Torino – San Giovanni tutto l’anno / Droni ed elicotteri

3 Aprile. Come già annunciato, parte da oggi la sorveglianza aerea dei droni sulla città dopo l’approvazione del comitato ordine pubblico e sicurezza e la firma del questore De Matteis. Dal parco della Colletta alla Pellerina ma anche Valentino e lungo fiume, queste le principali aree destinate al controllo da parte delle drone unit dei carabinieri e dei civich. Ancora non si conosce il numero dei velivoli che vigileranno sopra le nostre teste ma si spera che nel traffico aereo almeno quelle dei carabinieri non abbiano ben chiaro se dare la precedenza a destra o sinistra.

2 Aprile. Nel silenzio della serate torinesi in molti avranno notato un elicottero dei carabinieri sorvolare le proprie abitazioni. Nelle disposizioni dei militari dell’arma è previsto il pattugliamento delle aree verdi e come si è potuto notare anche di interi quartieri. Il velivolo è ovviamente affiancato dalle truppe di terra pronte a intervenire qualora qualcuno venga intercettato dal potente fascio di luce del mezzo. Si spera che con l’arrivo della primavera e qualche finestra aperta in più i droni non inizino a entrare nelle case per verificare il rispetto delle prescrizioni anticontagio.

 

SAN GIOVANNI TUTTO L’ANNO

Non bastavano i droni

Torino – Pietre contro l’ambulanza

4 aprile. Non bisogna essere fanatici di telegiornali e quotidiani per sapere che gli ospedali non siano i luoghi di salubre frequentazione in questo periodo, con oltre 10000 contagiati e almeno 70 decessi tra le fila degli operatori sanitari, costretti a lavorare nell’ultimo mese in pessime condizioni di sicurezza. Doveva esserne a conoscenza anche la donna che nella notte tra giovedì e venerdì si è rifiutata di essere trasportata in ambulanza al nosocomio di Moncalieri e in cui soccorso sono intervenuti i familiari ponendosi davanti al mezzo e costringendolo dopo una sassaiola a una rapida ripartenza senza la donna a bordo.

 

Pietre contro l’ambulanza

Di virus, contenimento e deportazioni. Un punto sui Cpr

Per le mille difficoltà di questo periodo, che si aggiungono a quelle già esistenti da tempo nel capire cosa accade all’interno del Cpr di corso Brunelleschi, da un po’ di tempo non parlavamo della detenzione amministrativa e della macchina delle espulsioni. Ringraziamo quindi un compagno per il contributo che ci ha inviato, e che vi proponiamo, che tenta di fare il punto sui Cpr ai tempi del Covid-19.

Ogni zona d’Europa è ormai interessata dall’epidemia in corso.
Un’emergenza di portata massiva, come è successo spesso nella storia, offre delle enormi possibilità per ciò che riguarda l’inasprimento di misure repressive e lo sviluppo di tecnologie di controllo al cui utilizzo viene di fatto spianata la strada. Ogni emergenza è però differente dall’altra e le epidemie in particolare si portano con sé alcune specificità. In Italia, accanto a un repentino sviluppo giuridico e militare a sostegno delle nuove necessità, la misura più significativa per la risoluzione del problema è stata individuata nell’isolamento fisico, la sospensione delle relazioni vis à vis.
Esso è il paradigma centrale, il fulcro concettuale intorno al quale ruota l’intera faccenda.
Tutti a casa, tutti distanti gli uni dalle altre. La tragicità di un momento come quello attuale si scontra però con l’ottusità del governo italiano, che, pensando di non dover applicare tale misura ad ogni ambito sociale, si dimentica volutamente di due tra i pilastri essenziali dell’ordinamento nostrano: la produzione e la detenzione.

Le fabbriche e così le carceri, i Cpr e gli Opg registrano di fatto ‘un’eccezione allo stato d’eccezione’, devono continuare a svolgere le proprie funzioni, con qualche aggiustamento e allentamento magari, ma devono comunque andare avanti. La pandemia, in questi luoghi che rappresentano la promiscuità per antonomasia, è come se non esistesse.

La situazione attuale in Italia della detenzione amministrativa degli immigrati ne è un esempio lampante. Attualmente i Centri Per i Rimpatri, nel pieno sviluppo del contagio, si presentano praticamente identici a quelli di ieri, nessuna modifica è stata fatta e nessun intervento è all’orizzonte. Un fatto in controtendenza  rispetto persino al contesto europeo.

Per affrontare il pericolo legato al contagio, paesi come la Spagna, i Paesi Bassi, il Regno Unito, il Belgio e la Francia hanno iniziato di fatto ad effettuare delle liberazioni di massa dalle strutture nazionali, alcuni Centri sono stati chiusi e le diatribe giuridiche inerenti espulsioni e trattenimenti di fatto bypassate. Misure adottate non certo per un’improvvisa magnanimità statale, ma in seguito a numerose rivolte che hanno acceso i riflettori su strutture altrimenti invisibili e soprattutto sul rischio di non spegnere la carica di queste bombe a orologeria. Il Portogallo ha inoltre congelato alcune pratiche riguardanti la questione migratoria, regolarizzando temporaneamente i richiedenti asilo. Quindi molti Centri per le espulsioni d’oltralpe sono stati chiusi e sono state attuate misure di alleggerimento burocratico di vario tipo.

In Italia la tendenza è inesorabilmente un’altra.

L’unico intervento operato dal Ministero dell’Interno è stata la proroga dei permessi di soggiorno pendenti o da rinnovare. Una decisione indirizzata più a stornare gli agenti predisposti verso altre mansioni, come quelle di ordine pubblico, che a alleviare la situazione legale di tanti immigrati. Dai primi di marzo gli uffici immigrazione delle questure d’Italia sono di fatto chiusi e il congelamento dei permessi di soggiorno concederà fortunatamente più tempo, a richiedenti protezione o titolari di permessi in scadenza, prima della possibile caduta in clandestinità.
Per ciò che invece riguarda la questione detentiva, come dicevamo, l’Italia non vuole assolutamente mollare la presa.

I Cpr, malgrado in alcuni di essi siano stati interrotti i lavori di ristrutturazione, continuano ad essere attivi e a rinchiudere i senza documenti. Nel Cpr di Torino se ne ha la certezza, per gli altri Cpr, guardando alle notizie delle questure locali, anche. Il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri dell’8 marzo si è espresso chiaramente a riguardo: le espulsioni dei migranti sono considerate, al pari di altre tipologie di udienze in ambito penale, una priorità. La circolare del 26 marzo del Ministero dell’Interni ne è una conferma: dopo aver elencato tutta una serie di accortezze riguardo alla possibilità del contagio e la necessità di quarantene, isolamento e dispositivi individuali di protezione, dopo aver esteso a tutti i Cpr il divieto di avere con sé i propri cellulari (cosa questa che dà forma legale a una pratica già attuata nel Cpr di Torino, un cambiamento da cui difficilmente si tornerà indietro), parla esplicitamente di nuovi arrivi.
Nonostante alcuni giudici, a Potenza e Trieste ad esempio, non stiano convalidando le proroghe, in moltissimi casi i Cpr, e particolarmente quello di Torino, continuano a ricevere nuovi reclusi e i giudici locali prorogano o convalidano il trattenimento come se nulla fosse. Questo è un primo dato di fatto, i Cpr sono aperti e funzionanti su tutto il territorio nazionale.

Un fatto che si potrebbe considerare banale, ma la questione prende una piega inaspettata se si va a osservare la macchina delle deportazioni.
Gli spostamenti aerei e marittimi di persone dall’Italia sono di fatto bloccati, ciò chiaramente non è avvenuto in modo immediato e molti paesi come il Marocco, la Tunisia, il Ghana e l’Egitto hanno tardato nell’attivare il blocco totale, ricevendo gli espulsi ad esempio, ma mettendoli in quarantena preventiva. Al momento vi è, sembra, il blocco totale anche per quei famosi voli charter che ramazzano persone in giro per vari paesi per poi deportarli. Non vi è di fatto nessuna comunicazione ufficiale sul blocco delle deportazioni, ma le notizie che emergono sulla questione lasciano pensare a quest’ipotesi. Ultima notizia di una deportazione compiuta è rintracciabile sul sito della questura di Ferrara, datata 25 marzo verso Islamabad (il Pakistan avrebbe attuato il blocco aereo quello stesso giorno). Deportazioni ferme dunque, seconda importante considerazione.

A cosa stanno servendo dunque i Centri per i rimpatri se i rimpatri sono sospesi o comunque impossibili da effettuare?
Crediamo che a questo punto, se la situazione dovesse rimanere tale nonostante la richiesta di svuotamento anche da parte di figure istituzionali, i Cpr, persi i fronzoli che ne giustificavano sulla carta l’imprescindibilità istituzionale, stiano svelando finalmente il loro vero ruolo. I Centri non sono mai serviti realmente a espellere i migranti (le cifre negli anni sono sempre state irrisorie rispetto alla popolazione clandestina), ma a contenerne una piccola parte come monito per tutti gli altri. Insomma la vecchia storia dei Cpr come deterrente collettivo è finalmente evidente e nuda di fronte a tutti.
Sta insomma venendo meno l’unico motivo per cui i governi europei giustificano i Centri: la deportazione.
I centri per i rimpatri non rimpatriano, proseguono comunque le loro attività. Quali attività?
Come stanno dunque funzionando attualmente i Cpr e perché?
La loro funzione contenitiva, esercitata nei confronti di chi esce dal carcere o da chi viene preso durante le retate, continua ad andare avanti, e al posto della  deportazione rimarrà unicamente l’espulsione con il famoso foglio di via; provvedimento che verrà inesorabilmente eluso, non potendo l’espulso adempiere al proprio allontanamento. I senza documenti rimarranno quindi sul suolo nazionale e potranno essere nuovamente riacciuffati e reclusi. Insomma il famoso “gioco dell’oca” è quanto mai valido.

