Torino – IN AGGIORNAMENTO – 4 Compagn* arrestati in strada

DIRETTA RADIO QUI

14.30

Da Facebook:

La polizia ha fermato una persona in corso Giulio Cesare con i consueti modi oltre il vessatorio. Tanta gente è scesa in strada, tanti stanno urlando dal balcone in strada contro le FDO.

Sono arrivate altre volanti di rinforzo e quattro compagni sono stati portati via come bestie e ammanettati.

Chi può e nei modi che ritiene opportuni provi ad avvicinarsi a Corso Giulio Cesare 45

Guarda il video su facebook

oppure

https://www.youtube.com/watch?v=nqzdwZdInfQ&fbclid=IwAR2yOm7Ole_S5vYxvi_tgPmoFQ0Y1CFzLhJSI-dRlQyoKEmbfgH2tO3d62Q&app=desktop

15.15

La celere ora blocca tutto l’isolato e il dispiegamento è variegato tra Polizia e mezzi dell’Esercito

17.24

Verniciati un monumento, una sede della Randstadt e la fermata della metro di Piazza Nizza, bloccato il tram numero 4

Appuntamento alle 18.30 in via Cibrario

Appuntamento alle 18.00 in via Monginevro (non verificato)

Appuntamento alle 17.30 in Largo Saluzzo

Da Radio Blackout

Nel primo pomeriggio la polizia ha fermato due persone in corso Giulio Cesare.

Il fermo, di cui non sappiamo i motivi ma ci sentiamo di poter affermare che non sono quelli riportati dai giornali generalisti, è stato estremamente violento tanto da richiamare l’attenzione delle persone chiuse in casa per il virus. la brutalità delle forze dell’ordine ha portato molte a lasciare l’isolamento casalingo e scendere in strada. Tra le persone che hanno mostrato solidarietà sono state ammanettate e portate via 4 compagn*, ovviamente non tradendo la vocazione al sopruso.

Attualmente tutta la zona risulta bloccata dalle camionette che non accennano ad andarsene.

Aggiornamento delle 17.30:

In strada non c’è più nessuno, attendiamo aggiornamenti sui compagni portati via.

18.00

Da Facebook:

La violenza ormai a briglia sciolta della polizia si è manifestata oggi in maniera esemplificativa in un fermo che aveva il sapore di un’aggressione. Così chiara che in interi isolati di c.so Giulio Cesare a Torino le persone vedendo la scena non sono rimaste zitte e molte sono scese in strada. Tra loro anche quattro compagni buttati a terra, trascinati e portati via da un esercito velocemente giunto a reprimere la situazione. Decine e decine di individui in strada e centinaia dalle finestre hanno inscenato una vera e propria protesta nonostante le difficoltà perché c’è un limite di sopportazione all’ingiustizia e ciò che è accaduto questo pomeriggio lo dimostra.
Ora in strada non c’è più nessuno.
Ciò che è accaduto non passerà però in sordina.
Presto aggiornamenti sui compagni portati via dalle fdo.
Giordana, Marifra, Samu e Daniele liberi!
Tutti liberi, tutte libere!

18.10

Solidarietà anche da Milano

18.50

Blindati su corso Brescia

22.10

In c.so Giulio Cesare è solo l’inizio

10.00

Le persone arrestate hanno l’accusa di resistenza a pubblico ufficiale, lesioni e favoreggiamento. Attualmente si trovano alle Vallette, il carcere di Torino.

Illustre Feccia e Coronavirus

Bentruxu – 15 Aprile

Riceviamo e pubblichiamo un contributo da dei muntagninos del centro nord Sardegna
In montagna.
L’emergenza pandemica è vissuta con assurdità e in modo abbastanza irreale sopratutto in piccoli contesti territoriali come possono essere i nostri paesini montani, lontani, almeno per adesso, da un possibile problema sanitario diffuso e di massa, anche perché parlare di massa nei nostri contesti è sicuramente inappropriato. Il nostro isolamento naturale ci sta permettendo di “gestire” meglio la situazione, non abbiamo bisogno di “materiali” eccezionali per andare avanti e siamo abituati a vivere con poco. Esistono ancora sas buttecas, i piccoli negozi per alcuni alimenti, e il restante lo si trova dove si produce. Questa situazione ci ha fatto ritornare indietro nel tempo, assaporando rapporti sociali che la cosiddetta globalizzazione e i suoi stili di vita imposti aveva un po’ annacquato; capita di incontrarsi negli ovili, come un tempo, si discute, si da una mano, qualcuno impara le piccole pratiche antiche, si mangia bene e ci si organizza insieme come rientrare senza correre troppi rischi.
Ci si aiuta a vicenda, scambiandosi lavoretti e dandosi una mano creando una sorta di economia sociale che va oltre l’economia imposta, non si creano debiti o crediti ma solo la possibilità di fronteggiare una qualsiasi difficoltà, come questa attuale, ognuno dando ciò che riesce a dare, senza nessun metro di misura, c’è chi fa il muratore in cambio di carne buona, c’è chi viene coinvolto solo per raccontare storie, e c’è chi si presta per uno strappo in macchina se qualcuno ha fretta di spostarsi e le contingenze glielo impediscono.
Delle parate in divisa siamo abituati, e in su vonu e in su malu ce le sappiamo gestire, conosciamo bene lo Stato e le sue forze e non ci terrorizzano più di tanto, anche se l’omologazione sociale si sta allargando anche da noi, insieme alla paura indotta e al terrore “infettivo”, e così qualche maglia si sta indebolendo. Il contesto emergenziale ci ha fatto, quasi per assurdo, riprendere il nostro vecchio vissuto di libertà, praticato nelle campagne e nelle montagne, dove la natura è la nostra complice, con i suoi silenzi, le sue scorciatoie e se necessario i suoi ripari per il brutto tempo e per gli “ospiti” indesiderati che si sentono meno rilassati tra i ginepri o gli olivastri.
Per questo praticare l’auto arresto riteniamo sia dannoso allo spirito umano, sia quasi innaturale. Infilarsi gli scarponi, di pelle o da trekking e stringere bene le cinghie, ogni volta che lo facciamo è una carezza all’inconscio che ci prepara all’evasione possibile, pensando con rabbia agli operai ancora oggi ammassati nei cantieri industriali del nord, che non possono praticarla in nome del profitto. Camminare fra i cespugli o i boschi ci da la sensazione di assaporare la libertà che ci spetta, come dicevamo, e che non vogliamo barattare con nessuno.
Paragonare, dal punto di vista emergenziale e virale, il nostro territorio alla bergamasca o a qualsiasi centro affollato e “incontrollabile” la consideriamo una follia amministrativa e forse una inconscia sudditanza coloniale, che non vogliamo accettare passivamente. Per questo la briglia sistemica ci sta troppo stretta e letteralmente ce la togliamo dal muso, al massimo ci teniamo la mascherina se ci inoltriamo in città dove la massa umanoide, un po’ per natura, la sentiamo “pericolosa”: non siamo incoscienti, ci teniamo ai nostri vecchi e ai nostri amici malati o debolucci.
Andrà tutto bene, con gli scarponi in pelle o da trekking …

https://pod.mttv.it/posts/d0f89e4061150138894a00163e9f4810

Un tentativo di evasione in ritardo

La follia ha preso in mano le redini del mondo. Certo si potrebbe sostenere che non si tratta di una prerogativa del postmoderno, forse si assiste solo al ritorno del Licurgo, che per i suoi misfatti avrebbe perso il senno e avrebbe ucciso il proprio figlio e tutta la sua famiglia, o, a scelta, tutta la sua cerchia di amici, per poi giudicarsi. Oppure, qua le tradizioni divergono, sia stato successivamente catturato dal popolo indignato e poi squartato. In entrambi i casi, la follia si diffonde, raggiunge il tuo prossimo, coloro che appena ieri ti stavano più a cuore o in cui riponevi le tue speranze.

Ciò che è nuovo ed evidente della follia che ora sta imperversando nel mondo è la velocità con cui essa imperversa, superando tutti i confini e sopraffacendo il virus che l’ha introdotta nel mondo (o che l’ha semplicemente riportata in superficie, le opinioni su questo sono divergenti). Si potrebbe sostenere, non c’è bisogno di dirlo, che la vera pandemia sia la follia che si è impadronita delle persone. La sottile facciata della civiltà crolla nel giro di pochi giorni, direttive e narrazioni, apparentemente prerogativa di dittatori e despoti, vanno diffondendosi nelle cosiddette democrazie occidentali. Selezione dei malati, sorveglianza di tutti i movimenti all’aria aperta, droni che sorvolano le grandi città, furgoni con altoparlanti per le strade deserte che invitano gli abitanti a rimanere nelle loro case. Chi osa uscire all’aria aperta, fintanto che sia ancora permesso, guarda dentro occhi in preda al panico, in volti velati a stento, tutti si chinano e si affrettano. A chiunque stia ancora eretto, gli faranno passare la voglia.

