando attacchi di panico, tanto che è stato visto dallo psicologo. Vi prego, potete fare qualcosa?3

Al netto di ciò, dei decreti e dei 12 morti, l’ultimo effetto delle rivolte che prendiamo in considerazione è che il SAPPE (Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria) ha fatto sapere che il penitenziario di Modena chiuderà perché inagibile e che in tutta Italia ci sono stati più di 20 milioni di danni nei penitenziari.

A questo punto crediamo sia necessario riflettere su cosa sia più importante, in questo l’opinione pubblica si è divisa (anche se non in egual misura) tra chi ha preferito pesare questi danni e chi ha invece considerato ben più grave la morte di 13 persone e la costante violazione dell’essere umano che avviene nelle carceri.

Lo Stato ha già scelto da che parte stare.

Qui sotto per scaricare l’intero opuscolo:

KRINO

“Di respirare la stessa aria dei secondini non ci va”

Toulouse (France) – Une antenne-relais en moins

Pour faire simple: ce nouveau niveau de contrôle nous a juste encore plus foutu la rage et donné envie d’agir. Ne rien faire à nos yeux c’était l’accepter.

Comme d’hab, si le contrôle fonctionne si bien c’est aussi parce que les citoyens l’acceptent docilement, bien installés dans leur bulle virtuelle pour continuer à se divertir et à télétravailler. Mais c’est plus que jamais le cordon qui les relie à cette vie pathétique.

C’est pour ça qu’on a incendié une antenne-relais dans la nuit du lundi 5 au mardi 6 mai à Toulouse, côté Est du pont de l’embouchure. C’était plus simple qu’on l’imaginait.

Visiblement on est pas les seules personnes à bouillir de rage et on s’en réjouit. Hostilité totale contre la civilisation et les tas de merde qui la composent.

(it-en-fr) Tolosa, Francia: Un ripetitore in meno (06/05/2020)

Toulouse (France) – One less cell phone tower

To make it simple: this new level of control pissed us off even more and made us want to act. To do nothing, in our eyes, was tantamount to accepting it.

As usual, if control works so well, it is also because the citizens meekly accept it, well installed in their virtual bubble, to continue to have fun and telework. But it is more than ever the umbilical cord that binds them to this pathetic life.

That’s why we set fire to a mobile phone relay station, on the night between the 5th and 6th of May, in Toulouse, on the east side of the Pont de l’Embouchure. It was easier than we thought.

You can see that we are not the only people boiling with anger and we are happy about it. Total hostility against civilization and the piles of shit that make it up.

 

(it-en-fr) Tolosa, Francia: Un ripetitore in meno (06/05/2020)

Tolosa (Francia) – Un ripetitore in meno

Per farla semplice: questo nuovo livello di controllo ci ha fatti/e incazzare ancora di più e dato voglia di agire. Non far nulla, ai nostri occhi, equivaleva ad accettarlo.

Come al solito, se il controllo funziona così bene, è anche perché i cittadini lo accettano docilmente, ben installati nella loro bolla virtuale, a continuare a divertirsi e a telelavorare. Ma è più che mai il cordone ombelicale che li lega a questa vita patetica.

Ecco perché abbiamo incendiato un ripetitore di telefonia mobile, nella notte fra il 5 e il 6 maggio, a Tolosa, sul lato est del Pont de l’Embouchure. È stato più semplice di quello che pensassimo.

Si vede che non siamo le sole persone a ribollire di rabbia e ce ne felicitiamo. Ostilità totale contro la civiltà e i mucchi di merda che la compongono.

 

(it-en-fr) Tolosa, Francia: Un ripetitore in meno (06/05/2020)

Rome (Italie) – Une antenne-relais de Wind en feu

Dans la nuit du 29 avril, on a incendié les câbles d’une antenne-relais de Wind, près de la gare de Rome-Tiburtina.

Solidarité avec les prisonnier.e.s en lutte.
Proximité avec le prisonnier anarchiste Davide Delogu, en grève de la faim.

Contre l’État et ses mesures.
Contre les technologies du contrôle.
Il est toujours possible d’agir.

 

(it-en-fr) Roma, Italia: A fuoco un’antenna Wind (29/04/2020)

Rome (Italy) – Fire against a Wind cell phone tower

On the night of April 29th, 2020, the cables of a Wind cell phone tower near the Tiburtina station in Rome were set on fire.

Solidarity with the prisoners in struggle.
Closeness to the imprisoned anarchist Davide Delogu on hunger strike.

Against the State and its measures
Against control technologies.
Action is always possible.