Perché l’Italia non vuole chiudere i Cpr?
Crediamo che molti dei ragionamenti che riguardano la reclusione dei migranti non possano essere scissi dalla situazione detentiva in generale; sarebbe un errore parlare, in tale situazione emergenziale, esclusivamente dei Cpr senza fare un ragionamento sul carcere. Sulla questione carceraria il Ministero della Giustizia sta agendo in modo ottuso e assassino, portando di fatto i detenuti verso una possibile contagio generalizzato. Ciò sta accadendo anche per i Centri Per i Rimpatri, dove la liberazione, unica e vera sicurezza, sarebbe ancor più semplice e banale dal punto di vista burocratico. Sembra che lo Stato italiano sia molto più preoccupato di perdere credibilità repressiva che prevenire un’ulteriore tragedia e mettersi al sicuro dalle possibili rivolte che, spinte dalla paura, potrebbero spazzare via le carceri. Ciò non fa che evidenziare maggiormente quanto la detenzione amministrativa, al pari del carcere, sia un pilastro imprescindibile dell’ordinamento italiano. Un presupposto fondamentale che lo Stato non vuole minimamente mettere in dubbio. Insomma non è solo la questione economica – il business dei Centri – a impedirne la chiusura temporanea, ma qualcosa che scava nelle radici del potere statale.
Ed è proprio alle basi dell’ordinamento che vanno a colpire le rivolte dei reclusi, scardinando con forza le fondamenta della detenzione. La paura del contagio, la certezza che ciò possa portare a delle vere e proprie stragi ha spinto molti a ribellarsi: nel mese di marzo nei Cpr di Gradisca, di Palazzo San Gervasio e di Ponte Galeria a Roma i reclusi hanno portato avanti numerose proteste e rivolte. L’ultima, tra il 29 e il 30 marzo nel Centro friulano ha incendiato e distrutto parte della struttura.

Tutto lascia pensare che altre rivolte esploderanno da qui a breve.

Per le mille difficoltà di questo periodo, che si aggiungono a quelle già esistenti da tempo nel capire cosa accade all’interno del Cpr di corso Brunelleschi, da un po’ di tempo non parlavamo della detenzione amministrativa e della macchina delle espulsioni. Ringraziamo quindi un compagno per il contributo che ci ha inviato, e che vi proponiamo, che tenta di fare il punto sui Cpr ai tempi del Covid-19.

Ogni zona d’Europa è ormai interessata dall’epidemia in corso.
Un’emergenza di portata massiva, come è successo spesso nella storia, offre delle enormi possibilità per ciò che riguarda l’inasprimento di misure repressive e lo sviluppo di tecnologie di controllo al cui utilizzo viene di fatto spianata la strada. Ogni emergenza è però differente dall’altra e le epidemie in particolare si portano con sé alcune specificità. In Italia, accanto a un repentino sviluppo giuridico e militare a sostegno delle nuove necessità, la misura più significativa per la risoluzione del problema è stata individuata nell’isolamento fisico, la sospensione delle relazioni vis à vis.
Esso è il paradigma centrale, il fulcro concettuale intorno al quale ruota l’intera faccenda.
Tutti a casa, tutti distanti gli uni dalle altre. La tragicità di un momento come quello attuale si scontra però con l’ottusità del governo italiano, che, pensando di non dover applicare tale misura ad ogni ambito sociale, si dimentica volutamente di due tra i pilastri essenziali dell’ordinamento nostrano: la produzione e la detenzione.

Le fabbriche e così le carceri, i Cpr e gli Opg registrano di fatto ‘un’eccezione allo stato d’eccezione’, devono continuare a svolgere le proprie funzioni, con qualche aggiustamento e allentamento magari, ma devono comunque andare avanti. La pandemia, in questi luoghi che rappresentano la promiscuità per antonomasia, è come se non esistesse.

La situazione attuale in Italia della detenzione amministrativa degli immigrati ne è un esempio lampante. Attualmente i Centri Per i Rimpatri, nel pieno sviluppo del contagio, si presentano praticamente identici a quelli di ieri, nessuna modifica è stata fatta e nessun intervento è all’orizzonte. Un fatto in controtendenza  rispetto persino al contesto europeo.

Per affrontare il pericolo legato al contagio, paesi come la Spagna, i Paesi Bassi, il Regno Unito, il Belgio e la Francia hanno iniziato di fatto ad effettuare delle liberazioni di massa dalle strutture nazionali, alcuni Centri sono stati chiusi e le diatribe giuridiche inerenti espulsioni e trattenimenti di fatto bypassate. Misure adottate non certo per un’improvvisa magnanimità statale, ma in seguito a numerose rivolte che hanno acceso i riflettori su strutture altrimenti invisibili e soprattutto sul rischio di non spegnere la carica di queste bombe a orologeria. Il Portogallo ha inoltre congelato alcune pratiche riguardanti la questione migratoria, regolarizzando temporaneamente i richiedenti asilo. Quindi molti Centri per le espulsioni d’oltralpe sono stati chiusi e sono state attuate misure di alleggerimento burocratico di vario tipo.

In Italia la tendenza è inesorabilmente un’altra.

L’unico intervento operato dal Ministero dell’Interno è stata la proroga dei permessi di soggiorno pendenti o da rinnovare. Una decisione indirizzata più a stornare gli agenti predisposti verso altre mansioni, come quelle di ordine pubblico, che a alleviare la situazione legale di tanti immigrati. Dai primi di marzo gli uffici immigrazione delle questure d’Italia sono di fatto chiusi e il congelamento dei permessi di soggiorno concederà fortunatamente più tempo, a richiedenti protezione o titolari di permessi in scadenza, prima della possibile caduta in clandestinità.
Per ciò che invece riguarda la questione detentiva, come dicevamo, l’Italia non vuole assolutamente mollare la presa.

I Cpr, malgrado in alcuni di essi siano stati interrotti i lavori di ristrutturazione, continuano ad essere attivi e a rinchiudere i senza documenti. Nel Cpr di Torino se ne ha la certezza, per gli altri Cpr, guardando alle notizie delle questure locali, anche. Il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri dell’8 marzo si è espresso chiaramente a riguardo: le espulsioni dei migranti sono considerate, al pari di altre tipologie di udienze in ambito penale, una priorità. La circolare del 26 marzo del Ministero dell’Interni ne è una conferma: dopo aver elencato tutta una serie di accortezze riguardo alla possibilità del contagio e la necessità di quarantene, isolamento e dispositivi individuali di protezione, dopo aver esteso a tutti i Cpr il divieto di avere con sé i propri cellulari (cosa questa che dà forma legale a una pratica già attuata nel Cpr di Torino, un cambiamento da cui difficilmente si tornerà indietro), parla esplicitamente di nuovi arrivi.
Nonostante alcuni giudici, a Potenza e Trieste ad esempio, non stiano convalidando le proroghe, in moltissimi casi i Cpr, e particolarmente quello di Torino, continuano a ricevere nuovi reclusi e i giudici locali prorogano o convalidano il trattenimento come se nulla fosse. Questo è un primo dato di fatto, i Cpr sono aperti e funzionanti su tutto il territorio nazionale.

Un fatto che si potrebbe considerare banale, ma la questione prende una piega inaspettata se si va a osservare la macchina delle deportazioni.
Gli spostamenti aerei e marittimi di persone dall’Italia sono di fatto bloccati, ciò chiaramente non è avvenuto in modo immediato e molti paesi come il Marocco, la Tunisia, il Ghana e l’Egitto hanno tardato nell’attivare il blocco totale, ricevendo gli espulsi ad esempio, ma mettendoli in quarantena preventiva. Al momento vi è, sembra, il blocco totale anche per quei famosi voli charter che ramazzano persone in giro per vari paesi per poi deportarli. Non vi è di fatto nessuna comunicazione ufficiale sul blocco delle deportazioni, ma le notizie che emergono sulla questione lasciano pensare a quest’ipotesi. Ultima notizia di una deportazione compiuta è rintracciabile sul sito della questura di Ferrara, datata 25 marzo verso Islamabad (il Pakistan avrebbe attuato il blocco aereo quello stesso giorno). Deportazioni ferme dunque, seconda importante considerazione.

A cosa stanno servendo dunque i Centri per i rimpatri se i rimpatri sono sospesi o comunque impossibili da effettuare?
Crediamo che a questo punto, se la situazione dovesse rimanere tale nonostante la richiesta di svuotamento anche da parte di figure istituzionali, i Cpr, persi i fronzoli che ne giustificavano sulla carta l’imprescindibilità istituzionale, stiano svelando finalmente il loro vero ruolo. I Centri non sono mai serviti realmente a espellere i migranti (le cifre negli anni sono sempre state irrisorie rispetto alla popolazione clandestina), ma a contenerne una piccola parte come monito per tutti gli altri. Insomma la vecchia storia dei Cpr come deterrente collettivo è finalmente evidente e nuda di fronte a tutti.
Sta insomma venendo meno l’unico motivo per cui i governi europei giustificano i Centri: la deportazione.
I centri per i rimpatri non rimpatriano, proseguono comunque le loro attività. Quali attività?
Come stanno dunque funzionando attualmente i Cpr e perché?
La loro funzione contenitiva, esercitata nei confronti di chi esce dal carcere o da chi viene preso durante le retate, continua ad andare avanti, e al posto della  deportazione rimarrà unicamente l’espulsione con il famoso foglio di via; provvedimento che verrà inesorabilmente eluso, non potendo l’espulso adempiere al proprio allontanamento. I senza documenti rimarranno quindi sul suolo nazionale e potranno essere nuovamente riacciuffati e reclusi. Insomma il famoso “gioco dell’oca” è quanto mai valido.

Perché l’Italia non vuole chiudere i Cpr?
Crediamo che molti dei ragionamenti che riguardano la reclusione dei migranti non possano essere scissi dalla situazione detentiva in generale; sarebbe un errore parlare, in tale situazione emergenziale, esclusivamente dei Cpr senza fare un ragionamento sul carcere. Sulla questione carceraria il Ministero della Giustizia sta agendo in modo ottuso e assassino, portando di fatto i detenuti verso una possibile contagio generalizzato. Ciò sta accadendo anche per i Centri Per i Rimpatri, dove la liberazione, unica e vera sicurezza, sarebbe ancor più semplice e banale dal punto di vista burocratico. Sembra che lo Stato italiano sia molto più preoccupato di perdere credibilità repressiva che prevenire un’ulteriore tragedia e mettersi al sicuro dalle possibili rivolte che, spinte dalla paura, potrebbero spazzare via le carceri. Ciò non fa che evidenziare maggiormente quanto la detenzione amministrativa, al pari del carcere, sia un pilastro imprescindibile dell’ordinamento italiano. Un presupposto fondamentale che lo Stato non vuole minimamente mettere in dubbio. Insomma non è solo la questione economica – il business dei Centri – a impedirne la chiusura temporanea, ma qualcosa che scava nelle radici del potere statale.
Ed è proprio alle basi dell’ordinamento che vanno a colpire le rivolte dei reclusi, scardinando con forza le fondamenta della detenzione. La paura del contagio, la certezza che ciò possa portare a delle vere e proprie stragi ha spinto molti a ribellarsi: nel mese di marzo nei Cpr di Gradisca, di Palazzo San Gervasio e di Ponte Galeria a Roma i reclusi hanno portato avanti numerose proteste e rivolte. L’ultima, tra il 29 e il 30 marzo nel Centro friulano ha incendiato e distrutto parte della struttura.

