(Non) Ci sono paragoni?

«Tra l’11 giugno 1940 e il 1 maggio 1945, durante la seconda guerra mondiale, a Milano persero la vita sotto i bombardamenti 2 mila civili, in 5 anni; per il coronavirus, in due mesi, in Lombardia ci hanno lasciato 11.851 civili, 5 volte di più… Un riferimento numerico clamoroso»

Domenico Arcuri, 18 aprile 2020

In effetti, ha proprio ragione. Il riferimento numerico avanzato ieri mattina dal commissario all’emergenza è davvero clamoroso. Pure noi ne siamo rimasti impressionati. Va da sé che lo scopo del funzionario, come dei vari mass-media che ne hanno ripreso ed amplificato le parole, è solo quello di aggiungere paglia sul fuoco della retorica bellica con cui il governo intende raggiungere un’unità nazionale altrimenti impensabile. Ma questo confronto fra i bombardamenti del passato e la pandemia del presente è interessante da molti punti di vista, oseremmo quasi dire rivelatore. Ecco perché vale la pena soffermarvisi un attimo. Ma solo un attimo, sia chiaro. Sul bordo del baratro, troppe vertigini potrebbero fare male.
Già incaponirsi a descrivere un’emergenza sanitaria come se fosse un conflitto militare è imbarazzante. Essendo stato detto e ripetuto fino allo sfinimento che questo virus non è un’arma biologica e non è stato creato in qualche laboratorio segreto, si può escludere che a seminare morte negli ospedali e nelle case di riposo lombarde sia stata l’improvvisa aggressione di un esercito straniero. L’inevitabile destino è stato semmai accelerato dal prolungato predominio dell’economia su ogni aspetto dell’esistenza umana. Migliaia di anziani e malati sono morti perché oramai il profitto è diventato al tempo stesso la ragione sociale delle imprese, la ragione politica degli Stati e la ragione di vita degli esseri umani, al cospetto del quale tutto è deperibile, dalle misure di sicurezza agli affetti familiari. Ma poiché il rimedio pratico a questa ovvietà non si limiterebbe a sospendere il tran-tran quotidiano per un periodo, bensì a porvi fine per sempre, il solo modo per ripristinare la normalità è quello di attribuire alla natura invisibile responsabilità di uno Sviluppo portato avanti da precise persone che rivestono un ruolo sociale specifico ed hanno nome, cognome e indirizzo.
È stupefacente come chi è preso dal clamore di questo riferimento storico-numerico non si renda conto che paragonare i bacilli di un virus ai piloti alleati non è esattamente una brillante trovata. Né lo è paragonarne le vittime. I bombardamenti che colpirono Milano tra il 1940 e il 1945 furono realizzati dalle forze inglesi ed americane allo scopo di colpire il governo fascista, all’epoca alleato col nazismo. L’intento era spingere la popolazione alla rivolta contro Mussolini. A quale mente bacata può venire in mente di paragonare quella guerra con questa pandemia? All’epoca sotto le macerie di una città morirono migliaia di uomini, donne e bambini, dilaniati dalle bombe. Si possono paragonare con le vittime oggi conteggiate in un’intera regione solo per via del risultato, per altro dall’esito sempre incerto, di un tampone? I 200 bambini sicuramente vittime del bombardamento che nell’ottobre del 1944 fu effettuato per tentare di distruggere la fabbrica Breda, possono mai essere paragonati ai 160 anziani morti in parte per un virus al Pio albergo Trivulzio?