 

(it-en-fr) Roma, Italia: A fuoco un’antenna Wind (29/04/2020)

Una riflessione sul COVID dal Portogallo

Questo testo nasce da un’esigenza di comunicazione e discussione fra compagni. Nasce da un tentativo di combattere la distanza fisica e la mancanza di dibattiti faccia a faccia, cercando di mettere su carta alcuni argomenti di discussione e analisi, senza alcuna pretesa di verità assoluta. Si tratta di una sintesi di alcune discussioni avvenute all’interno di certi gruppi ristretti e che ci sembrano importanti da condividere con un collettivo più ampio di compagni.

Il processo innescato dalla comparsa del coronavirus ha lasciato il mondo e principalmente l’emisfero settentrionale letteralmente attaccato alle macchine. Attaccato alle macchine negli ospedali e attaccato alle macchine in casa. Persino lo stesso capitale ha trovato il suo modo di riproduzione e sostentamento anche attraverso le macchine. Quello che ci proponiamo con questo testo è il tentativo di aprire una discussione, partendo da un’analisi sintetica, e forse anche meccanicista, di come è stata prodotta e come viene gestita politicamente la ridefinizione della vita, attraverso l’introduzione di un agente perturbatore nel corpo sociale e le sue conseguenze, già evidenti nel quotidiano. Vorremmo discutere su come la dichiarazione di pandemia ha permesso di mettere in atto una serie di meccanismi di privazione della libertà e di condizionamento degli individui e quali strumenti abbiano consentito l’efficacia di questo programma politico. Pensiamo che sia nel passaggio dal momento biologico (l’apparizione di un virus) al momento della risposta politica data a questo fenomeno che verrà costruita un’intera architettura della paura. Paura che, se in passato, era stata basata sulla costruzione di un nemico esterno ma palpabile (il terrorista), oggi si basa su un nemico invisibile e imprevedibile che, grazie al suo carattere biologico, consente una gestione basata sulla prigionia dei corpi.

Senza voler qui analizzare l’esistenza o meno del virus e la sua pericolosità maggiore o minore (non siamo scienziati e non pensiamo che sia questo il fulcro della questione), ci sembra che sia estremamente necessario discutere gli effetti politici della risposta da parte dello Stato e della società e le sue conseguenze sia nell’immediato quotidiano sia nei cambiamenti che causerà nella percezione della vita e nel modo di abitare lo spazio sociale nel futuro. Proprio all’inizio della cosiddetta crisi covid-19, le autorità hanno iniziato ad applicare una dialettica bellicistica, e per dichiarare questa guerra sono stati sufficienti i discorsi allarmistici. Questa bellicosità del discorso ci sembra avere diverse funzioni, più o meno ovvie, oltre a quella di inculcare la paura nella società. In primo luogo, giustifica l’adozione di misure eccezionali che nelle cosiddette situazioni normali difficilmente sarebbero accettate. L’intera pratica del confinamento e della restrizione della vita si basa su questo eccezionale momento della guerra al virus. D’altra parte, la percezione che siamo in guerra porta al raccoglimento della società attorno allo Stato e ai governi, in quanto unici garanti della vita terrena e della protezione dell’individuo. E questo pare verificarsi anche quando i sistemi sanitari nazionali collassano, come è avvenuto in Italia o in Spagna. Nonostante la gestione catastrofica della situazione, lo Stato rimane l’unico fulcro attorno al quale la società gira.

Infine, la socializzazione del discorso bellicistico, collettivizzata nella frase “SIAMO in guerra contro il virus”, consente anche la trasformazione della percezione di colui che si ribella allo stato di emergenza, che non appare quindi come nemico dello Stato (per aver infranto le sue leggi) ma come nemico della società e potenziale agente infettivo. Da qui la creazione di un nuovo nemico interno, potenzialmente nemico della stessa vita.