Ma la gente ha anche bisogno di uscire all’aria aperta, ad esempio a Berlino, per lavorare, naturalmente, ma anche per allenarsi un po’ o per fare qualche giro in tondo. Esattamente quegli unici diritti che ancora rimangono a chi viene sbattuto in prigione. E così si gira in tondo per il cortile della prigione, a coppie, e ci si scioglie per la commozione quando il Senato annuncia di non voler essere così, che in futuro ci si potrà sedere un po’ sulla panchina. E tutti plaudono e applaudono la magnanimità dei condottieri dello Stato, e quando poi dice che adesso tutti dovranno uscire nel cortile della prigione con una maschera sul viso, che le ipotesi scientifiche sull’efficacia di tali misure hanno subito un ‘inversione di 180 gradi in una notte (sapete com’è nella scienza, un momento fa il mondo era ancora un disco e quelli che sostenevano il contrario sono stati tutti squartati, ma poof, la questione appare adesso completamente diversa), allora si applaude ancora. Punto. E se lo Stato è troppo stupido per riuscire ad ottenerne abbastanza di questi articoli da quattro soldi o per impedire che gli americani se li portino via, allora si fanno in casa a più non posso, con la sinistra avanti a tutti, che naturalmente era già in prima linea con le sue istruzioni per il fai-da-te. In ogni caso, il risultato finale è lo stesso. Non importa se li costruisci da solo agli arresti domiciliari o se lasci che i galeotti li producano nelle prigioni vere, quelle tradizionali.

E dove ci si è finalmente messi comodi nella speranza regressiva che quelli là in cima si prendano cura di tutti noi e che sia effettivamente atteso che il Feuerzangenbowle venga ripetuto in loop, arrivano alcuni facinorosi. Sostenendo che l’insieme delle cifre su cui si basano le misure dello stato di emergenza è puramente ipotetico e che certi diritti di libertà dovrebbero essere difesi. Tanto più che non è ancora scontato che le misure adottate saranno efficaci. Presentano le proprie ipotesi e i propri dati e hanno l’impertinenza di far notare che loro stessi sono esperti del campo e hanno anche una certa reputazione.

Ma con la mamma e col fidato RKI non si scherza. Soprattutto non con l’Istituto Robert Koch e la sua direzione, che all’inizio di Marzo aveva dichiarato che “il pericolo per la salute della popolazione in Germania è attualmente valutato come moderato” e continua a considerare il virus dell’influenza come più pericoloso. Ma dell’inversione di 180 gradi ne abbiamo già parlato sopra. E una volta che l’hai fatto, bisogna apparire ancora più accurati, altrimenti la gente potrebbe ricordarsi delle sciocchezze che hai detto.

La fronte severamente forma delle rughe, i dubbiosi vengono messi al loro posto e il sano sentimento popolare urla: “Assassino, assassino”, come se gli scienziati rinnegati, con le valigie piene di virus, girassero per le case di riposo e di cura a infettare i poveri indifesi che vi si trovano. E davanti, la sinistra e i suoi media, dalla taz alla ND, predicando sottomissione e ranghi saldamente uniti. E, nel mezzo, la bolla della scena extraparlamentare. Eh, tutto già solo alibi e inutile discorso sulla discussione, subito adattabile a discussione su una funzione matematica.
Ma come uscire dal pasticcio, e ci sarà un mondo dopo il delirio e, soprattutto, ci si vorrà vivere dentro? I compagni del Collettivo Wu Ming, bloccati agli arresti domiciliari da diverse settimane, si sono recentemente chiesti: “E per quanto riguarda la prossima epidemia, cosa faremo?” Perché arriverà. A meno che le condizioni di base che hanno reso possibile questa pandemia, non vengano radicalmente messe da parte. Ma questa lotta non può essere combattuta se noi, che siamo (diventati, forse vi ci eravamo pure abbandonati una volta) resistenti alla follia, non possiamo incontrarci e organizzarci. Forse sarà necessario prima ottenere piccoli successi tattici. Le azioni nei sobborghi francesi contro il divieto di uscire ne sono un esempio. Mantenere un conflitto (con gli sbirri) a fuoco lento, in modo che l’avversario cerchi o un confronto totale (con il pericolo che le cose si mettano male per lui), o si ritiri parzialmente (come è stato fatto, seguendo ordini da molto in alto).
L’operato degli sbirri a Kotti contro l’azione di 100 persone il 28.3. ha anche mostrato che pure il nostro avversario non è sicuro sul da farsi, altrimenti avrebbe proceduto molto più duramente. Finora gli sbirri e gli altri organi repressivi hanno la situazione ben sotto controllo, ma anche per loro la sorveglianza e il controllo di una città di 3 milioni di abitanti in stato di emergenza è uno scenario completamente nuovo. Osserveranno sempre come si sviluppa l’umore, e forse piuttosto si ritireranno prima del solito per evitare, a differenza di quanto avviene normalmente, un’escalation. La città (e gran parte del mondo, naturalmente) è ancora governata dal delirio e dalla sottomissione, ma quando la paura si placherà (e questa è una legge naturale di una reazione collettiva al panico), ci sarà spazio di manovra. Gli innumerevoli primi scontri nei paesi del Trikont ne sono un segno. Forse il 1° maggio (per la prima volta dopo molti, molti anni) sarà un luogo dove occupare il territorio, per allearsi con chi anche ha costruito una resistenza contro la follia. Vale la pena provare. Sembra che la prima rigidità dello shock sia stata superata, si possono trovare i primi riferimenti che cercano di analizzare la situazione e ne traggono i primi passi.
In questo contesto, una traduzione dall’Italia, che chiede una rottura di massa agli arresti domiciliari nell’anniversario della liberazione dal fascismo, il 25 aprile.

Ein überfälliger Ausbruchsversuch

Dietro l’angolo Pt.2 – Qualche ipotesi su covid 19 e sul mondo in cui vivremo

La retorica di un crescente benessere che il capitalismo avrebbe pian piano assicurato un po’ a tutti, è ormai morta e sepolta da tempo.
L’immagine con cui le autorità hanno tentato di rappresentare il mondo riservato alla gran parte degli uomini e delle donne, è diventata più simile a una scala a pioli, cui bisogna tentar di restare aggrappati con le unghie e coi denti, per evitare di cadere giù ai tanti scossoni che le vengono dati.
Una scala cui continuano a togliere punti d’appoggio, mentre aumenta il numero di uomini e donne in cerca di un appiglio. La prepotente entrata in scena del Covid19 minaccia di renderla ancor più carica e traballante.
Tenteremo di approfondire la questione in un testo che uscirà a puntate, una a settimana, in cui se ne affronteranno di volta in volta alcuni specifici aspetti. Un testo redatto a più mani, da alcuni compagni che partecipano alla redazione di questo blog e da altri che invece non ne fanno parte. I singoli capitoletti potranno quindi avere uno stile e magari dei punti di vista diversi o contenere delle ripetizioni.
Del resto le possibilità di confrontarsi collettivamente in questi giorni sono notevolmente ridotte e discutere attraverso piattaforme online non è certo la stessa cosa che farlo vis a vis.

Cablaggi di Stato

Nella crisi sociale attuale la domanda che maggiormente sembra assediare milioni di individui asserragliati è quella su cosa accadrà dopo che la fase più acuta di emergenza sanitaria sarà finita. Il talismano naïf dell’andrà tutto bene non convinceva neppure all’inizio del domiciliamento, figurarsi dopo settimane in cui alla vecchia e nota miseria si sono aggiunte in un sol colpo le esistenze precarie di coloro che non hanno risparmi e le incertezze sul futuro dei “garantiti”, certamente ammaccati da anni di stagnazione ma finora mai privati del fine settimana in centro e delle ferie.

Un pensiero insidioso si è palesato sin da subito: l’affaire coronavirus non prevede un ritorno alla ‘normalità’ che lo ha preceduto. Se questa constatazione ormai radicata non può che essere foriera di una serie di inquietudini comprensibili e umane, non fosse altro per i piccoli sprazzi di bellezza che ciascuno tratteneva nella propria mesta quotidianità o per le rodate tattiche di sopravvivenza, i sovversivi non possono che tentare di vedere delle possibilità nella breccia inferta al Moloch che fino qualche mese fa sembrava non poter essere scalfito. Del resto la consapevolezza che la normalità pre-pandemia sia stata il problema primario non è più appannaggio di sparuti gruppi di sognatori.