Tutto lascia pensare che altre rivolte esploderanno da qui a breve.

Macerie

Primavera silenziosa

È ragionevole descrivere
una sorta di imprigionamento per mezzo di un’altro
quanto descrivere qualsiasi cosa
che esiste
realmente
per mezzo di un’altra che non esiste affatto

Daniel Defoe

Perché dovremmo sopportare una dieta di veleni non del tutto nocivi, una casa in sobborghi non del tutto squallidi, una cerchia di conoscenze non del tutto ostili, il frastuono di motori non così eccessivo da renderci pazzi?
Chi dunque vorrebbe vivere in un mondo non del tutto mortale?

Rachel Carson, Primavera silenziosa

Negli anni ’60 Rachel Carson, biologa e ambientalista americana simbolo del movimento ambientalista internazionale, con il libro Primavera silenziosa lanciava una forte denuncia e un grido di allarme nei confronti dell’avvelenamento del pianeta causato dall’uso dei pesticidi e in particolare del DDT, al tempo prodotto e usato su vasta scala.
Una nocività di larghissimo uso come il DDT, usato ancora oggi anche se in forme più subdole, aveva portato a silenziare le campagne dai canti primaverili degli uccelli. Oggi, in tempi di Coronavirus, le nocività, oltre ovviamente i pesticidi, non solo sono aumentate, ma si sono trasformate in un intero sistema malato che quotidianamente quando non mette a rischio la sopravvivenza degli organismi viventi li condanna a vivere in un’esistenza tossica e sempre più sterile di biodiversità. La verità è molto semplice: noi stiamo soltanto cominciando a subire massicciamente l’effetto ritardato dell’avvelenamento chimico-nucleare-biologico-elettromagnetico cumulativo del pianeta, avvelenamento che accresce qualitativamente e quantitativamente ogni anno. La degradazione della natura e di noi stessi che ne siamo parte non può che portare a questo. In una situazione in cui le nocività si ri-combinano la questione non è se poteva succedere o no un qualche disastro climatico, chimico o di altra natura, ma quando questo sarebbe avvenuto. O, meglio, forse la domanda dovrebbe essere se non sta già avvenendo.
Chi resta impreparato verso tutto questo sono la maggior parte delle persone, che ne subiscono le conseguenze. Queste sono diverse a seconda della parte di mondo in cui si vive e ovviamente in base alla propria condizione sociale. Le pandemie, come i disastri climatici o chimici, non fanno distinzione di classe quando colpiscono a differenza però dei loro ispiratori che poi si trasformano in produttori e gestori, dal momento che una società industriale non può che lasciare un passaggio disseminato di scorie per il presente e per le generazioni future, facendo pagare il maggior prezzo agli sfruttati di sempre. Le pandemie, come le guerre, le carestie, i cambiamenti climatici, sono occasioni imperdibili per gli stati, per la finanza e soprattutto per la tecnocrazia e le grandi compagnie. Pandemie, guerre, carestie, cambiamenti climatici sono all’indice della minaccia globale, pericoli da scongiurare assolutamente, eppure vengono preparati, vengono investiti capitali immensi (come per i bond poco prima di questo Coronavirus), viene fatta ricerca, si ipotizzano scenari e si pensa un mondo a misura di pandemia.
Uno dei riferimenti internazionali attuali nella lotta al Coronavirus è proprio l’OMS (Organizzazione mondiale della sanità), organismo che sguazza nei capitali immensi del comparto farmaceutico di cui fanno parte Glaxo-Smithkline, Merck, Novartis, Pfzer, Roche, Sanofi e soprattutto nei capitali della Fondazione Bill e Melinda Gates. La maggior parte dei fondi dell’OMS derivano da privati e sono vincolati a finanziare programmi specifici decisi dai privati stessi. L’OMS di fatto segue quello che la Fondazione Gates ritiene prioritario. Da anni questa fondazione influenza le politiche internazionali degli aiuti al Sud del mondo e recentemente anche le politiche alimentari globali promuovendo agricoltura industriale, pesticidi, sementi brevettate e ogm. I capitali sono importanti, ma è soprattutto la filosofia di Gates che va studiata con attenzione. Quest’uomo potrebbe definirsi benissimo “Morte, il distruttore dei mondi” come fece troppo tardi Oppenheimer dopo il contributo dato alla realizzazione della bomba atomica. Gates con la sua fondazione aiuta i poveri in Africa, ma sogna di ridurre la popolazione mondiale da neomalthusiano com’è e in Africa è anche il promotore e finanziatore del poco noto progetto Gene Drive, vero flagello per il mondo. Questo progetto consiste nello sterilizzare attraverso delle tecniche di ingegneria genetica delle popolazioni di organismi viventi da rilasciare in natura per portare all’estinzione l’intera specie ritenuta nociva, ingegnerizzando specifici organismi e interi ecosistemi con metodi selettivi. Con il Gene Drive si vuole ridurre la malaria, così come Oppenheimer voleva anticipare una presunta atomica tedesca.
Se l’Amazzonia brucia si pensa di mettere nuove varietà vegetali in grado di assorbire più CO2, se aumenta il rischio di contrarre malattie visto che gli organismi sono sempre più sterilizzati di difese naturali si pensa a riempirli di input chimici esterni, rendendoli incapaci di qualsiasi reazione e condannandoli ad una dipendenza da sostanze chimiche e dal sistema medico.
Per risolvere i problemi le modalità sono sempre peggio del problema stesso, se non nell’immediatezza sicuramente nel lungo periodo. Nella società tecno-scientifica il lungo periodo non viene mai considerato troppo, se non in termini strettamente tecnici o algoritmici. I tempi organici della natura e anche dei nostri corpi sono molto diversi, sicuramente più lenti perché fanno riferimento a processi che trovano il loro essere nella finitudine.
Nei grandi organismi internazionali si fanno previsioni sul prossimo futuro che diventano un oggetto di attento studio. Nell’ottobre scorso la Fondazione Gates con il Word Economic Forum e il John Hopkins Center for Health Security hanno simulato una pandemia globale di Coronavirus, chiamata “nCoV-2019”, per capire e analizzare che cosa sarebbe successo, dal numero di morti fino alle modalità di contenimento dei singoli stati.
“Quando ero un ragazzo, il disastro di cui ci preoccupavamo era la guerra nucleare. Oggi la più grande catastrofe possibile non è più quella. Se qualcosa ucciderà 10 milioni di persone nelle prossime decadi, è più probabile che sia un virus molto contagioso e non una guerra. Non missili ma microbi”, Bill Gates.
La fatalità si è dissolta nella probabilità. Non si può essere sorpresi da questo così come degli effetti della contaminazione chimica, regolare o accidentale, dell’ambiente da parte dell’industria chimica o dal fatto che delle migliaia di nuove molecole messe in circolazione alcune nell’uso rivelano delle qualità nocive, ignorate, si fa per dire, dai loro ideatori. Il ritmo di comparsa di nuove malattie, con agenti patogeni che trovano nelle condizioni di vita attuali un vasto campo di attività, è più rapido degli sviluppi in campo medico. E nel mondo come si presenta adesso dovremo abituarci a questa nuova realtà.
Non sappiamo molto sull’origine di questo nuovo virus, sicuramente siamo consapevoli che la bocca della menzogna, che sia lo Stato o l’OMS poco importa, non inizierà certo adesso a dire qualcosa di vero. La stessa pratica del segreto, la stessa irresponsabilità verso la società regnano in tutti i laboratori e, di conseguenza, è impossibile che si arriverà ad una qualche certezza sull’origine e la storia di questa pandemia. Quello che sappiamo per certo è che il virus che si sta diffondendo a livello planetario non è il frutto di qualche processo eccezionale, che sia naturale o artificiale, ma rientra nelle condizioni normali del procedere di questa società tecno-scientifica.
Senza andare tanto lontano fino in Cina, se la memoria non è proprio persa del tutto, sarebbe bene ricordare Seveso. In questo piccolo paese della Lombardia esisteva uno stabilimento chimico della multinazionale Givaudan chiamato Icmesa, ma gli abitanti del paese lo chiamavano fabbrica dei profumi, proprio perché ufficialmente faceva prodotti aromatizzanti e profumi. Nel gravissimo incidente del 1976 quello che è uscito dalla fabbrica in quantità enormi era la diossina, quella sostanza che ancora oggi ci portiamo dentro il corpo in piccola quantità fin dalla nascita. Le sostanze chimiche dell’Icmesa non servivano a profumare nessuno, andavano invece a creare armi chimiche, in particolare l’Agente Arancio negli Stati Uniti. A partire da questa indubbia realtà, e in questi ambiti il peggio è spesso il più probabile, si potrebbe discutere a lungo su fatti che nel loro manifestarsi e concretizzarsi diventano occasione di esperimenti a grandezza naturale, sulla possibilità che vengano rivelati nella loro totalità, sul rischio che i loro effetti vadano al di là di quanto si era previsto e si potrebbe discutere anche sull’utilità degli insegnamenti che il sistema può trarre dal loro camuffamento o dalla loro spettacolarizzazione e dalla loro gestione.
Nel libro 1984 Orwell toccava bene l’aspetto di come la menzogna potesse ergersi a verità assoluta, nonostante indiscutibili evidenze dimostrino il contrario. Negli anni abbiamo visto come il sito di esperimenti nucleari del Nevada, un luogo dove per anni si è sperimentato di tutto e organizzato di tutto in termini di possibilità di distruzione di popoli e del mondo intero, è stato ribattezzato Parco nazionale di ricerche ambientali, tanto da far dire da una rappresentante al Congresso presente in quella occasione: “Col tempo, il pubblico sarà capace di sentire i nomi di Savannah River, di Oaak Ridge, di Fermi Lab, di Los Alamos, di Idaho Park, e di Hanford, pensando a ricerche ambientali piuttosto che a disastri ambientali”. E oggi, a Seveso, dove al tempo la svizzera Givaudan-La Roche aveva sparso i suoi veleni, è nato il Parco del bosco delle querce.
L’effetto pandemia, a differenza del passato, sta portando alla possibilità non soltanto di ingannare un popolo per un periodo di tempo, ma alla possibilità di ingannare un’intero popolo per tutto il tempo.