Il riferimento numerico del commissario all’emergenza non è perciò solo clamoroso, è soprattutto aberrante. Ma c’è un particolare che lo rende quasi comico. Infatti, se quella contro il virus è una guerra perché in Lombardia in due mesi si dice abbia prodotto cinque volte le vittime dei bombardamenti di Milano durante la seconda guerra mondiale, allora in Germania cosa dovrebbero dire? Che si stanno proteggendo contro le zanzare? In fondo cosa sono per quella nazione le oltre 4.000 vittime odierne attribuite al virus, paragonate alle centinaia di migliaia di esseri umani periti in quegli anni fra le macerie di Amburgo, Dresda, Berlino…?
Inoltre, c’è da rimarcare che un’ottantina di anni fa il morale della popolazione civile italiana è stato oggetto di continue discussioni tra i vertici politici e militari inglesi, i quali erano certi che l’Italia sarebbe stato l’unico paese in Europa a crollare rapidamente sotto i bombardamenti. Nell’agosto 1940 Anthony Eden, segretario di Stato per la guerra, scrisse a Churchill: «È mia convinzione che sia di importanza primaria sviluppare la nostra offensiva contro gli italiani nel Mediterraneo via terra, mare e aria. L’Italia è il partner debole [dell’Asse], e abbiamo più possibilità di buttarla fuori dalla guerra bombardandola rispetto a quante ne abbiamo con la Germania». Quattro mesi dopo, una riunione al ministero della Guerra concluse che l’Italia non aveva bisogno di bombardamenti particolarmente violenti, poiché il temperamento emotivo degli italiani era talmente debole da piegarsi anche ad attacchi minori; la «psicologia degli italiani» era considerata «non adatta alla guerra». La paura provocata in tutto il Belpaese dal bombardamento su Genova avvenuto il 9 febbraio 1941 sembrò confermare la considerazione del governo inglese sul coraggio italiota, avendo osservato una fonte d’intelligence: «per quanto il reale impatto del bombardamento sia stato limitato, i suoi effetti morali e psicologici sono enormi». Dopo i bombardamenti avvenuti alla fine del 1941 su alcune città del nord Italia, fra cui Milano, il capo dell’aeronautica inglese Arthur Harris notò che, sebbene fossero stati più leggeri rispetto a quelli che colpirono la Germania, «l’effetto sul morale italiano fu enorme e completamente sproporzionato».
Come dire che durante la seconda guerra mondiale gli italiani erano considerati non solo dei cialtroni che avevano dato il potere a un buffone come Mussolini, ma pure dei codardi che andavano in panico per un nonnulla. Talmente abulici da non essere in grado né di rovesciare il proprio regime che li opprimeva da vent’anni, né di prendersela con chi ora li stava bombardando («Uno degli aspetti più sorprendenti rispetto allo stato dei sentimenti in Italia è la relativa assenza di ostilità nei confronti dei britannici e degli americani. Questo atteggiamento non sembra esser stato seriamente intaccato dai recenti pesanti attacchi aerei sulle città italiane», scriveva nel 1943 Eden, divenuto ministro degli esteri).
Insomma, verrebbe pure da ridere a considerare gli odierni virologi alla stregua dei vecchi gerarchi in camicia nera — per quanto, un Burioni criminale di guerra… —, ma se proprio vogliono che paragoniamo il vile credere-obbedire-combattere di chi faceva il saluto fascista al pavido credere-obbedire-vaccinarsi di chi si confina volontariamente in casa, come non accontentarli?