Per far sì che non ci si fermi alle consapevolezze sarà però necessario fare i conti con la velocità con cui lo Stato potrebbe riorganizzare la sua riproduzione o di alcune sue propaggini “strategiche”, adattarsi ai nuovi scenari e affinare i propri strumenti. In questo senso, per rispondere alla domanda su cosa avverrà dopo, già si sono tenute numerose tavole rotonde tra governo e amministrazioni locali per la concessione di poteri extra-ordinari e la ridiscussione degli ambiti politici. Contrattazioni politiche, negoziazioni e redistribuzioni di potere, elementi complessi già da tempo sul piatto del federalismo fiscale, ora assumono la dimensione di vera e propria frizione tra alcuni presidenti di regione e il governo centrale. In una disputa su chi applica misure maggiormente adeguate, molti amministratori locali hanno imposto per il contenimento del virus più restrizioni o persino dettami diversi rispetto a quelli dei decreti-Conte, basti pensare alle zone rosse comunali o sistemi di lockdown più ferrei in alcuni territori. Se questo modus operandi si presenta a un primo livello come mossa di governance necessaria nell’emergenza che ha coinvolto in misura differenziata il paese, non si può pensare che non avrà ripercussioni politiche durature e di vasto campo. La richiesta di “pieni poteri” fatta dal piemontese Alberto Cirio, esautorata in lungo e in largo come un’esagerazione, è sicuramente più di un’esternazione mal riuscita. La forte rilocalizzazione politica avvenuta negli ultimi anni, specie per quanto riguarda le principali città, è stata già normata dagli ultimi decreti legge sulla sicurezza. Al ruolo dei sindaci-sceriffo o ai poteri aggiuntivi dati ai prefetti potrebbero presto aggiungersi quelli alle Regioni per far fronte alle varie “calamità naturali”. Poteri che, come ci insegna questo virus, saranno sempre meno basati sulla prevenzione generale per volgersi verso il governo del rischio. In un mondo di incertezza fisica ed economica, il contenimento e lo spostamento straordinario di masse umane per ragioni non più presentate come politiche e con cause rintracciabili, ma di forza maggiore e con un certo fatalismo (malattie, terremoti, crolli, valanghe, innalzamento dei mari), potrebbero entrare come strumento indispensabile nella cassetta degli attrezzi degli amministratori dei territori considerati particolarmente a rischio.

La ridefinizione degli ambiti di governo si inserisce in ristrutturazioni di altro livello in nuce già da tempo. I cambiamenti nel campo della cittadinanza e missione etica dello Stato non tarderanno a evidenziarsi infatti come il più grande sconvolgimento sul lungo periodo e la definitiva fine della modernità.

Negli ultimi anni abbiamo già intravisto un riposizionamento dei confini dell’universalità della tutela dello Stato rispetto a qualche decennio fa. Sappiamo bene come l’accessibilità ai diritti ha sempre risposto a criteri immanenti al ruolo che gli individui svolgono nella valorizzazione del capitale e all’esigenza che ne consegue di interiorizzazione di un sistema di norme basato sulla dicotomia inclusione/esclusione, tuttavia non si può negare come in buona parte del‘900 lo stato sociale sia stato una coperta ampia. Da lì tutta la retorica sull’universalità del diritto al benessere e alle pari opportunità di riuscita sociale garantite da uno Stato finalmente nel suo ruolo di padre di famiglia. Retorica questa che nello stesso momento in cui veniva sbandierata dalla sinistra, era già in procinto di essere spaccata pezzo a pezzo attraverso riforme, riformine e riformette.

L’apoteosi di questa sottrazione inesorabile si è avuta nel passato recente quando i vari diritti raccontati come conquiste si sono trasformati in ambiti di sempre maggior esclusività il cui ingresso, che sia in un’università, in una clinica o in una casa di proprietà, non è che la soglia che divide i cittadini che contano qualcosa, perché profittevoli o particolarmente devoti, dalle masse di individui che accedono ai servizi di welfare ormai solo occasionalmente. L’esempio più lampante è giustappunto quello della sanità pubblica, in cui la possibilità di riuscire a prenotare visite specialistiche è così ridotta da costringere le persone a utilizzare, in caso di aggravamento, i servizi d’emergenza del pronto soccorso.

Questo dimostra che lo Stato nelle sue compagini non è un risultato definitivo, come l’immaginario da fine della storia ha imposto a lungo, ma un continuo scontro di forze reali di cui la democrazia liberale degli ultimi quarant’anni è solo un risultato che ha incluso anche il contentino modestamente generoso dato ai vinti dell’assalto al cielo. Generoso proporzionalmente al rischio sventato di un sovvertimento generale. Non ci porterebbe molto lontano farci cullare dalla retorica dei diritti sociali negati. Non è che una preghiera lamentosa recitata a un dio che ha concesso la manna dal cielo solo quando il rapporto di forza strappato coi denti dagli sfruttati rischiava di mordergli anche il culo. Non essendosi riproposto per decenni quel pericolo alle calcagna, sventato lo scontro sovversivo, lo Stato ha semplicemente riposizionato le sue risorse tra le componenti padronali che gli esercitano maggior pressione, lasciando echeggiare nell’aria solo un piagnisteo socialdemocratico che implora per un diritto ormai solo nominale.

Le difficoltà crescenti nel mondo degli esclusi e di coloro che si trovano nella zona grigia del rischio di povertà non sono tuttavia per le istituzioni un problema di poco conto. La realtà materiale della società è ciò a cui guarda l’ordine prettamente repressivo attraverso la sfera penale. Il nemico per lo Stato ha acquisito nella confusione sociale e nell’indeterminatezza economica del nuovo millennio dei tratti meno identificabili, non più solo quelli del sovversivo, dello sfaccendato o del vagabondo. La ricerca dello sfuggente fattore criminogeno, lungi dall’essere una procedura speciale di polizia, è la stessa che blinda con checkpoint gli eventi urbani, controlla scrupolosamente ogni angolo con la videosorveglianza, presidia permanentemente determinate zone con forze di polizia: è la società stessa ad apparire come pericolosa perché per di più composta da individui non più normati da un lavoro stabile, da una fede partitica o dalla morale del vangelo, non più accompagnati con attenzione da strutture socio-sanitarie o dagli altri sistemi di welfare che ne consentivano la riproduzione in quanto lavoratori e il ricatto in quanto esistenze senza più autonomia.

I sistemi forti di welfare sono quelli che in passato hanno avuto il ruolo di accompagnamento più significativo alla sicurezza sociale, come controllo ramificato della popolazione che agiva ben prima della galera. Lavorare per pagare mutuo e macchina, la certezza di cure serie e costanti, il sogno dell’ascensore sociale per la prole e di una vecchiaia retribuita sono parti di un percorso preciso e ordinato che più generazioni hanno attraversato.

A questo paradigma preciso si è contrapposto quello delle ultime generazioni, non più irregimentate da una promessa di vita stabile e senza mappa per il futuro. L’indeterminatezza sociale è del resto ciò che ha alimentato negli ultimi anni il crescente ruolo della polizia e le legislazioni sulla sicurezza, atte a proteggere dal pericolo rappresentato dagli impoveriti e dagli sfiniti le zone ritenute strategiche per l’economia e per il suo ambiente (centri città, dipartimenti infrastrutturali o industriali, quartieri dei ricchi, parchi naturali protetti).

Da tutto ciò si evince che lo spazio di cittadinanza in cui è piombato il Covid-19 era nella sua sostanza già notevolmente riconfigurato. L’epidemia sembra imponga un momentaneo cortocircuito, e ciò che pare importi generalmente a tutti è la sua fine. Se in questo momento lo Stato si propone nuovamente come il soggetto impegnato a fronteggiare una minaccia universale, si può immaginare che fra poco potrà apparire come colui che ha fatto il necessario o, ancora peggio, l’inevitabile.

Come scrivevamo il cosiddetto governo del rischio, con il suo portato di fatalismo e il suo giustificarsi attraverso forze di causa maggiore, riammanta la legittimità statuale dei suoi significati più antichi per quanto riconfigurati.

E gli esempi ungheresi e sloveni sbiadirebbero, nella loro piccolezza, di fronte ad uno Stato che esercita i suoi poteri non più camuffato dietro il consenso o la rappresentanza democratica ma nuovamente votato alla missione etica della sopravvivenza.

In quest’ottica l’ordine sovrano, in linea con la tendenza degli ultimi anni, si potrebbe applicare come il riconoscimento di cittadini ai soli occupati, per tracciare una linea di inimicizia formalizzata, militare, spaziale e di controllo per tutti gli altri.

Per chi ancora si ricorda dell’assalto al cielo sarebbe la conferma di un fronte di guerra che prima sembrava più rarefatto e che ora si farà più netto e preciso.

Se vi siete persi la prima puntata di Dietro l’angolo potete leggerla cliccando sotto.

Tra salti e accellerazioni. A mo’ d’introduzione.