Propaganda pandemica

A questa pandemia le persone non erano preparate perché in tempi recenti è la prima volta che accade qualcosa del genere. Nell’immaginario invece da molto tempo si è assimilata questa possibilità, seppur confusa e quasi irrazionale, costruita non con strumenti analitici e culturali, ma attraverso quello che per anni è stato propinato con immagini e informazioni veicolate dai media e dai social network che strumentalizzano, esaltano o banalizzano in base all’occasione; attraverso fiction, film, Netflix e appelli di organizzazioni umanitarie. Un’assimilazione attraverso la costante produzione della percezione dello stesso rischio.
L’attenzione generale sul Coronavirus, soprattutto in principio, quando si pensava ad una provenienza strettamente cinese, presto si è trasformata in rancore, odio e tanto altro verso i cinesi divenuti gli untori e i portatori di questa epidemia prima in Italia e poi nel mondo. Si è guardato in modo indignato alle mosse autoritarie della Cina con la biometria, con la rete 5G di sorveglianza e tracciamento, con droni nel cielo e con l’immagine di una città di milioni di abitanti come Wuhan deserta. Una propaganda massiccia apparentemente ingovernata ha cercato di dare materialità ad un nemico immateriale dove far dirigere tutte le angosce e le frustrazioni di tante persone sempre più spaesate e impaurite. Ben presto, quando per forza di cose lo sguardo ha dovuto spostarsi sulla situazione italiana, i nuovi untori sono diventati gli “irresponsabili”, coloro che non avevano adeguati comportamenti, rimodulando ancora una volta una forte campagna mediatica dove la voce dei governatori regionali descriveva una realtà che non coincideva minimamente con quello che succedeva nei territori dove la paura aveva fatto interpretare in modo ancora più restrittivo le prescrizioni dei primi decreti. Forse non si erano concordati al meglio nel dosaggio tra terrorizzare e reprimere. Fatto sta che per settimane abbiamo visto il susseguirsi di decreti sempre più restrittivi, volutamente ambigui, con moduli per l’uscita rinnovati costantemente per rendere vive e sotto costante pressione tutte quelle ansie che man mano crescevano anche a causa dell’espandersi dei numeri sui contagi. Chiudere tutto e subito hanno gridato gli strilloni regionali, ma poi tanti Call center, logistica e soprattutto tante fabbriche, in particolare quelle per componentistiche militari, hanno continuato a lavorare in situazioni critiche: in quelle condizioni fuori si rischiavano multe e perfino il carcere, ma dentro lo stabilimento vigevano le regole della produzione, tanto che sono stati distribuiti dei bonus per incentivare ad andare al lavoro.
L’attenzione è stata spostata, anzi sequestrata completamente verso la morte, mostrata continuamente, basta per tutte l’immagine dei camion dell’esercito pieni di bare che lasciano il cimitero di Bergamo in silenziosa processione, un’immagine che perfettamente si inscrive in una narrativa bellica da parte dei governi per descrivere l’attuale emergenza: “Siamo in guerra contro un nemico invisibile”. Una contabilizzazione della morte con cifre contraddittorie e discutibili date continuamente e aggiornate nel corso delle ore. L’immagine della morte si è poi accompagnata a quella degli eroi, gli instancabili sanitari, infermieri e dottori che fanno l’impossibile in una situazione disperata, facendo ricordare i vigili del fuoco dopo il crollo delle torri gemelle negli Stati Uniti. La situazione degli ospedali e in generale dello stato delle attrezzature non è stata censurata, nessuna giustificazione per cercare di dare un’altra visione della sanità italiana. No, questa è stata esposta oltre ogni limite trasformandola da “bene comune” in uno sfacelo comune in cui ciascuno poteva sentirsene parte. Si è arrivati quasi a contare gli spiccioli e a sperare che squadre di calcio o star del cinema facessero qualche donazione. Ci si è dimenticati che solo poco tempo fa la Fondazione Telethon è riuscita a far dirottare miliardi verso la ricerca per curare malattie genetiche rarissime, quando malattie comunissime come i tumori sono sempre più diffuse a causa dell’aria che respiriamo, del cibo che mangiamo e in generale per le condizioni di degrado ambientale in cui siamo costretti a vivere. Malattie che assumono numeri esorbitanti mai contabilizzati da nessuno e che non hanno mai fatto decretare lo stato di emergenza.
Nel conto dei morti si è aggiunto presto il conto delle mascherine, poi dei posti letto per arrivare alla mancanza di disinfettante. Nessuno si è preoccupato di indagare su quello che è successo al sistema sanitario nazionale proprio qui nel ricco Nord, reso disastroso dalle continue ruberie, tagli e privatizzazioni. I creatori di stati emozionali sequestranti si sono guardati bene di spostare il piano che avrebbe generato dubbi su dove stava la vera emergenza con il rischio di trovarsi in possibili situazioni di rivolta ingestibili come quelle avvenute in molte carceri, dove i numerosi detenuti morti sono li a dimostrare cosa c’è in campo.
È in mezzo ad una Bergamo ormai deserta e spaurita che sono arrivate le truppe, apparentemente per rispondere all’appello degli strilloni regionali che vedevano persone ovunque, da terra ma soprattutto dal cielo. Ancora una volta “il modello Greta” ha avuto la meglio, trasferendo su ogni singolo individuo la responsabilità di quello che sta accadendo: si può essere irresponsabili uscendo di casa (decreti regionali) o prendendo l’aereo (Greta) e si può essere cittadini responsabili in grado di dare un positivo contributo allo stato di cose presenti. Ma questo positivo contributo è solo una chimera, considerato che la maggior parte delle persone non incidono in niente su quello che hanno intorno: si possono fare cartelli con arcobaleni con frasi retoriche, magari aggiungendo bandiere nazionali e si può fare scrupolosamente la raccolta differenziata, finché per responsabilità si continuerà a intendere questo obnubilamento del pensiero critico e si continuerà a mettere in campo questa obbediente e generalizzata servitù su base volontaria.

L’intelligenza artificiale ci salverà

I processi tecnologici nel trasformare le società non fanno grandi balzi, anche se le innovazioni e le produzioni nell’alta tecnologia sono sempre più rapide, restano comunque dei tempi necessari che possono essere più o meno lunghi per la loro accettazione. Ed è proprio l’accettazione sociale il fattore determinante di questi processi, sarebbe impensabile adesso passare dallo smartphon come protesi esterna ai corpi a delle protesi più invasive come un microchip sottocutaneo. Tutti questi processi richiedono i loro tempi, ma anche che i contesti siano pronti ad accogliere quell’innovazione, per non rischiare di avere un rifiuto, come per il primo modello di occhiali a realtà aumentata di Google.
Lo scoppio della sindrome della “Mucca pazza”, scoppiata in Inghilterra a causa dei pastoni mortiferi di cadaveri con cui venivano alimentati in modo economico animali per loro natura vegetariani, ha fatto in modo che partissero su vasta scala processi di tracciabilità con l’utilizzo di tecnologie come l’RFID (Radio Frequency Identification). L’intero sistema zootecnico nel pieno di un’emergenza ha fatto un salto e si è riorganizzato per mantenere intatti i suoi profitti e allo stesso tempo rassicurando di non creare altri morbi così letali e soprattutto così immediati da poterglierne attribuire ancora le cause. Per il sistema industriale, ormai da tempo tecno-scientifico, i suoi effetti collaterali nel ciclo di produzione rappresentano sempre più non solo la normalità, ma anche una possibilità per potersi ristrutturare. La chiave della ristrutturazione è sempre tecnologica, qualsiasi sia stata l’origine del disastro. Quindi il problema non è una mucca resa “pazza” dall’alimentazione di pecore, ma la mancanza di tracciamento nella filiera, per avere sempre sotto controllo “la pazzia degli animali” e intervenire dove occorre con altre soluzioni tecniche, senza curarsi che queste siano ancora più pazze delle pazzie che si volevano curare.
È del resto curioso come negli anni sono state chiamate le pandemie e anche le epidemie più circoscritte. Molte hanno preso nomi da animali come la Suina, l’Aviaria, la Dengue, la sindrome della “Mucca pazza”, fino al Coronavirus, anche se non gli è stato dato un nome preciso legato a pipistrelli o pangolini, l’accostamento è continuo. Questa dicitura animalesca, che abbia o meno fondamento, trasporta il problema sempre verso l’esterno, un’entità altra dall’uomo che va a rappresentare la causa delle pandemie. A nessuno è venuto in mente di chiamare una pandemia da Homo sapiens, o si potrebbe cambiare la specie in Homo tecnologicus, sarebbe sicuramente più realistico considerato che è la società tecno-scientifica l’origine di tutto nei suoi processi di sostituzione, ingegnerizzazione e artificializzazione della natura.
Il così detto “stato di emergenza” si espande e si diffonde ovunque, non potrebbe essere diversamente in quanto i disastri si moltiplicano a vista d’occhio e sono sempre meno camuffabili. Spesso questi si combinano tra loro creando situazioni che lasciano spaesate la maggior parte delle persone, incapaci di intervenire e soprattutto malleabili ad accettare qualsiasi sacrificio fino a qualche ora prima impensabile. Se il disastro non è più camuffabile allora lo si esaspera e lo si mette nella maggior evidenza possibile, contando su un’anestetizzazione della capacità critica di chi guarda nel capire quello che ha realmente sotto gli occhi. Molti impianti nucleari ormai vengono costruiti vicino a centri abitati, con la condivisione del parco cittadino donato e curato gentilmente dalla stessa compagnia che ha messo l’impianto. La paura di un incidente atomico, chimico o di una pandemia non si vuole che scompaia. La percezione che si vuole dare, quella che deve essere assimilata, è una situazione sotto controllo: ci sono le radiazioni, ma ci sono tecnici che se ne occuperanno, c’è la diossina, ma non è nella concentrazione mortale, c’è una pandemia, ma è sufficiente mettersi in casa e chiudere l’ultimo cancello.
L’11 Settembre, con l’attentato alle Torri gemelle, o in Italia il G8 di Genova, sembravano semplici parentesi, “situazioni eccezionali” destinate a rimarginarsi e destinate a rientrare nell’alveolo democratico. L’11 Settembre ha permesso al governo degli Stati Uniti, sotto l’onda emotiva dell’America ferita, di inventarsi la minaccia del terrorismo e di scatenare due guerre: una all’esterno e l’altra all’interno con la creazione di leggi speciali atte a limitare, quando non a distruggere le libertà degli americani. A Genova tre brevi giornate hanno ben condensato cosa può fare uno Stato democratico e dopo quelle paure nulla poteva più tornare come prima, di questo il potere ne era ben consapevole, con un messaggio che non valeva solo per i movimenti in Italia. Quell’infrastruttura per torturare, imprigionare e uccidere non è stata più smantellata, è stato il resto del sistema che si è ristrutturato su questa.