Lo Stato con la mascherina

Miguel Amorós

L’attuale crisi ha provocato un notevole inasprimento del controllo sociale statale. Gli elementi essenziali in questo ambito erano già in atto poiché le condizioni economiche e sociali oggi prevalenti lo esigevano. La crisi ha solo accelerato il processo. Veniamo obbligati a partecipare come massa di manovra ad una prova generale di difesa dell’ordine dominante da una minaccia globale. Il Covid-19 serve da pretesto per riarmare il dominio, ma una catastrofe nucleare, un vicolo cieco climatico, un movimento migratorio inarrestabile, una rivolta persistente o una bolla finanziaria senza controllo sarebbero servite allo stesso modo.
Tuttavia la vera causa più importante è la tendenza mondiale alla concentrazione del capitale, ciò che i dirigenti chiamano indifferentemente globalizzazione o progresso. Questa tendenza è correlata al processo di concentrazione del potere, quindi al rafforzamento degli apparati di mantenimento dell’ordine, di disinformazione e di repressione dello Stato. Se il capitale è la sostanza dell’uovo, lo Stato ne è il guscio. Una crisi che mette in pericolo l’economia globalizzata, una crisi sistemica come si dice adesso, provoca una reazione difensiva quasi automatica, e riattiva meccanismi disciplinari e punitivi già esistenti. Il capitale passa in secondo piano, ed è allora che lo Stato si palesa in tutta la sua pienezza. Le leggi eterne del mercato possono andare in vacanza senza che la loro validità ne sia inficiata.
Lo Stato pretende di presentarsi come l’ancora di salvezza a cui la popolazione deve aggrapparsi quando il mercato si addormenta nella tana della banca e della Borsa. Mentre lavora per tornare al vecchio ordine, vale a dire, come dicono gli informatici, mentre cerca di creare un punto di ripristino del sistema, lo Stato svolge il ruolo del protagonista protettore, sebbene in realtà sia più simile a un giullare magnaccia. Malgrado tutto, e checché ne possa dire, lo Stato non interviene a difesa della popolazione, tanto meno delle istituzioni politiche, ma per difendere l’economia capitalista, e quindi il lavoro dipendente e il consumo indotto che caratterizzano lo stile di vita determinato da quest’ultima. In certo qual modo, si protegge da una eventuale crisi sociale derivante da una crisi sanitaria, difendendosi cioè dalla popolazione. La sicurezza che conta davvero per lo Stato non è quella delle persone, ma quella del sistema economico, quella solitamente definita sicurezza «nazionale». Di conseguenza, il ritorno alla normalità non sarà altro che il ritorno al capitalismo: ai quartieri alveari e alle seconde case, al rumore del traffico, al cibo industriale, ai trasporti privati, al turismo di massa, al panem et circenses… Finiranno le forme estreme di controllo come il confinamento e il distanziamento tra gli individui, ma il controllo continuerà. Niente è transitorio: uno Stato non disarma volontariamente né rinuncia di buon grado alle prerogative che la crisi gli ha concesso. Si accontenterà di «congelare» quelle meno popolari, come ha sempre fatto. Teniamo a mente che la popolazione non è stata mobilitata, ma immobilizzata, quindi è logico pensare che lo Stato del capitale, in guerra più contro di essa che contro il coronavirus, tenti di curarne la salute imponendole condizioni di sopravvivenza sempre più innaturali.
Il nemico pubblico designato dal sistema è l’individuo disobbediente, l’indisciplinato che ignora gli ordini unilaterali impartiti dall’alto e rifiuta il confinamento, che non accetta di restare in ospedale e non mantiene le distanze. Colui che non è d’accordo con la versione ufficiale e che non crede alle sue cifre. È ovvio che nessuno rimprovererà ai responsabili di aver lasciato il personale sanitario e curante senza dispositivi di protezione e gli ospedali con un numero insufficiente di letti e di unità di terapia intensiva, né ai pezzi grossi di essere responsabili della mancanza di test diagnostici e di respiratori, né ai dirigenti amministrativi di aver trascurato gli anziani nelle case di riposo. Non verrà puntato il dito nemmeno contro gli esperti della disinformazione, o gli uomini d’affari che speculano sulle serrate, o gli assicuratori avvoltoi, o coloro che hanno beneficiato dello smantellamento della sanità pubblica o che commerciano con la salute e le multinazionali farmaceutiche… L’attenzione sarà sempre deviata, o meglio telecomandata verso altri aspetti: l’interpretazione ottimistica delle statistiche, l’occultamento delle contraddizioni, i messaggi governativi paternalistici, l’istigazione sorridente alla docilità da parte dei personaggi dei media, i commenti umoristici delle banalità che circolano sui social network, la carta igienica, ecc. L’obiettivo è che la crisi sanitaria sia compensata da un livello più elevato di addomesticamento. Che il lavoro dei dirigenti non venga messo in discussione per un nonnulla. Che si sopporti il male e che s’ignorino coloro che l’hanno scatenato.