Per quanto riguarda le misure di confinamento e il cosiddetto “obbligo morale di stare a casa”, sembra ovvio che ciò è possibile a livello massivo solo grazie a tutto l’apparato tecnologico che ci circonda. Internet e i gadget elettronici rendono la casa più sopportabile grazie alla loro funzione ludica e consentono all’individuo di rimanere in contatto con i propri cari e quindi di astrarsi in un certo modo dalla propria situazione di isolamento, ma, e qui ci sembra risiedere la loro funzione principale, questi gadget sono serviti principalmente per l’ampliamento esponenziale di un sentimento collettivo di panico. È attraverso i social network e internet che la politica della paura raggiunge il suo maggior sviluppo dopo essere stata diffusa dai media tradizionali. Tutti i discorsi di “restate a casa” e di “poliziamento” dell’altro trovano in questi dispositivi gli strumenti per eccellenza della propria propagazione, permettendo a un discorso prodotto dalle istituzioni di essere sentito come qualcosa proveniente dalla popolazione e di essere difeso con le unghie e con i denti da coloro che ne sono “colpiti”. La quarantena e il proclamato stato di emergenza provocano una doppia conseguenza: da un lato, l’isolamento attraverso la riduzione della vita dell’individuo al suo spazio più ristretto (la casa) e, dall’altro, una massiccia socializzazione del panico attraverso l’amplificazione della paura via mass media e social network. Ci sembra che il progetto di paura politica messo in circolazione dalle autorità si giochi di fatto in questi due movimenti. La vita reale basata sul confinamento dell’individuo e l’esperienza sociale gestita e vissuta attraverso gadget tecnologici conducono, allo stesso tempo, ad essere schizofrenici e paranoici. Crediamo che sia su questa dualismo che la vita si baserà nel prossimo futuro, anche dopo la fine “ipotetica” delle misure restrittive che ci vengono imposte. La trasformazione dello spazio pubblico come focus della malattia e la distruzione della vita quotidiana non si basa più sull’atomismo capitalista classico, ma su un nuovo modo di percepire l’altro e lo spazio come potenziali pericoli per la vita dell’individuo.

In questo momento non ci interessa molto entrare nella discussione sull’ipervigilanza tecnologica che seguirà la fine della crisi del Covid-19, perché ci sembra che questa sorveglianza e i mezzi per metterla in pratica già esistano. E ci sembra che queste discussioni si siano basate più sul pessimismo distopico piuttosto che sulla volontà di analizzare le cause e i meccanismi che vengono “iniettati” nel corpo sociale e che inducono gli stessi individui stessi a richiedere la suddetta vigilanza (o almeno ad essere compiacenti con essa). Sorveglianza e controllo ci sono da molto tempo e non è stato il virus a portarli. È ovvio che si assisterà ad un aumento della robotizzazione della vita e all’espansione dei meccanismi di sorveglianza, ma probabilmente questi fenomeni si sarebbero verificati con o senza una crisi pandemica, al massimo sono stati accelerati da essa. Ciò di cui vorremmo discutere è il modo in cui gli anarchici hanno percepito la crisi e le possibilità di azione all’interno della paralisi sociale che ci è toccato vivere. Ovviamente, il panico e la paura colpiscono anche noi, in un modo o nell’altro, alcuni più di altri, e forse era inevitabile che fosse diverso. Per quanto ci costi ammetterlo, gli anarchici non sono una categoria al di fuori della società e impermeabili a ciò che accade al di fuori dei nostri ambienti.

Sono momenti eccezionali come questo che meglio di altri mostrano i nostri fallimenti come movimento e la mancanza di meccanismi per contrastare le situazioni che ci vengono imposte. La prova sta nel fatto che, più o meno ovunque, le risposte della maggioranza dei diversi gruppi anarchici non si siano di molto discostate dalla beneficenza. Questa critica è valida sia per i gruppi che hanno istituito strutture per la raccolta e la distribuzione di cibo, il cui risultato altro non è che una sostituzione del ruolo benefico dello Stato, come per tutti gli altri gruppi, nei quali ci includiamo, che, per inerzia, non sono stati in grado di delineare e nemmeno discutere le strategie di azione per affrontare il confinamento. L’incapacità di combattere il discorso che è poi diventato dominante e di diffondere un’altra versione delle cose, un’altra visione del processo, ha rivelato ancora una volta la nostra mancanza di coordinamento, e come l’assenza di dibattito e pratiche continuative tra compagni in questi momenti diventino fallimenti che eventualmente pagheremo caro. Approfittiamo quindi di questa situazione eccezionale, che ci porti a ripensare le nostre pratiche e ci consenta di trovare forme più efficaci di comunicazione e azione politica in modo che quando il conto dei mesi di confinamento ci verrà presentato, gli anarchici possano dare una risposta, che indichi percorsi e pratiche diversi. Il garantire i nostri spazi che saranno di estrema importanza nel futuro prossimo, la creazione di reti di produzione e consumo che puntino a una maggiore indipendenza rispetto ai circuiti tradizionali di consumo e una produzione e azione collettiva che ci permettano di intravedere una scintilla di rivolta creando strutture politiche che consentano un attacco a un nuovo mondo che è già qui. Sono proposte che, a nostro avviso, dovrebbero già essere elaborate collettivamente e questo testo è un appello a metterci a lavoro. Perché in un mondo pandemico, l’unico virus possibile è l’insurrezione!