Digitalizzare la società, ovvero a lezione da Google e company

Il Ministro dello Sviluppo economico (MISE), il decastero del governo italiano che comprende politica industriale, commercio internazionale, comunicazione ed energia ha reso molto chiaro come il Governo intende affrontare la questione della ripresa economica durante e soprattutto dopo l’”emergenza” Coronavirus. Sono stati stanziati, per cominciare, 25 milioni di euro per il progetto Case delle tecnologie emergenti: “dopo quella di Matera per progetti di ricerca e sperimentazione basati su Blockchain, internet delle cose e intelligenza artificiale”, rivolto ai comuni d’Italia per la sperimentazione di sistemi innovativi e per la realizzazione della rete 5G, sviluppo centrale anche nel decreto Cura Italia che ha dato il via libera a tutti i cantieri delle comunicazioni.
La ministra per l’Innovazione tecnologica e la digitalizzazione Paola Pisano, facente parte dei 5 Stelle, partito che da sempre ha avuto come riferimento la rete di internet e non il mondo reale per costruire la propria idea di democrazia, ha dichiarato: “Il digitale e l’innovazione sono alleati preziosi per farci vivere un quotidiano sostenibile, migliorando la nostra qualità della vita nonostante le limitazioni”. Il progetto della ministra denominato Solidarietà digitale intende mettere “a fattore comune tutti i servizi digitali per aiutare i cittadini a svolgere da casa ciò che prima si faceva in ufficio o a scuola”. Una solidarietà tra le macchine e la ministra non nasconde che queste non sono idee di adesso, ma è quello che hanno voluto sempre fare. Serviva un’emergenza di questo livello per annientare del tutto la già traballante solidarietà umana: le persone devono comunicare per mezzo di dispositivi, tra le macchine, non più tra loro, verso una degradazione e un’erosione di ogni relazione sociale in vista di un distanziamento sociale permanente.
Questi progetti prevedono una parte pubblica, ma soprattutto una parte privata. Sono proprio le compagnie private che non sono state minimamente toccate dalle restrizioni governative e questa crisi è stata un occasione per dare slancio ai loro progetti. In tempi di confinamento casalingo sono le compagnie dei Big Data che hanno sequestrato l’attenzione di milioni di persone perennemente collegate alla rete per cercare di orientarsi in qualche modo o semplicemente per svago, rendendo l’uso dello smartphone ancora più compulsivo. In questa fase di cambiamento forzato queste compagnie hanno stretto la loro morsa utilizzando tutto il loro armamentario per essere ancora più presenti e pervasive. Per esempio Google con le chat video, la posta elettronica, i software di produttività e l’intrattenimento di Youtube; Facebook che consente alle persone di vedere cosa stanno facendo amici e parenti e insieme a Instagram e Whatsapp aiuta a sostituire il contatto diretto tra le persone; tutti i dispositivi e le App di Apple che permettono alle persone di continuare a lavorare e che intrattengono i bambini al posto dei genitori seppur presenti. Nel progetto di Solidarietà digitale a sostenere lo sforzo collettivo ci saranno anche IBM che si concentrerà sul lavoro smart e Microsoft (rimasta orfana di Bill Gates rimasto a occuparsi di pandemie) che impiegherà le proprie tecnologie per il lavoro smart e la scuola.
Amazon assicura l’approvvigionamento di tutte le merci e anche l’intrattenimento digitale attraverso Prime video, Kindle, Andible. Nei supermercati e nella piccola distribuzione è stata vietata la vendita di quello che è stato ritenuto superfluo (libri, materiale di cancelleria…), ma questo divieto non è valso per la grande distribuzione immateriale di Amazon, settore evidentemente ritenuto essenziale anche nella sua logistica di distribuzione del superfluo.
Già dal mese scorso Facebook ha stretto una collaborazione con l’OMS offrendo spazi pubblicitari gratuiti per promuovere “un’informazione accurata”. Sulla stessa linea Google e Youtube promuovono e direzionano le ricerche di informazioni sul Coronavirus verso quello che dichiarano l’OMS con i media ufficiali e Google sta realizzando specifici siti internet per gestire la grande mole di informazioni. In una recente intervista il vice presidente di Facebook Molly Cutler ha dichiarato: “ci rendiamo semplicemente conto della serietà del momento e dell’importanza di fare ciò che va fatto in un momento in cui i nostri servizi sono davvero necessari”.
La Cina per contenere la pandemia ha semplicemente utilizzato e perfezionato su vasta scala tecnologie della sorveglianza già esistenti, la città di Wuhan ha un sistema di rete 5G e di Internet delle cose che è il più sviluppato al mondo. Due app come Alipay e WeChat, che in Cina hanno praticamente sostituito il denaro contante, sono state molto utili per applicare le restrizioni perché permettevano al governo di seguire costantemente i movimenti delle persone e di bloccare quelle che avevano contratto il virus. “Tutte le persone hanno una sorta di semaforo”, spiega Gabriel Leung, rettore della facoltà di medicina all’università di Hong Kong, un codice basato sui colori verde, giallo e rosso che compare sullo smartphone permettendo alla polizia e all’esercito, dislocati in apposite postazioni di controllo, di stabilire chi poteva passare e chi doveva essere fermato. Ovviamente la vita sociale con queste misure non è stata solo ridotta ma distrutta. Una delegazione a guida OMS in una recente visita in Cina ha posto molti dubbi e preoccupazioni per misure di contenimento così drastiche. Lo stesso organismo non si è però indignato quando le stesse modalità si stanno applicando in Europa e nel resto del mondo, semplicemente con un livello meno avanzato nella tecnologia della sorveglianza di cui la Cina è prima al mondo.
Questo tipo di misure rispecchiano quelle prese in contesti di contro-insurrezione, come l’occupazione militare-coloniale in Algeria o, più recentemente, in Palestina. Mai prima d’ora erano state prese a livello globale e con un tale apparato tecnologico a disposizione, né in megalopoli che ospitano gran parte della popolazione mondiale.
Nel mentre anche in Italia si stanno adottando modalità tecniche per mettere in campo il tracciamento dei contatti e quindi delle persone. Il garante della privacy in Italia assicura che “Lo scambio e, prima ancora, la raccolta dei dati devono avvenire nel modo meno invasivo possibile per gli interessati, privilegiando l’uso di dati pseudonomizzati (ove non addirittura anonimi), ricorrendo alla reindificazione laddove vi sia tale necessità, ad esempio per contattare i soggetti potenzialmente contagiati. Nella complessa filiera in cui si articolerebbe il contact tracing, soggetti privati – a partire dalle grandi piattaforme – dovrebbero porre il patrimonio informativo di cui dispongono a disposizione dell’autorità pubblica, alla quale dovrebbe invece essere riservata l’analisi dei dati”. La privacy è in se stessa una chimera, una promessa che non può essere mantenuta in partenza per il semplice motivo che la sua erosione è già iniziata da tempo. La privacy era già morta nella semplice diffusione di dispositivi come il telefono cellulare.
Nella raccolta di dati mancavano quelli sanitari per arrivare a trasformarci tutti in pazienti, tassello fondamentale per la gestione totale della nostra vita, il progetto Watson di IBM è già avanti in questa direzione. E se la macchina algoritmica promette di fare meglio dell’uomo perché ritornare indietro quando le relazioni umane facevano perdere tempo, con rischi per altro di possibili contagi?
Contrastare una nocività non significa solo considerare chi l’ha voluta, realizzata e resa necessaria, ma anche considerare quegli impostori che promettono di riuscire a mantenerla dentro dei precisi limiti e parametri, controllati e vigilati magari da un soggetto pubblico. E sta qui il punto: pensare di governare questi processi è un’illusione, questi immancabilmente prenderanno il sopravvento, avvalendosi ovviamente di un sistema di regolamentazioni etiche, sanitarie o di altra natura.
La direzione intrapresa è quella di una società cibernetica con un accompagnamento dolce verso la totale sorveglianza con una gestione e un condizionamento dei comportamenti delle persone. In mezzo a questo contesto sarà sempre più difficile e ridicolo parlare della tanto decantata “privacy” o dire che la rete 5G provoca i tumori. Il clima di emergenza ha trasformato la rete 5G in una “tecnologia emergenziale” accelerando l’installazione di un elevatissimo numero di nuove antenne partendo proprio dalle zone più colpite dal Coronavirus. La rete 5G nella retorica della propaganda è necessaria per sostenere lo sviluppo della digitalizzazione, l’aumentato traffico in rete e l’analisi algortimica di dati sanitari: “Pensate all’utilità che la rete 5G avrebbe nei collegamenti in ponti radio fra ospedali, protezione civile, regioni” afferma De Vecchis, presidente di Huawei Italia e significative sono anche le parole del Ceo di Zte Italia: “Quello che gli operatori devono fare è un ragionamento sul lungo termine per essere pronti ad affrontare le crisi, questa è una lezione per tutti: la rete Internet deve essere considerata con la stessa importanza di quella della distribuzione dell’acqua, del gas, dell’energia elettrica”.
La questione cruciale è comprendere che questo non sarà né una semplice parentesi, né una prova generale, ma l’inizio di quello che si vuole diventi la normalità e non più uno stato d’eccezione nella società del prossimo futuro. Fino adesso abbiamo visto solo su piccola scala la creazione e gestione delle varie emergenze, dal terrorismo alle catastrofi naturali, ma mai così su grande scala e con tale intensità. E non c’è dubbio che questo esercizio durerà molto più a lungo di quanto annunciato, aprendosi e ri-combinandosi a nuove situazioni che sono ancora difficili da prevedere e da comprendere nella loro totalità e nelle loro conseguenze ultime.
In una società in cui vengono digitalizzate le nostre stesse relazioni e le nostre vite cosa ci resta da fare? Ivan Illich diceva che dobbiamo descolarizzare la società quando criticava il sistema educativo, a noi non resta che disconnettere il più possibile e in ogni dove questo mondo macchina prima che vengano irrimediabilmente perduti i significati più semplici e profondi su cos’è un essere umano, la libertà, la natura. Il mondo macchina a questo ha già risposto, a tutti gli individui che anelano ancora alla libertà non resta che tagliare le maglie di questa rete che ci imbriglia.