La pandemia non ha nulla di naturale; è un fenomeno tipico dello stile di vita malsano imposto dal turbocapitalismo. Non è il primo e non sarà l’ultimo. Le vittime non sono dovute tanto al virus quanto alla privatizzazione dell’assistenza sanitaria, alla deregolamentazione del lavoro, allo spreco delle risorse, all’aumento dell’inquinamento, all’urbanizzazione galoppante, alla ipermobilità, al sovraffollamento metropolitano e al cibo industriale, in particolare quello proveniente dai macro-sfruttamenti, luoghi in cui i virus trovano il miglior focolaio di riproduzione. Tutte condizioni ideali per le pandemie. La vita che deriva da un modello di industrializzazione in cui comandano i mercati è di per sé isolata: polverizzata, limitata, tecno-dipendente e soggetta a nevrosi, tutte qualità che favoriscono la rassegnazione, la sottomissione e il cittadinismo «responsabile». Sebbene siamo guidati da inutili, incompetenti e incapaci, l’albero della stupidità governativa non deve impedirci di vedere la foresta della servitù cittadina, la massa impotente disposta a sottomettersi incondizionatamente e a rinchiudersi per perseguire l’apparente sicurezza promessa dall’autorità statale. La quale non usa premiare la fedeltà, ma diffida degli infedeli. E per essa, siamo tutti potenzialmente infedeli.
In un certo senso, la pandemia è una conseguenza della spinta del capitalismo di Stato cinese nel mercato mondiale. Il contributo orientale alla politica consiste principalmente nella sua capacità di rafforzare l’autorità dello Stato fino a livelli inimmaginabili grazie al controllo assoluto delle persone tramite la totale digitalizzazione. A questo genere di abilità burocratico-poliziesca si può aggiungere la capacità della burocrazia cinese di mettere la stessa pandemia al servizio dell’economia.
Il regime cinese è un esempio di capitalismo tutelato, autoritario e ultra-produttivista generato dalla militarizzazione della società. È in Cina che il dominio avrà la sua futura età d’oro. Ci saranno sempre ritardatari pusillanimi a lamentarsi del declino della «democrazia» che comporta il modello cinese, come se ciò che definiscono così fosse la forma politica di un periodo obsoleto, che corrispondeva alla compiacente partitocrazia a cui partecipavano volentieri fino a ieri. Ebbene, se il parlamentarismo comincia ad essere impopolare e maleodorante per la maggioranza dei governati, e se di conseguenza diventa sempre meno efficace come strumento di addomesticamento politico, ciò è in gran parte dovuto alla preponderanza che in questi nuovi tempi il controllo poliziesco e la censura hanno acquisito sugli intrighi dei  partiti. I governi tendono ad usare lo stato d’allarme come abituale mezzo per governare, poiché le relative misure sono le sole che funzionano correttamente per il dominio nei momenti critici. Tuttavia esse mascherano la vera debolezza dello Stato, la vitalità della società civile e il fatto che non è la forza a sostenere il sistema, ma l’atomizzazione dei suoi sudditi scontenti. In una fase politica in cui la paura, il ricatto emotivo e i big data sono indispensabili per governare, i partiti politici sono assai meno utili di tecnici, comunicatori, giudici e gendarmi.
Ciò che ora dovrebbe preoccuparci di più è che la pandemia non solo è il culmine di alcuni processi che arrivano da lontano, come quello della produzione alimentare industriale standardizzata, della medicalizzazione sociale e della irreggimentazione della vita quotidiana, ma avanza anche notevolmente nel processo di informatizzazione sociale. Se il cibo-spazzatura come dieta alimentare mondiale, l’uso generalizzato di rimedi farmaceutici e la coercizione istituzionale costituiscono gli ingredienti di base della torta della vita quotidiana postmoderna, la sorveglianza digitale (coordinamento tecnico delle videocamere, riconoscimento facciale e tracciamento dei cellulari) ne è la ciliegina. Si raccoglie quel che si semina.
Quando la crisi sarà passata, quasi tutto sarà come prima, ma il sentimento di fragilità e d’inquietudine durerà più a lungo di quanto vorrebbe la classe dominante. Questo disagio della coscienza minerà la credibilità della vittoria di ministri e portavoce, ma resta da vedere se ciò potrà buttarli giù dalla poltrona in cui si sono installati. Qualora conservassero il proprio posto, il futuro del genere umano rimarrebbe nelle mani di impostori, perché una società capace di prendere in mano il proprio destino non potrà mai formarsi all’interno del capitalismo e in uno Stato. La vita delle persone non potrà percorrere il cammino della giustizia, dell’autonomia e della libertà, senza staccarsi dal feticismo della merce, senza rinnegare la religione statalista, senza disertare gli ipermercati e le chiese.