Alcuni anarchici di Oporto
20 aprile 2020

https://roundrobin.info/2020/05/una-riflessione-sul-covid-dal-portogallo/

Nessuna normalità

«Mai visto in vent’anni», ha dichiarato lo scorso mercoledì 6 maggio un alto dirigente di una delle principali compagnie telefoniche francesi. A cosa si riferiva? Al panico nazionale scatenato in questo periodo di pandemia, al profitto che la propria azienda ricaverà grazie al confinamento che da settimane costringe milioni di utenti a stare incollati ai dispositivi elettronici, al crollo del livello di inquinamento dell’aria dovuto alla quarantena…? No, si riferiva a tutt’altro: al sabotaggio avvenuto il giorno precedente nell’Île-de-France, la regione in cui si trova la capitale del paese con i suoi ministeri politici e le sue sedi centrali finanziarie ed economiche. Un sabotaggio definito «intenzionale e su larga scala», avvenuto per di più solo 48 ore dopo che un giornale parigino aveva lanciato il pubblico allarme sulla «ripresa dell’azione diretta» in tutto l’esagono contro le (infra)strutture del dominio.
La misura del confinamento, proclamata lo scorso 17 marzo dal governo francese per arginare la pandemia, non è infatti servita a fermare l’offensiva — di logoramento, si potrebbe dire — che da anni è in corso su tutto il territorio contro il potere. Da nord a sud, da est ad ovest, sono centinaia e centinaia gli attacchi avvenuti nel recente passato non solo contro caserme, banche ed imprese, ma anche e soprattutto contro i mezzi tecnici che permettono il normale funzionamento di questo mondo: tralicci, ripetitori, parchi eolici, antenne, centrali elettriche e centraline di ogni tipo… Azioni semplici, alla portata di tutti gli arrabbiati, realizzate con i mezzi più disparati, e proprio per questo tenute lontano dalla ribalta nazionale al fine di neutralizzarne il cattivo esempio, relegandole a fatti di irrilevante cronaca locale. Così, mentre chiunque udiva (tremante o festoso) il tonfo delle vetrine infrante che cadevano nei centri cittadini nel corso delle grandi manifestazioni periodiche, quasi nessuno sentiva crescere giorno dopo giorno la selva oscura della rivolta anonima. Snobbate dagli aspiranti strateghi di movimenti sociali bisognosi di consenso, le azioni dirette sono state sostenute ed amplificate solo da chi non fa investimenti sulla rabbia.
Ebbene, se l’emergenza sanitaria è riuscita a svuotare rondò e piazze di Francia dai contestatori in giallo che settimanalmente le affollavano, nulla ha potuto contro la determinazione e la fantasia dei singoli sabotatori — con enorme fastidio di funzionari di Stato e dirigenti di impresa (nonché di qualche teorico rrrivoluzionario). Secondo i dati ufficiali, nel mese di aprile è stato compiuto quasi un sabotaggio al giorno, il cui fruscio è paradossalmente rimbombato nel silenzio dei cori di protesta. Talmente fragoroso da attirare l’attenzione generale? La scorsa domenica, 3 maggio, il quotidiano Le Parisien ha dato risalto all’ondata di sabotaggi avvenuti un po’ dovunque, sul cui conto sarebbero in corso una decina di indagini giudiziarie. Mai rivendicati da nessuno, questi sabotaggi vengono «attribuiti all’ultrasinistra», qui intesa come sinonimo di mouvance sovversiva (laddove nell’ambito specifico che potrebbe riconoscersi in quella definizione c’è chi li rimanda invece a «eco-nichilisti» o a «nostalgici dello Stato Islamico», senza dimenticare che alcuni «“anarchici” possono essere, teoricamente e socialmente, più vicini a Julius Evola che a Errico Malatesta» [sic!]). I lettori del Parisien vengono inoltre informati dell’esistenza di un paio di siti anarchici che esultano nel riportare la notizia di queste azioni dirette, che per altro si stanno diffondendo anche altrove in Europa (vengono nominati Italia e Paesi Bassi).