 

 

Bergamo, marzo 2020
Resistenze al nanomondo
www.resistenzealnanomondo.org

Documento in pdf: Primavera-silenziosa-2

Documento in pdf aggiornato: Primavera-silenziosa-3

Sulle rivolte di marzo

Quel che sta succedendo nelle carceri italiane, tra le rivolte scoppiate intorno al 10 marzo in più di 30 strutture detentive e quel che ancora deve accadere, non può spiegarsi esclusivamente attraverso la “paura di essere contagiati”. Se questa è la goccia che ha fatto scatenare la rabbia, le motivazioni e l’insofferenza della vita al di là del muro possono essere spiegate solo attraverso uno sguardo che vada al di là del momento emergenziale. Il carcere è uno stato d’emergenza senza fine, dove misure repressive “speciali” vengono attuate quotidianamente.

Le rivolte sono state raccontate dai giornali perlopiù come momenti di violenza irrazionale. Ma ogni lotta dietro le mura ha le sue rivendicazioni, le sue storie, le sue specificità. In questi giorni però, è come se la disperazione e la rabbia dei detenuti avessero avuto lo stesso cuore. Non è un caso che la stampa ufficiale abbia ritenuto opportuno dichiarare che dietro di esse si nascondesse la stessa mano organizzativa. Da chi si è sentito di dire che a dirigere le rivolte ci fosse la criminalità organizzata, al dirigente di Polizia Penitenziaria Daniela Caputo che ha parlato di “piano organizzato” da una non meglio specificata “mano anarchica”. Quest’ultima, in barba alle rivendicazioni dei detenuti, ha rievocato addirittura l’art. 41 bis fino a fine disordini per tutte le carceri interessate alle rivolte. Probabilmente segue la stessa logica la decisione di dire che i morti durante le rivolte siano tutti morti di overdose da farmaci. “Una manciata di rivolte organizzate dall’esterno, scoppiate nel caos irrazionale dell’assalto alle infermerie”, questo è ciò che lo Stato ha voluto far passare. Questo prima di oscurare qualsiasi notizia al riguardo. Dopotutto sarebbe stato impensabile per lo Stato parlare di rivolte spontanee e in grado di comunicare velocemente tra loro, cresciute nella cattività di luoghi di tortura, anni di pestaggi, condizioni igieniche repellenti; perché se ne sarebbe parlato diversamente, e se ne sarebbe parlato di più. E non è sorprendente che il fatto di aver ripreso parte di ciò che stava accadendo all’interno delle carceri con dei cellulari faccia paura alla polizia ancor più delle rivolte stesse. Perché quel che succede dentro, soprattutto durante momenti di tensione come quelli dei giorni scorsi, non si deve sapere. Così che si possa tranquillamente parlare di morti per overdose negando i massacri di Modena, Rieti, Bologna e di tutti i pestaggi avvenuti in moltissime altre carceri.

La cosa che più fa paura allo Stato è che rinasca una coscienza collettiva tra i detenuti, che le lotte mettano in difficoltà il sistema carcerario, che ci sia chi è pronto a battersi per la propria libertà e, come in questi casi, ad arrivare fino in fondo, a dare la vita.

Il fatto che le rivolte stiano scoppiando in tutto il mondo all’interno delle carceri, impone di chiedersi se non siano proprio i detenuti i primi a suggerirci che l’immenso stato di emergenza di cui oggi siamo i reclusi deve portare con sé le occasioni per rivedere il mondo in cui siamo costretti con uno spirito internazionalista. Proprio mentre televisioni, radio e proclami cittadini all’opposto invocano le bandiere alle finestre e l’orgoglio nazionale.

Stare vicini ai prigionieri e conoscerne le lotte è anche un modo per far capire a chi oggi sventola tricolori che non siamo “tutti sulla stessa barca” solo perché ad affondare è anche una parte di un sistema di controllo e profitto. E dobbiamo chiederci davvero cosa significhi, soprattutto in un momento come questo, in cui è fondamentale misurare la distanza tra ciò che è giusto e ciò che è legale, scegliere da che parte stare.

In quei giorni disperati sono morti Hafedh Chouchane, Slim Agrebi, Alis Bakili, Ben Masmia Lofti, Erial Ahmadi, Arthur Isuzu, Abdellah Rouan, Hadidi Ghazi, Salvatore Piscitelli Cuono, Marco Boattini, Ante Culic, Carlo Samir Perez Alvarez, Haitem Kedri.

Qui sotto una stretta cronologia dei fatti avvenuti nelle carceri italiane durante la settimana delle rivolte:

7 marzo: il decreto ministeriale che rende l’Italia un unica grande zona protetta, limitando gli spostamenti e istituendo restrizioni alle libertà individuali e collettive in risposta alla diffusione del covid-19, tocca anche le carceri: sono infatti sospesi i colloqui (che potranno, ove possibile, svolgersi via videoconferenza), i permessi premio, i regimi di semi-libertà. Anche le udienze sono sospese. Inizialmente il blocco è previsto fino al 31 maggio, notizia smentita nei giorni seguenti. Queste misure erano già state adottate da tutte le carceri di Lombardia e Veneto a partire dal 2 marzo.

7 marzo, Vicenza: un secondino risulta positivo al covid-19.

7 marzo, Salerno, Campania: scoppia la rivolta a Salerno. Per cinque ore, in quasi duecento hanno devastato un’intera sezione dell’istituto di Fuorni, sfondando una cancellata e salendo sul tetto della struttura armati di ferri divelti dalle brande. I detenuti hanno chiesto di sottoporre tutta la popolazione carceraria a tamponi per il test sul coronavirus e di accedere a misure alternative al carcere. All’esterno, presenti familiari di detenuti.

8 marzo, Napoli, Campania: scoppia la rivolta al carcere di Poggioreale. Decine di detenuti sono saliti sul tetto e hanno bruciato materassi chiedendo provvedimenti contro il rischio dei contagi dal Coronavirus all’interno della struttura. Hanno gridato frasi come “Stiamo morendo” e “Poggioreale è uno schifo”. La rivolta è proseguita fino a sera, poi i reclusi sono rientrati nelle loro celle, mentre i familiari hanno proseguito a manifestare all’esterno del penitenziario.

8 marzo, Cassino e Frosinone, Lazio: in entrambe le carceri comincia una battitura che si protrae per diverse ore. A Frosinone la protesta si fa più intensa: sono state occupate, devastate e rese inagibili due sezioni del penitenziario, mandando a fuoco i materassi e in frantumi gran parte delle suppellettili. Approfittando del caos e passando dalle zone di passeggio del carcere, alcuni detenuti sono riusciti ad uscire in strada, e qualcuno a scappare. La rivolta è stata sedata a metà giornata, e verso sera è cominciato il trasferimento dei detenuti.

8 marzo, Carinola, Campania: proteste anche al carcere di Carinola.

8 marzo, Modena, Emilia Romagna: scoppia la rivolta anche al carcere Sant’Anna, Modena. Circa un centinaio di detenuti hanno dato fuoco a materassi e suppellettili, lanciato oggetti contro i secondini, alcuni si sono barricati nell’armeria, altri hanno raggiunto il cortile nel tentativo di evadere, ma sono stati bloccati. In giornata cominciano ad arrivare le notizie dei morti: in tutto nove, di cui quattro morti durante i trasferimenti verso Ascoli, Parma, Alessandria e Verona. La verità di Stato dice: overdose.

8 marzo, Vercelli, Piemonte: battiture in protesta per il nuovo regolamento.

8 marzo, Foggia, Puglia: la protesta contro la gestione dell’epidemia comincia con una battitura e diventa guerriglia, dentro e fuori dal carcere; i carcerati hanno divelto un cancello della “block house”, la zona che li separa dalla strada, al grido di “indulto, indulto”. In una cinquantina si sono riversati in strada. Molti si sono poi arrampicati sui cancelli del perimetro del carcere. Un gruppo è riuscito a salire sul tetto, a rompere le finestre e ad appiccare un incendio all’ingresso della casa circondariale. Sei risultano in fuga. Negli scontri con le forze dell’ordine, un detenuto è rimasto ferito alla testa ed è stato portato via in barella.

8 marzo, Bari, Puglia: è cominciata una rivolta anche nel carcere di Bari. Un gruppo di parenti dei detenuti, all’esterno, ha iniziato a gridare slogan e invocare maggiore tutela: “Liberi, liberi”, bloccando anche il traffico a tratti. Dalle celle, grida e urla d’aiuto, oltre al rumore di oggetti di metallo sulle grate delle finestre e ad oggetti incendiati lanciati dalle sbarre. L’intervento della polizia ha sedato le proteste in giornata.

8 marzo, Palermo, Sicilia: proteste in entrambe le carceri di Palermo, con battiture, oggetti dati alle fiamme, e una presenza solidale all’esterno da parte di parenti che hanno anche bloccato il traffico. Il 9 marzo, tentativo di evasione da parte di detenuti dell’Ucciardone, che hanno provato a divellere la recinzione, venendo bloccati dai secondini. Il 10 marzo continuano le proteste all’Ucciardone: dalle finestre delle celle si levano le grida “assassini” e vengono lanciate lenzuola incendiate.

8 marzo, Brindisi, Puglia: la sera comincia la protesta, con grida, incendi nelle celle; anche qui gruppi di familiari si sono riuniti all’esterno, unendosi alle grida dei detenuti.