Sguardo obliquo

Guarda a tutt’occhi, guarda.”
Jules Verne

La prima battaglia culturale è stare di guardia ai fatti.”
Hannah Arendt

La disinformazione giornalistica scomposta ed emergenziale sta facendo da narratrice unidirezionale alla situazione complessa in cui siamo immersi da un mese a questa parte. Improbabile trovare un’unica lente di osservazione ed analisi per affrontarla. Molti piani, prospettive e dinamiche si mescolano e intrecciano richiamando relativi interessi e protagonisti di processi già in corso.
C’è da dire che, come spesso accade nella storia, avvenimenti emergenziali accelerano determinati processi e in questo caso affiorano chiaramente quelli che sono gli obiettivi che, grazie a questa pandemia, si vorrebbe raggiungere.
L’eccezionalità permette di spostare il confine dell’accettabile in modo poco rumoroso e senza preavviso, attuando delle “trasformazioni silenziose” irreversibili.
È importante che gli scenari non siano previsioni. Piuttosto, sono ipotesi ponderate che ci permettono di immaginare, e poi di provare, diverse strategie per essere più preparati per il futuro – o più ambiziosi, come aiutare a plasmare un futuro migliore… gli scenari sono un mezzo attraverso il quale è possibile non solo immaginare ma anche attualizzare un grande cambiamento” (Rockfeller Foundation).
E’ stata imposta la frammentazione sociale con la retorica del “distanziamento come nuova forma di solidarietà” mentre in alcune fabbriche il frastuono dei macchinari continua incessante per non interrompere il flusso di capitale.
Lampante è l’esempio di alcune aziende della bergamasca, la Tenaris Dalmine, del gruppo Techint, tra tutte. Specializzata nella fornitura di tubature per il settore petrolifero, non ha mai smesso la sua produzione spalleggiata dall’amicizia “disinteressata” con i sindaci dei comuni bergamaschi.
Una fabbrica che se anche avesse chiuso non avrebbe perso i propri profitti dal momento in cui gli stessi proprietari possiedono anche l’ospedale polispecialistico privato Humanitas Gavazzeni.
Da una parte o dall’altra il guadagno sulla pandemia era assicurato.
Un sinistro teatrino per far sì che “le bugie sembrino sincere e l’omicidio rispettabile” (G. Orwell).
Un’emergenza che mette ancora più in luce quelli che sono i meccanismi della vita sociale, tracciando ancora più profondamente i confini tra la classe dominante e quella degli sfruttati, appiattendo le soggettività a favore dell’utilitarismo in cui l’operaio è ridotto a mero strumento e l’anziano deceduto a numero statistico con cui concorrere con le percentuali di mortalità degli altri paesi.

Il quotidiano bollettino giornalistico della conta statistica dei morti scandisce questi giorni di quarantena. L’amministrazione della morte, come della vita, diventa materia prima per calcoli matematici trasformando la quotidianità in un vetrino da microscopio.
Non bastano più i dati digitali raccolti da una mano che tocca un touchscreen, servono i dati biometrici di quella mano.
I corpi diventano luogo dell’estrazione, mezzo, fonte e spazio della sorveglianza.

L’efficacia dei governi si misura in base alla loro capacità di cambiare il comportamento quotidiano delle persone”.
Fin dall’inizio dell’emergenza è apparsa scontata l’attivazione di piattaforme di smart working (utilizzata da più del 70% e che con le ultime disposizioni per la fase 2 si appresta a diventare obbligatorio in alcuni settori) e didattica online (utilizzata dal 98% del settore) mettendo in luce che dal momento in cui queste sono immediatamente operative significa che un’infrastruttura in grado di sostenere miliardi di interazioni in rete con un sovraccarico extra che in questo momento ha toccato punte del +90%, già esisteva.
Il contesto emergenziale sta creando così la condizione ferace per l’avanzamento dei processi tecno-scientifici, alcuni dei quali sono avvalsi proprio dall’accettazione sociale creata dalla produzione della paura e nella visione salvifica della tecnologia.
Si parla di semplificare le lungaggini burocratiche per l’amplificazione della rete proprio nelle zone più piegate dal virus, Lombardia in primis.
Da un punto di vista tecnologico un piano di emergenza a breve termine per dotare un’area limitata come la regione Lombardia di una rete 5G immediatamente operativa è perfettamente realizzabile” dice l’amministratore delegato di ZTE Italia.