Dietro l’angolo Pt.2 – Cablaggi di Stato

Roma – Rivolta nel CAS

Nel pomeriggio del 14 aprile nel CAS di Torre Maura sono state date alle fiamme lenzuola e mobili, l’incendio pare essere partito dal terzo piano. Nei giorni passati all’interno del centro sono stati refertati 4 casi di positività al covid19 e tutte le persone presenti nella struttura erano state rinchiuse. Pare però che da settimane venivano chiesti i tamponi per i cosidetti “ospiti”. Per questo c’erano stati dei tentativi di fuga, oltre ad attacchi alla struttura da parte dei fasci. Così da giorni alcuni mezzi della polizia presidiavano l’ingresso ed era stata anche alzata la recinzione.
Già il 7 aprile alcuni solerti cittadini avevano dato l’allarme perché si erano accorti che alcuni “ospiti” stavano scavalcando le mura del CAS.
Il centro era già noto perchè l’anno scorso un gruppo di fascisti aveva cacciato con violenza 70 persone rom.
Le 70 persone, 22 donne di cui 3 incinte, 15 uomini e 33 bambini bollati  come particolarmente fragili dal comune, provenivano da altre strutture o campi informali.
Nel 2018 alcunx di loro erano statx sgomberatx dal camping River, che ricorderemo con una breve testimonianza:
“Questa mattina sono venuti per buttarci fuori, ci hanno trattato come animali. C’è stata violenza, hanno spinto le donne e usato lo spray al peperoncino su una signora. Qualcuno è uscito volontariamente, qualcuno è svenuto” per la maggior parte anche quella volta lasciatx senza soluzioni alternative.
Pare che via Codirossoni (l’attuale CAS) fosse la soluzione trovata allo sgombero dalla ex cartiera di via salaria, che dopo una beguccia burocratica è divenuta un fruttuso affare chiamato  URBAN VALUE by Ninetynine, la società che dal 2009 si è specializzata nella realizzazione di progetti di rigenerazione e di immobili in disuso o abbandonati in particolar modo in collaborazione con Cassa Depositi e Prestiti, uno dei più ricchi proprietari immobiliari d’Italia. La società ha dato vita anche ad altre speculazioni sempre a Roma, come PratiBus District e Ragusa Off, negli ex depositi ATAC. Questo dopo che una deportazione di massa aveva diviso gli abitanti spargendoli per i centri di tutta la città ed interland; per alcunx la soluzione trovata è stata dividere le famiglie mandando madri e figlx in dormitori e padri per strada, “soluzione” che alcunx avevano degnamente rifiutato.
Le deportatx a Torremaura dopo alcuni giorni di scarsità di cibo, minacce, insulti ed attacchi alla struttura erano stati ricollocati ancora una volta in luoghi disparati, tra i quali quello di via della Primavera, gestito da Medihospes.
Come avranno vissuto lì?
Prendiamo un esempio: In una stanza di 12 metri quadri con un bagno inutilizzabile e muffa dappertutto. A fianco un’altra stanza simile utilizzata per mettere vestiti e valigie visto che le camere non dispongono di arredo, se non un lettone e un letto singolo dove passano le giornate lui, sua moglie – con un’invalidità certificata al 100% – sua suocera, anche lei con gravi problemi di salute, e  tre bambini. Fino a che un bel giorno arriva una lettera, che dice che il 7 aprile scade tutto, e quindi, in piena pandemia, dove finoranno le persone lì ospitate? Per strada!
Al buon cuore di qualche mediatore e cittadino altruista, una infinita sequela di burocrazia domande e ipocrisia, alcunx di loro son finite in un rifugio della croce rossa.
Deporatati qua e là senza la possibilità di costruirsi una vita per più di qualche anno. Spostati come numeri sui bilanci di associazioni e coperative che ricevono fondi stanziati “per loro”, soldi che loro non vedranno mai. Soldi che lx rendono risorse, merci si potrebbe dire.
E poi ci si chiede come mai la gente non ha più paura ne di un virus ne del fuoco…

Sud Africa – Saccheggi e scontri con la polizia a Cape Town

Nelle strade di Cape Town centinaia di rivoltosi si sono scontrati con la polizia in seguito alle misure imposte per far fronte all’epidemia di Covid-19.

Sono state erette e incendiate delle barricate e gli sbirri sono stati bersagli di vari lanci di pietre.

Diversi negozi, chiusi per le misure, sono stati svaligiati dalla folla affamata dalle misure adottate dallo stato sudafricano.

Cibo, alcolici, registratori di cassa, sono passati di mano in mano perdendo il proprietario..

 

https://www.youtube.com/watch?v=Al5WdwMNmFQ

La pandemia della paura

C’era uno slogan anarchico che mi piaceva particolarmente e che recitava grosso modo così: “Una società che incarcera è essa stessa un carcere”. Questo oggi è più vero che mai e al tempo del Covid-19 si può ben dire che non c’è più alcun dubbio sulla reale natura di tutte quelle strutture della civiltà che oggi si sono dimostrate delle vere e proprie gabbie e dei sistemi oppressivi come la città, lo stato, l’esercito, le tecnologie e la scienza. Nulla si può scindere dall’attuale sistema di dominio, sono tutti tasselli che compongono un unico quadro che oggi si è mostrato in tutta la sua terrificante realtà. Risulta così, ormai evidente, che tutto quello che sta succedendo non è semplicemente un’”emergenza” sanitaria, ma una riorganizzazione in chiave tecnico scientifica delle nostre vite, per costruire quel mondo nuovo che non ha più bisogno di esseri umani, ma di ingranaggi della Megamacchina, un mondo di perfetti ammalati alla continua dipendenza delle droghe
vendute e commercializzate da Big Pharma!

«La piena realizzazione di noi stessi inizia col riconoscere ciò che non siamo»
Laurens Van Der Post

In questi anni l’idea chiara che mi sono fatto è che la civiltà sia un’incubatrice, che la malattia e il deperimento dei nostri corpi siano un sacrificio che dobbiamo compiere sull’altare del progresso e della modernità. Abbiamo imparato, e siamo stati condizionati molto bene in questo, che andare avanti, sognando un futuro migliore, è l’unica cosa che conta, ma nessuno ci ha mai detto che per fare ciò dobbiamo immolare la nostra sanità mentale, la nostra felicità e tutte quelle capacità umane che da sempre ci hanno  contraddistinto come specie e che ci hanno permesso di apprezzare le piccole cose della vita e di essere felici, nonostante tutto.
I Boscimani, che erano una tribù indigena di cacciatori-raccoglitori (parlo al passato perché ciò che di loro è rimasto oggi non fa onore alla storia millenaria di questo popolo), diceva con ostinazione che la verità, il bello e le più grandi risposte della vita andavano ricercate nel piccolo, in ciò che appariva “inutile” o “di poco conto”. Ecco allora come Laurens Van Der Post, ispirato dai tantissimi anni trascorsi con i boscimani, potè scrivere le seguenti parole: «le loro azioni [degli uomini sulla terra] erano come luce delle stelle, si
concretavano al momento in cui erano compiute, ma il loro significato, la luce che consisteva nel loro scopo, la loro essenza, richiedeva anni per affiorare alla coscienza, per non parlare poi di attingere la chiarezza nello spirito umano. Era impossibile vivere, quindi, senza mostrare una grande reverenza nei confronti di ciò che era piccolo. […] Il significato di ciò che è grande poteva inverarsi solo in quanto era significativo nel
piccolo» i .
Ecco allora che oggi, al contrario dei Boscimani che guardavano al piccolo per godere della vita e assaporare la semplicità della loro esistenza, siamo costretti a guardare al nostro passato, ad analizzare ogni piccolo segno, ogni passo fatto, per renderci conto che tutto quello che viviamo oggi non è altro che il prodotto di errori su errori, di devastazioni dopo devastazioni, di pezze messe su ferite che non sono mai riuscite a rimarginarsi, ma che noi abbiamo creduto di poter curare con sempre nuove tecnologie, nuova scienza,
nuove forme di governo non riuscendo a capire, nella nostra cecità, che il problema era un altro, che questi non erano che i sintomi di una malattia molto più profonda e lacerante.