8 marzo, Ariano Irpino, Campania: battiture e lancio di oggetti delle finestre delle celle.

8 marzo, Cremona, Lombardia: una cinquantina di detenuti ha cominciato a protestare, incendiando materassi e altri suppellettili. Rivolta sedata alla fine della giornata dall’intervento di penitenziaria, carabinieri, polizia in antisommossa. I giornali non riportano alcun ferito, sia fra i detenuti che fra gli sbirri.

8 marzo, Pavia, Lombardia: Verso sera è cominciata la rivolta anche a Pavia: un gruppo di parenti si è riunito all’esterno per protestare contro lo stop dei colloqui, mentre da dentro i detenuti hanno cominciato a bruciare materassi e altri oggetti. In seguito sono stati presi in ostaggio due secondini a cui sono state sottratte le chiavi delle celle, con successiva apertura e liberazione di decine di detenuti. I secondini sono stati liberati nel giro di un’ora, e quando verso sera la protesta sembrava sedata (sono intervenuti rinforzi della penitenziaria da Opera e San Vittore, celere e carabinieri) i detenuti sono comunque riusciti a salire sul tetto e appiccare altri fuochi.

8 marzo, Reggio Emilia, Emilia Romagna: inizia una prima protesta, è stata danneggiata l’infermeria e distrutte due sezioni. In serata, il magistrato di sorveglianza incontra una delegazione di detenuti. Il 9 marzo, una quarantina di detenuti rifiuta di rientrare dall’ora d’aria: vengono riportati in cella uno per uno, opponendo resistenza passiva. In seguito, comincia un lancio di oggetti dalle celle e vengono appiccati incendi. Lo stesso giorno comincia il trasferimento dei detenuti.

8 marzo, Barcellona Pozzo di Gotto, Sicilia: battiture che si sono protratte per ore.

8 marzo, Trani, Sicilia: alcuni detenuti hanno fatto esplodere delle bombolette del gas e danneggiato alcune celle, ma tutto è rientrato dopo circa due ore, dopo una trattativa con il comandante della Polizia penitenziaria.

8 marzo, Augusta, Sicilia: sono cominciate delle lunghe battiture. Il 9 marzo, una quarantina di detenuti si rifiutano di rientrare dopo l’ora d’aria. La protesta rientra dopo qualche ora di trattative con la penitenziaria.

8 marzo, Bergamo, Lombardia: la sera, battiture in solidarietà coi detenuti in rivolta nelle altre carceri.

8 marzo, Matera, Basilicata: una decina di detenuti si rifiuta di rientrare dopo l’aria. Un detenuto riesce a raggiungere il tetto. Intervento di polizia, carabinieri e finanza.

9 marzo, Secondigliano, Campania: un gruppo di familiari dei detenuti protesta fuori dal carcere; viene disposto, per chi usufruisce della semi-libertà, di poter rientrare al proprio domicilio invece che al carcere. Il 12 marzo, viene diffuso questo comunicato, firmato dai detenuti: “I detenuti del reparto Adriatico F1 le parti S1, S2, S3, S4 e S5 da giovedì 12 per tre volte al giorno, alle 12, 16 e 18 inizieranno una pacifica protesta3 con battiture, rifiuteranno il vitto dell’amministrazione e dalla settimana prossima i detenuti rifiuteranno anche il sopravvitto, non comprando più generi alimentari extra. Noi tutti eseguiremo lo sciopero nel massimo rispetto dell’amministrazione del carcere di Secondigliano fin quando non riceveremo risposte concrete dallo Stato e non dall’amministrazione penitenziaria in merito alla nostra condizione.

  • 1- Lo stato non è presente per noi detenuti e continua a respingere i nostri diritti;
  • 2- Molti detenuti aspettano la libertà in attesa di avere confermati i provvedimenti per buona condotta perché i Tribunali di Sorveglianza sono bloccati;
  • 3- Sono stati bloccati i colloqui allontanandoci maggiormente dalle nostre famiglie in questo grande momento di difficoltà che riguarda il nostro stato di affettività. Alfonso Bonafede non può decidere sull’affettività dei nostri familiari vietando gli incontri;
  • 4- Siamo solidali con i nostri compagni detenuti che sono morti e con tutta la penitenziaria che è stata ferita. Ringraziamo l’amministrazione del carcere di Secondigliano che accoglie le nostre richieste per far uscire fuori la nostra voce

In attesa di risposta i detenuti, per le condizioni disumane delle carceri italiane, sperano in un provvedimento da parte del governo di clemenza, di amnistia e indulto, nel più breve tempo possibile. Tutti i detenuti del carcere di Secondigliano.”

9 marzo, Rebibbia, Lazio: protestano anche i detenuti di Rebibbia, incendiando materassi; la polizia irrompe nella struttura facendo uso di lacrimogeni. Un gruppo di parenti e solidali, all’esterno, ha bloccato la via Tiburtina gettando transenne o altri oggetti sull’asfalto. Il presidio è stato caricato e disperso dalla polizia. È stato poi chiamato un presidio davanti al ministero della giustizia, per le 12 del 10 marzo. Anche questo presidio è stato caricato e ci sono stati fermi e arresti per tre persone, poi rilasciate.

9 marzo, Alessandria, Piemonte: protesta al carcere Don Soria, con incendio di lenzuola, sedata piuttosto velocemente dagli stessi secondini, e anche al carcere San Michele, dove sono stati appiccati incendi in due sezioni e c’è stato l’intervento di carabinieri, polizia, vigili del fuoco. Era diretto ad Alessandria il mezzo su cui viaggiava uno dei detenuti poi deceduto, proveniente da Modena.

9 marzo, Liguria: proteste nelle carceri di Marassi (Genova), Imperia, Sanremo e Pontedecimo (Genova) con lunghe battiture. Al Villa Andreina (La Spezia), proteste dei detenuti, alcuni dei quali sono riusciti a salire su un cornicione. Intervento della celere e trattative con la direzione del carcere.

9 marzo, Milano, Lombardia: la mattina comincia la rivolta nel carcere di San Vittore: distrutti gli ambulatori e due sezioni, incendi e allagamenti. Un gruppo di detenuti riesce a raggiungere il tetto, dove viene esposto lo striscione “INDULTO” e si grida “libertà”. Presenza solidale all’esterno.

9 marzo, Milano, Lombardia: proteste al carcere di Opera. L’esterno viene subito militarizzato anche se alcun solidali riescono a comunicare coi detenuti, che gridano e battono sulle sbarre. Dentro scoppia la rivolta, vengono appiccati degli incendi e la risposta poliziesca è molto dura. I giorni successivi i detenuti riferiranno alle persone solidali che, una volta sedata la rivolta, non hanno ricevuto cibo, gli è stata tolta la televisione, sono stati privati delle ciabatte, gli sono state negate le telefonate. Sono stati picchiati, hanno riferito di avere le ossa rotte e di non aver ricevuto cure. Tensioni anche al carcere di Bollate, dove vengono sfasciati uffici del personale.

9 marzo, Turi, Puglia: proteste anche a Turi, all’interno e all’esterno del carcere, a partire dal 9 marzo. Gruppi di familiari si sono riuniti fuori le mura del carcere, chiedendo indulto per i propri cari, dall’interno sono state portate avanti lunghe battiture. Interventi della polizia per disperdere i parenti all’esterno.

9 marzo, Larino, Molise: i detenuti si sono rifiutati di rientrare in cella.

9 marzo, Rieti, Lazio: rivolta nel carcere di Rieti. Dall’esterno erano ben visibili le colonne di fumo degli incendi; anche qui i detenuti sono riusciti a raggiungere il tetto. I danni alla struttura ammontano a 2 milioni di euro. Purtroppo il bilancio è drammatico: tre morti e otto feriti; un quarto detenuto morirà in ospedale l’11 marzo. Anche questi morti vengono catalogati come overdose. Al diffondersi della notizia, ripartono le proteste nella struttura. In data 14/03 un detenuto, durante una chiamata, riesce ad informare del fatto che dentro i secondini pestano indiscriminatamente, i reclusi “cercano almeno di salvarsi la testa”.

9 marzo, Torino, Piemonte: Vallette, i detenuti delle sezioni del padiglione B si sono barricati dall’interno posizionando dei letti contro gli accessi del padiglione.

9 marzo, Bolgona, Emilia Romagna: la mattina del 9 marzo, la tensione sfocia in rivolta nel carcere la Dozza di Bologna. I detenuti (in tutto 400 sui quasi 900 presenti nella struttura) hanno incendiato materassi e altri oggetti, barricandosi poi al pianterreno. Hanno raggiunto il tetto, esponendo lo striscione “INDULTO” e, da qui, lanciato oggetti contro le forze di polizia, riuscendo a incendiare quattro mezzi di polizia e carabinieri. “Ci hanno lanciato di tutto – ha detto a Bologna Today un ripresentante sindacale della penitenziaria – dalla copertura dei tetti, pezzi di metallo e cemento, oltre a insulti.“ Durante la rivolta vengono tagliate luce e gas al blocco maschile. Dopo aver fatto irruzione nelle zone barricate gli sbirri sedano la rivolta, al termine della quale vengono ritrovati i cadaveri di due detenuti, anche questi attribuiti all’overdose.

9 marzo, Santa Maria Capua Vetere, Campania: una decina di detenuti del Reparto Nilo sono saliti sui tetti in segno di solidarietà con i detenuti delle altre carceri italiane ma anche per protestare contro la decisione di sospendere i colloqui con i familiari.

9 marzo, Regina Coeli, Lazio: cominciano le proteste a Regina Coeli, i giornali parlano di “roghi e disordini”.

13 marzo, Catania, Sicilia: al carcere di piazza Lanza cominciano le proteste: urla, battiture, lenzuola bruciate, un detenuto urla dalla finestra: “Non siamo animali! Abbiamo bisogno di cure, stiamo morendo”. Nei giorni precedenti, gruppi di familiari si erano riuniti all’esterno per accertarsi delle condizioni dei detenuti, protestando contro la sospensione dei colloqui.

Nei giorni seguenti risulteranno positivi al covid-19 detenuti nelle carceri di Brescia, Milano, Voghera, Pavia, Lecce, Modena (caso risultato positivo prima della rivolta), Bologna. Diversi positivi anche tra i secondini.

ilrovescio.info/2020/04/03/sulle-rivolte-di-marzo

Bologna – Saluto al carcere la Dozza

Il primo aprile un detenuto della Dozza muore in ospedale, dopo che era stato portato dal carcere al pronto soccorso.