Gestire la crisi mentre si costruisce il futuro” ha un’accezione assolutamente negativa dal momento in cui il futuro che viene costruito è il loro, in cui noi e le nostre interazioni diventiamo pellet di dati per saziare gli algoritmi.
Stiamo assistendo ad un’equiparazione tra il nostro mondo e il funzionamento di una macchina in cui ogni movimento è perfettamente regolato, monitorato e oleato.
Basta guardare i 17 specialisti scelti dal governo Conte che faranno parte della Task Force che si occuperà “Fase 2” per la ripartenza del paese. Significativo che a guidarla sarà proprio l’ex amministratore delegato di Vodafone, Vittorio Colao, che verrà fiancheggiato da numerosi tecnici ed esperti tra cui Roberto Cingolani, l’attuale responsabile dell’innovazione tecnologia di Leonardo e direttore dell’Istituto Italiano di Tecnologia. Ad essi è affidato il compito di “ripensare l’organizzazione della nostra vita e preparare il graduale ritorno alla normalità”.
Una ri-organizzazione commissionata a tecnici, accomodati dallo Stato e i suoi amministratori,che ci porterà in una direzione tutt’altro che misteriosa.
Sul suolo italiano, Vodafone, è stata la prima compagnia telefonica – una delle più grosse al mondo – ad aver investito nell’infrastruttura del 5G. Nei primi mesi dell’anno scorso era l’unica compagnia ad offrire una copertura 5G nelle cinque città pilota italiane (Milano, Bologna, Torino, Napoli e Roma).
La scelta di creare una task force con a capo proprio l’ex amministratore delegato è una scelta ben precisa mirata a sostenere lo spirito tecnologico dominante mettendo in luce le “affinità elettive” tra sistema tecnico e potere statale.
Proprio qualche giorno fa l’attuale CEO di Vodafone, durante un’audizione presso Montecitorio ha preso voce rispetto alle prospettive future del paese dichiarando che “So bene quanto l’importanza della tecnologia e delle reti fosse già nota […]. Vi segnalo che abbiamo deciso di focalizzare parte dell’attenzione e dell’impegno che stiamo mettendo in campo sulle esigenze sanitarie che possono essere sviluppati grazie alla diffusione del 5G e delle sue applicazioni.
Vodafone sta rafforzando la collaborazione con ospedali e istituti di cura per mettere a disposizione della salute degli italiani le tecnologie più avanzate e per aiutare i nostri
medici e infermieri nel loro prezioso lavoro a favore della comunità. […].”
Dopo una serie di premesse per mettere in luce la ramificazione del potere dell’azienda in questa situazione emergenziale, si passa al reale interesse di tale dichiarazione chiedendo “un immediato adeguamento dei limiti di campo elettro-magnetico al livello degli altri principali Paesi europei (in Italia abbiamo i limiti più restrittivi dell’intera Unione Europea) e sono necessarie misure di semplificazione, avvalendosi degli istituti già noti al nostro ordinamento dell’auto-certificazione e del silenzio-assenso.”
Quale momento più ideale per uscire allo scoperto? Soprattutto dal momento in cui i lavori per la nuova infrastruttura 5G sono già in corso da diverso tempo (le pubblicità e i documenti ufficiali parlano piuttosto chiaramente a riguardo) centinaia antenne già installate, quindi di fatto lo spostamento dell’asticella dei limiti di tollerabilità è già in atto e questa pantomima col governo probabilmente rappresenta unicamente una formalizzazione necessaria per l’istituzionalizzazione della rete 5G.
La stessa Vodafone la ritroviamo nel servizio di messaggistica gratuita correlato alle applicazioni per il monitoraggio e la mappatura delle persone in fase di progettazione e attuazione su tutto il territorio.

Vodafone insieme a Google, Facebook, Amazon, Apple, Microsoft e altri nel settore hanno potuto così proporsi per collaborare alla gestione dell’emergenza sfruttando un momento di vulnerabilità per applicare delle condizioni altrimenti premature. Condivisione di dati e mappature digitali, creazione di applicazioni ad hoc e “solidarietà digitale” sono alcuni esempi di come, sottochiave umanitaria, le grandi multinazionali della sorveglianza hanno potuto ulteriormente ingrassare i loro server di dati e scavalcare alcuni scalini per l’accettazione di innovazioni tecnologiche.
In un futuro non troppo lontano sarà proprio in nome della sicurezza sanitaria “digitale”, della comodità del lavoro “flessibile” e della formazione scolastica che le infrastrutture per le città intelligenti verranno implementate barattando l’illusione di una libertà nelle comunicazioni illimitate con controllo e sorveglianza totali.
Un processo alla quale siamo indotti a partecipare, arruolati nel progresso tecnico, e nel quale ci confesseremo quotidianamente – tramite i dispositivi tecnologici – per un bisogno interiore sapientemente manipolato da un nuovo potere totalizzante, fluido, consensuale, a “misura d’uomo”.
La parvente “benevolenza” di un potere è ciò che lo rende così efficace.