«Un’occhiata alle città tutte identiche che stiamo costruendo dappertutto nel mondo
dovrebbe essere sufficiente a dimostrare che questo genere di progresso è come il
proliferare di una singola cellula a spese di tutte le altre, la cellula che produce il cancro
che poi uccide l’intero corpo».
Laurens Van Der Post

Il passaggio probabilmente cruciale nella nostra storia è rappresentato dallo stanziamento e da tutto quello che questa “scelta” ha comportato in termini di dominio, potere, addomesticamento, controllo, sfruttamento e mercificazione della natura. Indubbiamente, al di là del pensiero con la quale ognuno può valutare se sia stata una scelta secondo lui giusta o meno, è da questo momento che fanno la comparsa gli stati, gli eserciti, il potere e cioè tutte le forme patologiche di dominio, ma non solo. È sempre da questo momento e cioè da quando abbiamo deciso, di ammassarci in città, di vivere a diretto contatto con gli animali addomesticati, di coltivare e disboscare zone sempre più vaste, che sono insorte quelle che oggi chiamiamo malattie!Tutto questo non è sempre esistito e bisogna dirlo e urlarlo a gran voce soprattutto oggi che questa è la causa della prigionia forzata di tutta la specie umana civilizzata, dall’Italia agli Stati Uniti, dalla Corea ad Israele, dalla Spagna al Libano. Indipendentemente dalle cause di quella che oggi viene definito Covid-19, che ieri si chiamava SARS e che domani avrà necessariamente un altro nome per le stesse paure, non cambia ciò che è sotto i nostri occhi e cioè il fatto che è la civiltà, il nostro stile di vita, la causa di tutto ciò.
Jared Diamond sotto questo punto di vista, in “Armi, Acciaio e Malattie”, l’ha spiegato in maniera molto chiara scrivendo che: «i peggiori killer dell’umanità nella nostra storia recente (vaiolo, influenza, tubercolosi, malaria, peste, morbillo e colera) sono sette malattie evolutesi a partire da infezioni animali» ii . Diamond continua poi dicendo: «gli insediamenti agricoli attirarono i roditori, che sono notori veicoli di malattie. Il disboscamento, infine, rende l’habitat ideale per il prosperare della zanzara anofele che porta la malaria. Se la nascita dell’agricoltura fu una festa per i nostri microbi, l’arrivo delle città fu addirittura la manna dal cielo: in città c’erano molti più ospiti potenziali, e in condizioni igieniche ancora peggiori. […] Un altro momento di gloria nella storia dei germi fu l’apertura delle rotte commerciali, che trasformarono i popoli d’Europa, Asia e Nord-Africa in un gigantesco banchetto per microbi» iii .
Che forse tutto questo non possa essere trasposto qui, oggi, per analizzare il “cattivo” virus del Covid-19? Forse che i più grandi focolai non sono le zone più densamente abitate e più inquinate dei paesi colpiti? Forse che il veicolo attraverso il quale tutto ciò ha assunto caratteri planetari non sia dovuto al fatto che la globalizzazione dell’economia è arrivata a colonizzare ogni angolo di questo mondo? È davvero tutta colpa della “natura cattiva” come da sempre dicono?
Quella che viene combattuta (per usare il gergo militare e scientifico che piace tanto ai lor signori) oggi negli ospedali è una battaglia persa. Non si potrà mai risolvere un problema partendo dall’effetto e quello che in questi giorni viene ripetuto ovunque è che “andrà tutto bene” e che “tutto si risolverà per il meglio”, ma perché dovrebbe essere così?
Quello che sta succedendo sembra avere più a che fare con un progetto politico che con un’emergenza sanitaria. Sembra che qui a voler essere estirpata sia l’umanità piuttosto che una malattia che, nata in seno a questa civiltà, non ha fatto altro che approfittare del terreno fertile sul quale si è posata per diffondersi in tutto il globo.

«…mio caro Bernard, penso che abbiate ragione. Il terreno è ben più importante del
microbo. Il terreno è tutto, il microbo è nulla…»
(lettera di L. Pasteur a C. Bernard)