Sarà il caso, sarà una coincidenza, sarà un’irresistibile ispirazione, fatto sta che due giorni dopo quel grido d’allarme l’epidemia di sabotaggio arriva alle porte di Parigi. Durante la giornata di martedì 5 maggio le fibre ottiche di alcuni gestori telefonici vengono tagliate in più punti della periferia a sud-est (a Valenton, Fontenay, Créteil, Ivry, Vitry), provocando un gigantesco black-out telematico sia nella Val-de-Marne sia in alcune zone della capitale stessa. All’inizio si sospetta che sia stato un solo individuo, armato di smerigliatrice, ad aver agito in un paio di tombini di una zona industriale. Ma poi, col passare delle ore e l’arrivo di ulteriori segnalazioni di guasti, si comincia a pensare che si sia trattato di un attacco coordinato e perfettamente organizzato, i cui danni pare ammontino ad un milione di euro. Chi si è introdotto nelle cabine sotterranee delle compagnie telefoniche non ha rubato nulla, si è limitato a tranciare di netto i cavi di fibra ottica colpendo così «la rete nevralgica della rete internet francese, dove si trovano anche nodi di comunicazione internazionale». Ci vorranno ancora parecchi giorni per ripristinare del tutto il servizio, con gran disagio per decine e decine di migliaia di utenti. Niente chiamate ad amici e parenti? Già, ma soprattutto niente scambi commerciali, niente telelavoro, niente segnalazioni ai gendarmi, niente commissariati connessi, niente videosorveglianza, niente alienazione tecnologica.
«Sabotaggi a ripetizione» tuoneranno il giorno dopo gli organi d’informazione transalpini, sorpresi della facilità con cui possano essere disturbati gli affari pubblici. E nel lanciarsi tutti dietro alla pista sovversiva anticipata dai loro colleghi del Parisien, ieri (giovedì 7 maggio) c’è stato persino chi ha tenuto a precisare che sono tre, non due, i siti anarchici che festeggiano i sabotaggi; oltre a quelli già indicati (Sans Attendre Demain e Attaque), ce n’è un altro di cui non si riporta il nome ma che ha il cattivo gusto di pubblicare la traduzione di un testo italiano (ampiamente citato nell’articolo in questione) che saluta il pensiero stupendo avuto da chi in piena pandemia continua ad attaccare, invece di iniziare a tremare. Evidentemente fra i professionisti della propaganda poliziesca c’è chi ambisce ad infittire la trama a dismisura, spingendosi al di là delle Alpi…
Ancora uno sforzo, sbirri e giornalisti, se volete fermare l’epidemia di sabotaggi! Indicare i pochi che sostengono ad alta voce queste azioni, per poi eventualmente metterli a tacere, potrà forse soddisfare la brama di facile rappresaglia, ma di certo non fermerà la rabbia che trova sempre più motivazioni per dilagare, in Francia come altrove. Se già nella notte fra il 5 e il 6 maggio un ripetitore è stato incendiato a Oriol-en-Royans, ad oltre 600 km a sud-est di Parigi, mentre la sera successiva la stessa sorte è toccata ad un ripetitore a Languenan, a 400 km ad ovest della capitale, non è certo per permettere a tre siti anarchici di aggiornare le loro pagine. Se antenne e impianti elettrici si infiammano ovunque nel mondo, dall’Italia (l’ultima volta il 29 aprile a Roma, o forse il 6 maggio a Pozzuoli, dove è esploso un trasformatore in una centrale elettrica) al Canada (nell’area di Montréal, l’ultima volta il 4 maggio), dai Paesi Bassi (una ventina i sabotaggi realizzati a partire dai primi di aprile, l’ultimo dei quali a L’Aja, il 4 maggio, contro una antenna usata da polizia ed esercito) agli Stati Uniti (l’ultima volta a Philadelphia, all’inizio di maggio), senza dimenticare la Gran Bretagna o la Germania, non è perché esista un complotto internazionale anarchico contro le compagnie energetiche e telefoniche, ma perché ovunque si sta diffondendo una medesima consapevolezza: la normalità è la catastrofe che produce tutte le catastrofi. Non si tratta di invocare il suo urgente ritorno o la sua educata revisione a chi sta in alto. Si tratta, per chi sta in basso, di ostacolarne il ritorno sia teoricamente che praticamente.
[8/5/20]

Pozzuoli – Parte della città in black out elettrico

Apprendiamo dai giornali che la notte tra il 6 e il 7 maggio un incendio si è sviluppato poco dopo la mezzanotte in una centrale elettrica di E-distribuzione (società del gruppo Enel)  in via Fascione a Pozzuoli.

E’ risultato difficile domare le fiamme che hanno avvolto l’intera struttura per diverse ore…

https://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/cronaca/20_maggio_07/pozzuoli-incendio-centrale-elettrica-paura-residenti-8f701ab0-905e-11ea-9f72-d97830869ab7.shtml