Oggi  3 aprile abbiam fatto un saluto lampo al carcere della Dozza di Bologna. Saluti di libertà, un fumogeno e poi abbiam letto questo testo:

“Abbiamo saputo dai giornali* che l’ uno aprile è morto il primo detenuto di coronavirus del carcere di Bologna. Stava in regime di alta sicurezza e aveva settantasette anni. Si chiamava Vincenzo Sucato, arrestato nel 2018. Ancora non aveva ricevuto il primo grado di giudizio. é morto in carcere ancora sotto le misure cautelari. é morto DI carcere. Aveva già problemi respiratori, ma il giudice ha deciso di dargli gli arresti domiciliari,solo perchè era necessario per portarlo in ospedale. E’ dovuto arrivare a essere sul punto di morte per uscire da quelle mura infami ed è morto in ospedale, ma come se fosse in cella, con un piantone fuori dalla porta della stanza.
Vogliamo sapere come state, cosa vi è capitato dopo le rivolte che ci sono state e in che condizioni vi costringono là dentro.
Perchè non vogliamo veniate dimenticati a marcire,vogliamo che persone come Vincenzo, che a 77 anni ancora sono rinchiuse, nonostante le condizioni precarie, non vengano dimenticate nè tantomeno rimangano invendicate.
La causa del dolore inferto a chi sta dietro quelle mura è solo una. Non i crimini, non il diritto, ma solo lo stato.
Lo stato che decide attraverso le carceri di zittire e reprimere chiunque non abbia altra possibilità di sopravvivere se non affrontando e disobbedendo alle leggi, le quali difendono solo i ricchi e il loro merdoso mondo.
‘Non sono i criminali che vanno rinchiuse ma le cause della criminalità che vanno distrutte’ (Ravachol).
Queste cause sono la disuguaglianza, la povertà, l’autorità di quegli stessi che ingabbiano e torturano. Che vogliono protetto il loro privilegio di potere sugli altri.
Non siete soli. Anche da qua fuori si respira l’aria dell’isolamento, della costrizione, della libertà che viene distrutta giorno per giorno.
Le nostre città sono diventate delle prigioni a cielo aperto. Anche per questo vogliamo farvi sentire la nostra vicinanza e solidarietà.
Che glile sfruttatx si uniscano, dentro e fuori e che le morti causate dal carcere qui alla Dozza, come a Modena, Rieti, Udine, non rimangano solo miasmi nel vento.
Crediamo che i veri colpevoli di tutto ciò siano i secondini, i direttori delle prigioni, il ministero di giustizia e lo stato. Non le persone, non i detenuti, le rivoltose che hanno giustamente aperto le celle e distrutto la gabbia che le teneva recluse. Se riuscite, se potete, dateci notizia di voi e delle vostre condizioni, fateci sapere come state e come vi stanno trattando. Vi vorremmo liberx, qua fuori, insieme a noi.
Pensiamo che nessuno più di voi, possa aver tanto a cuore il senso di una parola che anche a noi è tanto cara e che, dentro come fuori, cercano di toglierci e distruggerci: Libertà. ”

Purtroppo non siamo rimasti tanto tempo quanto la situazione e le nostre passioni avrebbero richiesto. dopo altri saluti e un po di coreografia, abbiam sentito qualche risposta da dentro e poi ci siamo dileguate senza ricevere troppe attenzioni da parte delle guardie.
Certi che le occasioni per tornare sotto quelle mura di merda non possano e non debbano mancare. Cogliamo l’ attimo.
A presto.
Alle/ai detenutx le nostre grida,
Ai secondini e direttori il nostro odio.

*https://bologna.repubblica.it/cronaca/2020/04/02/news/detenuto_bologna_coronavirus-252939061/

Società di lavoratori senza lavoro

Con lo svolgersi delle crisi e il crollo degli stati del benessere (welfare), essi espongono le loro innumerevoli frodi e truffe. Questo fa intravedere un futuro (non troppo lontano, spero) di confronto tra chi, nonostante tutto, preferisce la falsa sicurezza dell’ordine stabilito e chi capisce o comincia a sentire che la vita è un’altra cosa e, quindi, deve passare attraverso altri canali ancora da costruire.

Siamo di nuovo nel bel mezzo di una crisi, sanitaria questa volta. Terribile, senza dubbio, ma non più di quelle già passate o di quelle che devono ancora venire. In questa crisi ci sono molte vittime, troppe. Le prime e le più dolorose, le morti e la scia di dolore che lasciano sui loro cari. Ma anche tutti coloro che hanno camminato sulla sottile linea della sopravvivenza e che, ancora una volta, sono spinti nella miseria e dipendono dalla solidarietà/carità per restare a galla e non perdere il controllo della vita.

La crisi è diventata lo stato naturale della società negli ultimi tempi. La sua gestione, il solito modo di governare. Viviamo in uno stato di eccezione permanente perché questo ordine sociale non ha altro modo di essere mantenuto se non quello di gestire la miseria, prodotto della crisi permanente che il Capitalismo rappresenta.

Un aspetto fondamentale di questa crisi permanente è legato al lavoro. Attualmente lo vediamo con una buona parte del lavoro sospeso e, di conseguenza, centinaia di migliaia di persone espulse dal loro lavoro e tante altre impossibilitate a farlo in modo informale (dato che erano già state espulse dal mercato prima o non le si è mai permesso di entrare). Questo non è qualcosa di esclusivo del momento attuale.

Per decenni, ci sono stati avvertimenti sulla progressiva perdita di posti di lavoro a causa di vari fattori. Ciò ha portato alla proliferazione di un numero sempre crescente di posti di lavoro non redditizi e alla precarietà della immensa maggioranza dei posti di lavoro e quindi della vita di milioni di persone. Il lavoro si è distaccato dalla necessità di produrre beni (più o meno necessari). Oggi ha più a che fare con le esigenze politico-ideologiche di avere a disposizione il maggior numero possibile di consumatori. In sintesi, si tratta di tenere a galla, costi quel che costi, l’ordine basato sul lavoro.

Ecco la chiave, l’ordine del lavoro è l’ordine del mondo. Il nefasto bisogno di “guadagnarsi da vivere” è alla base di un mondo gerarchico dove lavoro o morte (fisica, sociale, morale) è l’unico dilemma per milioni di esseri umani.

Non ci sono alternative, praticamente tutte le posizioni politiche hanno messo al centro teorico l’idea di lavoro fino a farla diventare una sorta di destino naturale dell’essere umano. Ora la crisi colpisce un’altra volta e la legislazione viene di nuovo approvata a favore dei favoriti, quelli che non smettono mai di vincere. Ondate di licenziamenti si susseguono da tutte le parti, indipendentemente da ciò che dicono i politici di diversa estrazione. Ancora una volta pagheremo gli stessi, quelli che paghiamo sempre, quelli di noi che non smettiamo mai di farlo.

Stiamo diventando una società di lavoratori senza lavoro. E questo ci rende sacrificabili, come sanno da molti anni milioni di persone in tutto il mondo.

Viviamo in tempi di immediatezza, tuttavia, può essere il momento di intravedere altri ordinamenti del mondo perché prima o poi l’ordine del lavoro non sarà più valido e lì, proprio in quel momento, ci sarà l’occasione per quel confronto di cui parlavo tra chi vuole la sicurezza dell’Ordine attuale e chi non la vuole. È meglio essere preparati a quando dobbiamo scegliere. Non possiamo permetterci di stare dalla parte sbagliata, non di nuovo.

Tradotto da: https://quebrantandoelsilencio.blogspot.com/2020/04/sociedad-de-trabajadores-sin-trabajo.html

Cronache dal contagio – notte 20

E’ tardi.

Le luci accese delle case rompono il buio della notte, stanotte più del solito.

Qualche finestra è aperta, molte persiane sono alzate, è strano vedere la città così vuota e muta.

Le uniche macchine che passano sono quelle della polizia o dei carabinieri in cerca di untori.

Ma per le strade non c’è nessuno, sono tutti lì, in quegli appartamenti nei palazzi che stanotte sembrano più alti e soffocanti del solito. Col caldo che avanza in questa nottata primaverile placare l’insonnia diffusa dei ritmi sballati è difficile, non basta netflix, così in tanti sono affacciati a quelle finestrelle illuminate, che l’esigenza sia di fumarsi una sigaretta, prendere una boccata d’aria o entrambe non cambia l’attitudine dello sguardo a cadere inevitabilmente verso la strada con la vana speranza di trovarci un qualcosa, un qualcuno, ma da un po’ di tempo lì, in strada, non succede granchè.

Ci siamo solo noi.

Quattro figure nere che si aggirano per questa città di occhi ai balconi.

In questo scenario, inutile a dirsi attacchinare e fare qualche scritta spray è quasi impossibile.

Ogni passo riecheggia e il minimo rumore si amplifica nel silenzio di questa notte vuota.

Così succede che ogni qualvolta tiriamo fuori dalle borse la colla, un pennello o i manifesti si apre qualche finestra, ogni muro buono per una scritta è sorvegliato da almeno un paio di insonni ed a ogni rumore di motore o luce blu intravista dobbiamo correre e nasconderci.

Battiamo quasi tutto il quartiere così, tra una fuga ed un nascondiglio senza però riuscire a raggiungere il posto prefissato.

Dall’alto poi, si sente un bisbiglio che si trasforma subito in urlo: “andare a casa! La colpa è vostra se tutto continuerà fino all’8 maggio!”

Nell’esasperazione non riusciamo a fare a meno di cedere alla sciapa consolazione di rispondere ad insulti.

Forse questa persona ha avvisato gli sbirri, forse qualcun’ altro più discreto l’aveva già fatto in precedenza, non sarebbe difficile individuarci. Valutiamo che la tensione, soprattutto la nostra, si sta facendo un po’ troppa decidiamo così di rientrare.

Qualche messaggio siamo riusciti a lasciarlo.

Segnali di ribellione colorata che spezzano un po’ la monotonia grigia cemento di queste giornate passate per lo più segregati in casa o in fila davanti ad un supermercato.

Domani, proprio per questo, con qualche accortezza in più ci riproveremo, sicuramente andrà meglio!