Quando però parliamo delle malattie non dobbiamo dimenticarci che se esse hanno avuto un terreno politico- sociale, che ha reso estremamente facile la diffusione delle epidemie, con le città e i grandi assembramenti urbani, questo però è stato reso possibile anche e soprattutto dall’influenza che l’agricoltura, attraverso il suo percorso di millenni, ha avuto nel rendere la specie umana più debole e di salute cagionevole.
Innanzitutto bisogna ricordare, e qui possiamo citare John Zerzan, che «l’agricoltura rende possibile una divisione del lavoro molto più marcata, fissa le fondamenta materiali della gerarchia sociale e dà inizio alla distruzione dell’ambiente. Sacerdoti, sovrani, corvè, discriminazione sessuale, guerre sono solo alcune delle immediate conseguenze specifiche» iv . Indipendentemente dal fatto che se ne voglia prendere atto o meno,
l’agricoltura (e l’allevamento), come dominio dell’uomo sulla natura, opera un profondo cambiamento non solo in termini di devastazione ambientale, ma agisce anche ad un livello inconscio e psicologico modificando il nostro modo di rapportarci sia con l’ambiente che ci circonda (trasformandolo in una merce dal quale trarre il massimo del profitto) sia influenzando i rapporti con gli altri che da quel momento non saranno più di cooperazione, ma si trasformeranno in rapporti coercitivi di potere e di conflittualità (la proprietà privata, diretta conseguenza dell’agricoltura e dello stanziamento, è emblematica a spiegare ciò).
La grande varietà di cibo, viene ripetuto come un mantra ormai addirittura anche dai medici, è fondamentale per mantenere un corpo in salute. Infatti una cosa è usare integratori, naturali o sintetici, di vitamine come surrogati dei cibi naturali (in questi giorni, ad esempio, i medici hanno scoperto l’acqua calda e viene consigliato di assumere vitamina D sintetica per rafforzare il sistema immunitario, quando basterebbe  invece violare questa stupida quarantena ed esporsi al sole primaverile!), un’altra è attraverso l’alimentazione fornire tutte le sostanze nutritive di cui il nostro corpo necessita.
Parlando così di alimentazione e di “terreni fertili” per lo sviluppo della malattie, bisogna notare che «se gli esseri umani del paleolitico godevano di una dieta estremamente varia, cibandosi di alcune migliaia di specie di piante, la coltivazione ha ridotto drasticamente queste risorse.» v e Zerzan continua, «la fine della vita del raccoglitore-cacciatore determinò un calo di taglia, statura e robustezza dell’apparato scheletrico e favorì il
diffondersi della carie dentale, delle carenze alimentari e di gran parte delle malattie infettive» vi . Se mettiamo quindi insieme queste conoscenze che ci derivano da molte fonti antropologiche e ascoltiamo ciò che ormai da due secoli ci dicono gli Igienisti, e cioè i rappresentanti della corrente dell’Igienismo Naturale, ci possiamo rendere facilmente conto di quanto fondamentalmente non sbagliano affatto quando essi dicono «il
virus è niente, il terreno è tutto».
Sì perché tutto dipende dal terreno bio-chimico sul quale i batteri si poggiano, se una persona è sana infatti, e per sana si intende una persona non stressata, che svolge attività fisica, che prende il sole, non assume droghe e farmaci vari e che si alimenta in maniera naturale e quindi senza cibi industriale e pieni di pesticidi, non si ammalerà. E questo non lo dico io, ma basta guardare alla storia dell’Igienismo che è piena di esempi e
dimostrazioni pratiche al riguardo. Bisogna poi ricordare anche che di batteri noi siamo fatti e che siamo da essi praticamente circondati in ogni momento della nostra vita convivendoci in maniera armoniosa e simbiotica.
Quindi oggi non si nega l’esistenza di persona ammalate e ricoverate negli ospedali, ma si vuole porre l’accento sul fatto che se ci sono così tante persone malate (e il Covid-19 probabilmente è solo l’ultimo dei problemi) è perché il nostro modo di vivere, di alimentarci, e di delegare la nostra salute a specialisti ci ha resi dei malati cronici incapaci di essere padroni delle nostre vite e di decidere della nostra salute.
Sempre citando Jared Diamond: «alla fine ci accorgiamo che solo una dozzina di specie vegetali costituisce più dell’80 per cento del raccolto annuo sulla terra: sono cinque cereali (grano, mais, riso, orzo e sorgo), un legume (la soia), tre tuberi (patata, manioca e patata dolce), due piante zuccherine (la canna e la barbabietola da zucchero) e una pianta da frutto (banana). I cereali forniscono da soli più della metà delle calorie consumate dalla popolazione mondiale».
Possiamo trovare altre conferme di questo degrado costante nella nostra alimentazione, che dagli albori dell’agricoltura ci ha portato fino ad oggi, nei resoconti di, ad esempio, Rooney che ci dice come i popoli preistorici trovavano sostentamento in più di 1500 specie di piante selvatiche; di Wenke che ci parla di come tutte le civiltà si sono basate sulla coltivazione di una o più specie di queste sei piante: grano, orzo, miglio, riso, mais e patata; e infine abbiamo Pyke che, senza tanti giri di parole, ci dice come nel corso dei secoli il numero dei diversi cibi commestibili che venivano e vengono mangiati è costantemente diminuito.
È evidente quindi come l’alimentazione moderna sia non solo costituita da cibi morti, inscatolati, conservati, edulcorati e colorati, ma anche molto poco varia e scarsissima di frutta, verdura, semi e soprattutto cibi selvatici (animali e vegetali) che da un punto di vista alimentare sono, senza ombra di dubbio, molto migliori rispetto ai loro discendenti addomesticati e resi più “appetibili” dopo anni di selezioni. Ci si ingozza poi prevalentemente di cereali e legumi alimenti che il nostro corpo molto spesso digerisce poco e male causando infiammazioni all’apparato digerente, fermentazioni e costipazioni che sono la causa di moltissimi mali odierni.
Non è stata però solo l’alimentazione a subire un processo di degradazione nel passaggio da uno stile di vita essenzialmente nomade di raccolta e caccia ad uno stanziale civilizzato, ma si potrebbe parlare a lungo del notevole calo di attività fisica fondamentale per il corretto funzionamento del nostro organismo, della minore esposizione ai raggi del sole che faticano ad entrare nelle città e ancor di più nelle nostre case, dello stress e
della paura che si sono impadroniti delle nostre vite e infine come non ricordare della degradazione spirituale dovuta ad una vita che impone la prevaricazione come mezzo per rapportarsi all’altro/a. Tutto ciò ha fatto di noi una specie perennemente ammalata, perennemente alla rincorsa di una felicità e di un benessere che non possono essere ottenuti se non attraverso la messa in discussione di tutto ciò che ci circonda. Tant’è vero che è sempre Zerzan che ci dice come «DeVries ha citato un’ampia serie di paragoni che permettono di constatare la superiorità dei raccoglitori e cacciatori in materia di salute, tra cui l’assenza di malattie degenerative e di infermità mentali, nonché la capacità di partorire senza difficoltà e dolore. Ha anche rilevato che tali caratteristiche tendono a deperire in seguito al contatto con la civiltà» vii e, continua Zerzan,«nel complesso, la dieta dei raccoglitori è migliore di quella dei coltivatori, l’inedia è molto rara e lo stato di salute è generalmente migliore, con molte meno malattie croniche» viii .
E proprio oggi, a conferma del fatto che Big Pharma non ha alcun interesse alla nostra salute, i diktat emessi a gran voce dagli altoparlanti del potere invocano la segregazione in casa, l’isolamento, la quarantena, l’astinenza dal sole e dall’aria pulita, il non contatto con gli altri. Ironico o grottesco?
Forse ci sarebbe bisogno di riflessioni maggiormente approfondite su ognuno dei punti sopra citati, ma come non fa a saltare subito all’occhio che in simili condizioni di isolamento e di allontanamento dai nostri bisogni fisiologici naturali e sociali, l’essere umano è perduto? Il contatto umano di un abbraccio, di un bacio o di una carezza, l’incrociare un viso sorridente (invece che coperto da una stupida e inutile mascherina), sono indubbiamente degli antidolorifici naturali che ci permettono, o per lo meno ci permettevano, ancora di vivere nonostante i disastri che attanagliano il nostro tempo. Per troppo tempo è stato sottovalutato questo aspetto, per troppo tempo abbiamo fatto finta di credere che quantità significhi qualità, quando invece i nostri antenati raccoglitori-cacciatori hanno sempre preferito la complicità di pochi individui, l’egualitarismo di
una piccola comunità, ai grandi numeri dei popoli civilizzati, e così oggi ci troviamo a questo disastroso punto, soli e isolati, in balia di chi specula sulla nostra vita e in preda ad una disperazione esistenziale e irrazionale.
Proprio a questo proposito forse basterà ricordare il fatto, narrato molto bene da Van Der Post, in cui i Boscimani del deserto del Kalahari, dopo aver passato tutta la vita dormendo sotto il cielo stellato del deserto e aver vissuto in totale libertà e comunione con gli altri membri della banda, una volta che subivano lo stanziamento forzato in comodi alloggi donati dal governo, essi si lasciavano morire non sopportando le privazioni di quel nuovo stile di vita. Preferivano la morte ad una vita in cattività! Tutto questo è indicativo del processo di addomesticamento e di deprivazione che anche noi ogni giorno subiamo, quando a causa di misure dittatoriali subiamo il confinamento in case che, per quanto siano confortevoli e sfarzose, sono pur sempre prigioni dalle quali non possiamo vedere le stelle, non possiamo toccare il prato e non possiamo stare a diretto contatto con i nostri conoscenti e amici più cari. A riguardo risultano laceranti e forse più chiare, perché arrivano direttamente al cuore, di molte vane parole, la descrizione che Van Der Post fa del suo amico, e guida, Boscimana Dabè: «le regole di comportamento europee che gli erano state imposte […] lo avevano solo reso profondamente triste, e aveva dato ai suoi occhi, quando non era occupato in qualcosa, un’espressione che non riuscivo a sopportare. […] Però, quando fu di nuovo con la sua gente aveva cominciato lentamente a cambiare. […] Il cambiamento si era dapprima manifestato con un aumento di fiducia. […] Poi cominciò a punzecchiarmi un po’, finchè un giorno rise» ix .
Ecco, la domanda da porci è: noi saremo ancora in grado di tornare a ridere dopo tutto questo? Saremo in grado di toglierci quella mascherina dalla bocca, di abbracciare i nostri cari, di non temere di contagiarci facendo l’amore e smetterla di avere paura l’uno dell’altro?
«La verità», recitava una vecchia canzone, «è che vorremmo innamorarci e non ammalarci». Ecco perché penso che l’umanità risulta evidentemente essere ammalata, questo è verissimo, ma non di Covid-19, non di obesità, non di cancro o chissà cos’altro, ma di civiltà, è lì che vanno ricercate le cause dei nostri mali odierni!

«La dimensione umana viene cancellata dai grattacieli, la deprivazione sensoriale si fa più
profonda e gli abitanti sono assaliti dalla monotonia, dal rumore e dalle altre nocività.
Anche il mondo dal cyber-spazio è un ambiente urbano, che accelera il declino radicale
della presenza e del contatto fisico. Lo spazio urbano è il simbolo, in continua progressione (verticale e orizzontale), della sconfitta della natura e della morte della comunità.»
John Zerzan

Si potrebbe citare Kai W. Lee che «alla domanda se fosse immaginabile il passaggio a una città sostenibile: La risposta è no.» x oppure citare James Baldwin che «disse a proposito del ghetto [ma che] può valere pienamente per la città: si migliora soltanto in un modo: radendolo al suolo». Da qualsiasi angolazione la guardiamo, non solo la città ma la civiltà tutta, è un cancro in continua espansione, è un abominio pronto e bisognoso di divorare qualsiasi cosa e che va fermato ad ogni costo.
Sicuramente uno dei pilastri fondanti della civiltà e della nostra società tutta è la paura. La dipendenza che abbiamo instaurato con essa ha scavato dentro di noi mettendo il seme di una paura profonda che coincideesattamente con quella che ha un tossicodipendente di rimanere senza la sua dose giornaliera. Bisogna avere il coraggio di mettere in discussione e affrontare questa paura, ma prima è necessario capire che di quella
sostanza, della civiltà, possiamo fare benissimo a meno come d’altronde la nostra storia ce lo ricorda bene.
Oggi risulta ancora più evidente il fatto che tutto è stato plasmato per fare in modo che questo terrore si impadronisse delle persone, perché fossero portate a stare in casa di fronte ai propri dispositivi tecnologici in attesa della loro dose giornaliera di notizie che deve essere somministrata da parte del governo e dai suoi lacchè.
Oggi questi lacchè hanno il camice bianco, parlano un linguaggio forbito e sono sui libri paga di Big Pharma e per questo pensano di potersi arrogare il diritto di dire a tutti come ci si deve comportare e cosa si può o non si può fare.
Con pochi decreti questi signori, che ora sappiamo essersi uniti nel “Patto trasversale per la Scienza” (che si descrive in maniera abbastanza buffa e emblematica come: “uno strumento di progresso e di civiltà nelle mani dei cittadini”), hanno imposto misure da stato di polizia, hanno limitato ogni libertà, stanno condizionando la nostra esistenza e, dalle ultime notizie di denunce ai dissidenti, vuole farsi portavoce dell’unica verità assoluta che può essere divulgata e guai a chi la contesta. La nuova caccia alle streghe è iniziata e di questo passo i vaccini obbligatori a 7,5 miliardi di persone sarà solo un ovvio e logico step
successivo per questa “razionale” e “scientifica” dittatura!
Le comunità, non è più un segreto, non esistono più, i grandi agglomerati urbani le hanno da tempo fatte a pezzi. Nessuno conosce più nessuno, tutti si guardano con non-curanza e indifferenza, ognuno prova repulsione al contatto con un altro essere umano e tutti provano orrore e paura al solo pensiero di uno starnuto che possa infettarli…è ovvio che quindi sotto questo punto di vista questa “emergenza” ci ha solo reso (o forse ce lo sta solo palesando) più soli, più vulnerabili, più estranei alla realtà fuori dalla nostra porta
e maggiormente pronti a rivalutare entusiasticamente la vita online, la vita sui social-network, insomma quella non-vita alla quale purtroppo sempre più persone fanno affidamento e sulla quale puntano tutte le proprie aspettative di rivalsa.
È vero, la gente non ne può più di stare in casa, non servono a nulla le minacce di carcere o di multe salatissime a fermare i “furbetti” (!) che hanno bisogno di stare all’aria aperta, ma penso che non si possa non constatare che questo alla fine dei conti non sia un valido motivo per non guardare in faccia la realtà e non esserne turbati. In fondo quanti alla fine di tutto ciò non tireranno un sospiro di sollievo e diranno “meno male che c’era la tecnologia”? Eccola la trappola, la nostra amata civiltà non è in grado di sorreggersi senza
tutta questa tecnologia e ci vuole far credere che invece siamo noi essere umani a non poterne fare a meno.
Come sempre, la storia tragicamente si ripete e i problemi tecnologici ancora una volta vorrebbero essere superati con nuova tecnologia, i problemi scientifici con nuova scienza e i problemi di malattie con nuove medicine e veleni che causeranno nuove malattie…in un loop infinito che ci porta dritti verso la morte!
La tecnologia non ci ha salvato, essa ha salvato l’economia da una crisi ancora più profonda, ha salvato i governi che tramite tutta questa tecnologia hanno potuto indirizzare l’opinione pubblica, controllarla e punirla (più o meno) efficacemente (siamo arrivati, per adesso, a 190mila denunce per aver violato i domiciliari); ancora una volta dobbiamo smetterla di pensare che il problema sia il Covid-19, perché qui in ballo c’è molto di più.
Tutto questo credo che rappresenterà ovviamente un momento che farà da spartiacque nella storia, perché probabilmente sarà da questa “emergenza” che la quarta rivoluzione industriale (quella dell’automazione, della robotica, delle scienze convergenti e del transumanesimo) e i suoi sostenitori trarranno nuova linfa, ed è chiaro che qui si deciderà il destino della specie umana.
Ovviamente i piccoli o grandi passi fatti negli ultimi anni nella direzione della riproduzione artificiale dell’umano, della clonazione, delle bio e nanotecnologie erano già un importante incipit, ma non bastavano.
Oggi con la scusa dell’emergenza Covid-19, come di ogni altra “emergenza” nella storia, si stanno ponendo le basi non solo politiche, ma anche sociali per un’acclamazione totale della realtà aumentata, del 5G e di tutto ciò che ci potrà in futuro far sembrare più protetti e sicuri nei confronti non solo di altre possibili epidemie, ma anche della natura malvagia e per tenerci a distanza da quei pericolosi, sporchi e malaticci esseri umani.È così che il pericolo più grande oggi, la reale posta in gioco, è quella di smarrire la nostra umanità (intesa come l’insieme delle capacità umane, empatia in primis). Tutto questo deve essere messo in discussione perché i nostri figli, o comunque le nuove generazioni, in futuro possano ancora avere la possibilità di stupirsi, innamorarsi e godere delle piccole cose, da un tramonto ad un fiore che sboccia, da un abbraccio forte e vigoroso ad una stella cadente.
Da sempre siamo stati schiacciati dal peso delle nostre catene, sono millenni che lavoriamo, viviamo e moriamo alla mercé di un meccanismo che ha come unico scopo la propria riproduzione e il consumo di ogni bene che la natura ci ha donato. Ishmael, il gorilla protagonista del romanzo omonimo di Daniel Quinn, direbbe che stiamo recitando la storia sbagliata e che questa non è assolutamente l’unica storia o la storia, ma
è solo quella che Madre Cultura ci ha insegnato a recitare da 12mila anni a questa parte. L’incantesimo quindi può e deve essere svelato e lo potremo fare solo mettendo da parte la nostra cultura predatrice e prevaricatrice, per lasciare spazio a quell’istintualità che da sempre ha guidato gli uomini non civilizzati nel corso di 3 milioni di anni e che ancora oggi gli permette di vivere in pace e armonia con il proprio ambiente e in una guerra permanente con la civiltà.
Questo forse è l’aspetto che più ci deve colpire, non c’è nulla di ineluttabile nulla è già stato scritto, tutto questo quindi può essere messo in discussione, passo dopo passo, perché l’essere umano è naturalmente Anarchico!
Quindi usciamo all’aria aperta, oggi pulita più che mai per lo meno in pianura padana, e riprendiamoci non solo la nostra salute, ma anche il piacere di una passeggiata in compagnia, del sole che scalda la pelle e l’animo e del vento che ci fa sbattere le palpebre, insomma il piacere di una vita che va vissuta non da dietro
uno schermo, ma nella realtà di tutti i giorni mettendo in discussione ogni verità che ci vorrebbero vendere a buon mercato e costruendo qualcosa di nuovo. La vita può essere molto meglio di questa triste e banale caricatura, la vita è tutta un’altra cosa e come diceva Valery: «Si alza il vento. Bisogna tentare di vivere» xi .

Selvaggia-mente

Per ogni tipo di osservazione, per un confronto o una semplice chiacchierata è attivo il seguente indirizzo
mail: rennaincattivita@insiberia.net
Note:
L. Van Der Post, Oltre l’orizzonte, TEADUE, Milano, 1998.
J. Diamond, Armi acciaio e malattie, Einaudi, Torino, 2014.
iii
Ibid.
iv
J. Zerzan, Futuro primitivo, Nautilus Edizioni, Torino, 2001.
v
Ibid.
vi
Ibid.
vii
Ibid.
viii
Ibid.
ix
L. Van Der Post, Il cuore del cacciatore, Adelphi, Milano, 2019.
x
J. Zerzan, Il crepuscolo delle macchine, Nautilus Edizioni, Torino, 2012.
xi
P. Valery, Il cimitero marino, Cahiers de “Dante”, Parigi, 1935.

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La pandemia della paura

Eterno apprendistato

«Su tutti i piani: politico, morale, spirituale, materiale,
si sperimenterà ciò che c’è dietro il progresso: la morte.
Che sfida!
O l’Auschwitz della natura
O la Stalingrado dell’industria
Ogni predica è inutile. Il progresso si fermerà solo da sé,
grazie alle catastrofi che provocherà»
Così scriveva a metà degli anni 70 un poeta svizzero, il cui nome non compare nella lista dei precursori della pedagogia delle catastrofi tanto cara ai sostenitori della Decrescita. Il loro indiscusso maestro Serge Latouche si è sempre dichiarato ottimista a proposito della capacità dei disastri di risvegliare la coscienza; sì… ma quale? Quella della classe politica, spinta dalla forza degli eventi a riportare sulla retta via della frugalità un’umanità smarrita, resa sorda, cieca e muta dalla prolungata dipendenza tossica dal consumismo. È una convinzione che fa capolino anche oggi, con circa metà della popolazione mondiale confinata in casa per sfuggire ad un virus ritenuto responsabile della morte di oltre 100.000 persone in tutto il pianeta.
E sarebbero gli anarchici quelli ingenui, gli illusi, gli abitanti sulla Luna! Meno male che pragmatico, concreto, coi piedi piantati per terra, viene considerato chi pretende che la pace nel mondo sia garantita dagli eserciti, che le finalità delle banche siano etiche, o che a «decolonizzare l’immaginario» ci pensi il Parlamento!
A sostegno della sua argomentazione, Latouche ricorda fra l’altro che il disastro brutto e cattivo provocato dal «grande smog di Londra» — il ristagno di un miscuglio di nebbia e fumo di carbone che dal 5 al 9 dicembre 1952 causò nella capitale inglese 4.000 morti nell’immediato e 10.000 nel periodo successivo — portò quattro anni dopo all’istituzione della bella e buona legge Clean Air Act. Il poveruomo dimentica non solo che il consumo di carbone da allora non è mai diminuito, anzi, è aumentato di pari passo all’inquinamento nelle metropoli, ma che già a Donora (Usa), dal 26 al 31 ottobre 1948, un miscuglio di nebbia e fumo delle acciaierie aveva causato 70 morti e rovinato i polmoni di 14.000 abitanti.
Allo stesso modo, non pare proprio che il disastro avvenuto nell’impianto chimico di  Flixborough (Inghilterra) l’1 giugno 1974 sia servito a prevenire quello verificatosi a Beek (Olanda) il 7 novembre 1975, e entrambi non hanno impedito la fuga di diossina avvenuta a Seveso il 10 luglio 1976. Quale lezione è stata tratta da quelle tre tragiche esperienze? Nessuna. Infatti il peggio doveva ancora arrivare e si verificò a Bophal (India) il 3 dicembre 1984, quando ci fu una vera e propria ecatombe: migliaia di morti e oltre mezzo milione di feriti per una fuoriuscita di isocianato di metile. Vi risulta che alla fine gli stabilimenti chimici siano stati chiusi? No di certo, e neanche si può dire che sia venuto meno l’uso industriale di sostanze nocive, se pensiamo al flusso di cianuro partito il 31 gennaio 2000 da una miniera d’oro in Romania che ha avvelenato le acque di diversi fiumi, fra cui il Danubio.
E i disastri provocati dalla produzione dell’oro nero, hanno mai insegnato qualcosa? L’incidente di una petroliera della ExxonMobil, incagliatasi il 24 marzo 1989 nello stretto di Prince William in Alaska, che ha causato lo sversamento in mare di oltre 40 milioni di litri di petrolio, non è certo servito ad impedire il naufragio della petroliera Haven, la quale il 14 aprile 1991 ha disperso 50.000 tonnellate di greggio nei fondali del mar Mediterraneo dopo averne bruciati 90.000 all’aperto. Una bazzecola in confronto all’incidente del 20 aprile 2010 nel golfo del Messico, quando dalla piattaforma Deepwater Horizon dipendente dalla BP furono versati in mare per ben 106 giorni dai 500 ai 900 milioni di litri di greggio.
O vogliamo parlare della più micidiale delle industrie energetiche, quella nucleare? Senza soffermarsi a citare i 130 incidenti degli ultimi cinquantanni, quello avvenuto nella centrale statunitense di Three Mile Island il 28 marzo 1979 ha forse impedito quello accaduto nella centrale russa di Chernobyl il 26 aprile 1986? Manco per niente, in compenso entrambi hanno abituato gli animi a rassegnarsi anche a quello scoppiato a Fukushijma l’11 marzo 2011. Tant’è che USA, Russia e Giappone continuano imperterriti, fra gli altri, a fare uso ancora oggi dell’energia atomica.
Ordunque, ammesso (e non concesso) che esista davvero una disponibilità ad imparare, cosa potrebbe insegnare l’attuale epidemia che sta terrorizzando il mondo intero? Che bisognerebbe rinunciare alla deforestazione, all’urbanizzazione, agli aerei… oppure che si deve potenziare la ricerca scientifica, rendere obbligatoria la vaccinazione, estendere sempre più il controllo delle autorità «competenti»? In altre parole, occorre fermare il progresso con i suoi effetti letali, oppure accelerarlo per superarli? Non c’è dubbio che per quasi tutti la necessità di arrivare al benessere tramite uno Sviluppo portato avanti dallo Stato rimane un assioma, un tabù così assoluto da non dover nemmeno essere proclamato. È questa la normalità di cui si reclama a gran voce il ritorno, e che non offre alcuna via d’uscita dalle sue false alternative. Sospesa per decreto ministeriale, verrà ripristinata in forma ancora più abbrutita. Il diritto alla movida garantito da un drone sopra la testa.
Il catastrofismo pedagogico non è che l’estremo rimedio del determinismo. Finite nella polvere della storia tutte le preci alla fatalità liberatoria della Ragione, o del Progresso, o del proletariato, o delle contraddizioni intrinseche del capitalismo… non resta che un’improvvisa tragedia planetaria a promettere il lieto fine a chi non cessa di attendere che qualcosa accada, anziché agire per farla accadere.
Finimondo

Bolzano – Iniziativa pasquale della Digos

Tradotto dal tedesco:

Il coniglietto pasquale veniva a Pasqua.

In tempi di Corona arriva la polizia.

Almeno è così che una mezza dozzina di altoatesini l’hanno vissuta sabato scorso. “Ero totalmente intimidito”, dice un giovane altoatesino “e ancora oggi tutta la storia mi sembra completamente assurda”.
Giorgio Porroni, Capo di Gabinetto del Questore di Bolzano, vede le cose in modo diverso. “Erano conversazioni amichevoli in cui volevamo avere un quadro della situazione”, dice l’uomo che per anni ha diretto anche il dipartimento “Indagini generali e operazioni speciali” (DIGOS). Un’unità di polizia che è popolarmente conosciuta come “polizia politica”.
Allo stesso tempo, questa storia rende evidente quanto la pianta possa essere fragile nei momenti di bisogno. Ma anche quanto velocemente i diritti civili fondamentali possono essere limitati in tempi di Corona.

Il Flashmob

L’inizio della storia è un flash mob organizzato spontaneamente. Sabato scorso un messaggio è circolato su Whatsapp e come SMS. Il messaggio chiedeva un’azione di protesta pacifica contro il coprifuoco nel caso Corona.
Il testo:

“FLASHMOB  per la responsabilità personale. Ho un grande rispetto per le vittime della Corona e penso che la diffusione del virus debba essere limitata ad ogni costo, solo il modo in cui viene fatto dallo Stato e dal Paese non mi convince più. Non sono convinto sull’incapacità dei cittadini da parte del Primo Ministro, del Governatore e del Sindaco, dall’intimidazione della gente da parte dell’apparato di polizia, da tutta la burocrazia e dalla necessaria giustificazione; che dobbiamo scatenarci in vicoli stretti mentre i parchi sono chiusi, che ai bambini non è permesso giocare all’aperto e che devo indossare una mascherina/sciarpa invece di respirare aria fresca a temperature primaverili. Tutto questo sotto la minaccia di severe punizioni. In nome della responsabilità personale dei cittadini, chiedo il FLASHMOB di sabato 11 aprile alle 18.00: o alla piazza più vicina e mostratevi.
Il flashmob deve avvenire nell’ambito del quadro giuridico.
Il Flashmob deve essere entro i limiti di legge, quindi tenete i 200 m da casa vostra, mantenete la distanza di 3 m dai vostri simili e indossate la mascherina/sciarpa. Inoltra il messaggio e vieni TU! Per mettere un segno, perché il prossimo decreto è già in attesa nel cassetto … SABATO 11 APRILE ORE 18.00.

Questo SMS è stato diffuso in modo virale nella società altoatesina di sabato. Per esempio, ha raggiunto l’autore di queste righe il sabato pomeriggio. “Ho ricevuto questo messaggio”, dice la giovane donna, “e l’ho inoltrato a una manciata di amici. Non ho fatto altro”.

La polizia

Ma sabato alle 16.00 circa, quattro poliziotti si presentano improvvisamente alla porta della giovane donna altoatesina. “Non ho ancora capito come mi hanno preso”, dice la donna a Salto.bz. Non è l’organizzatrice del flashmob, né conosce i promotori.
Secondo la descrizione delle persone coinvolte, gli agenti di polizia sono amichevoli ma determinati. Non solo interrogano la donna sul flash mob, ma le chiedono anche di consegnarle il suo cellulare. Solo quando un coinquilino fa notare che deve avere un’ordinanza del tribunale per farlo, viene fatto cadere.

Il capo di gabinetto Giorgio Porroni (al centro): “Volevamo solo avere chiarezza e non perseguitare nessuno a causa di questa vicenda”.

Il fatto è che alla fine i funzionari presentano alla donna un verbale che deve firmare. “Ho chiesto una copia di questo”, dice la donna. Ma le è stato detto che non era possibile. Questa procedura chiarisce che la visita della polizia due ore prima dell’inizio del flash mob era un atto ufficiale.
“Abbiamo suonato a qualche porta”, il capo di gabinetto Giorgio Porroni ha confermato l’intervento della polizia anche a Salto.bz. La prevista azione di protesta era stata portata all’attenzione delle autorità. “Il nostro compito è capire cosa è stato pianificato”, dice il poliziotto. Soprattutto in questi tempi difficili è importante che le forze di polizia siano particolarmente attente. Inoltre, gli eventi di protesta sono generalmente vietati durante questo periodo.
Il fatto che il messaggio contenga critiche politiche e sociali, ma insista esplicitamente sul rispetto delle norme, ha raffreddato notevolmente lo stato iniziale di allarme tra le autorità.
L’ex capo della DIGOS non considera questa azione come una restrizione illegale della libertà di opinione o dei diritti fondamentali. “Volevamo solo avere chiarezza e non perseguitare nessuno per questa faccenda”, dice Porroni.
Secondo il capo di gabinetto dell’economato di Bolzano, non c’è stata né un’indagine né un’accusa contro l’economato.

 

https://www.salto.bz/de/article/14042020/staatsgefaehrdendes-ruhmstehen?fbclid=IwAR0Z8kbNf57_xWD-Hbx7r7LOezo1TOl-tFFVj6t-H70S_iUEaS2AHGo7z4o

 

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