In Cina, a emergenza finita – almeno per il Coronavirus – ogni spostamento ed interazione sono registrati, analizzati tramite DataMining e classificate tramite smartphone. Se si sale su un pullman, su un treno, si entra in stazione o in una determinata zona della città, c’è un QRcode da scansire in modo che il sistema registri il passaggio. Un’amministrazione automatizzata delle condotte che tramite incroci di dati, alcuni dei quali neanche ci immaginiamo, analizza ogni aspetto della vita in un processo prescrittivo dal quale siamo esclusi.
Una nuova implementazione al Sistema di Credito Sociale¹ che il governo cinese si era prefissato di rendere completamente operativo proprio quest’anno dopo una fase “sperimentale” di 6 anni alla quale sarebbe seguita l’adesione obbligatoria per tutti i cittadini. Ora, quindi, alle quattro macroaree scansionate da questo sistema (onestà negli affari di governo, integrità commerciale, integrità sociale e credibilità finanziaria) si aggiunge l’area riguardante i dati sanitari delle persone completando il profilo bio-sociale.
Il contesto cinese, insieme a ciò che sta avvenendo in Corea del Sud, Singapore ed Israele seppur con considerevoli differenze, è sicuramente importante ma basta dare un’occhiata a tutto ciò che sta avvenendo sul suolo italiano per accorgersi che il controllo e la gestione sociale di Xi Jinping non è poi così lontano come sembra.
L’emergenza Coronavirus, quindi, è la tempesta perfetta che ha permesso al governo cinese il rafforzamento e l’implementazione di quei sistemi già inaccettabili ma attivi da diversi anni, alzando ulteriormente la soglia dell’accettazione sociale.
Quel che viene presentato come un sistema extra-ordinario per mappare il contagio serve unicamente a renderci partecipi al nostro profilamento e alla nostra sorveglianza.
Le tecnologie più profonde sono quelle che scompaiono. Si legano al tessuto della vita quotidiana fino a diventare indistinguibili da esso” S. Zuboff.
Con App che ti dicono se puoi essere contagiato da Coronavirus, da puntatori biometrici che controllano la tua temperatura, droni che sorvegliano città come sentieri di montagna per la tua sicurezza, velocemente si concretizza un mondo nuovo in cui la realtà viene scomposta, riassemblata e ripropostaci da compagnie e governi.
Per riprendere D. Lyon “diventiamo la sintesi delle nostre transazioni, meccanismi di classificazione” in cui è l’algoritmo di un telefono a intimarci in quale modo possiamo agire all’interno di uno spazio determinato.
La quotidianità che conoscevamo viene macinata per costruire un nuovo futuro con una velocità tale da paralizzare la consapevolezza e creare enormi vuoti.
Ancora una volta l’inevitabilità della soluzione tecnologica ci viene riproposta.
Una ideologia pericolosa, contagiosa.
Ancora una volta si confonde una strategia calcolata nel dettaglio in una precisa contingenza storica come un avvenimento assolutamente emergenziale, extraordinario che si propone di gestire una situazione difficile nel modo meno impattante possibile.
Ci abitueremo così alla “Calm Technology” e senza accorgercene saremo immersi nel tecnomondo che scompare negli ambienti della nostra quotidianità facendoci perdere di vista il confine tra reale e artificiale.

Numerose sono le metafore alla guerra riferendosi a questa pandemia. Ma se una guerra è in corso, è quella contro la natura, la natura umana, la sua socialità e la sua volontà di pensare e agire. Una guerra lampo, che colpisce con velocità e che tenta di lasciare intorno a sé solo soggetti inermi, confusi, soffocati. A differenza però della guerra, fatta di ”menzogne unificanti”, a cui fanno riferimento giornalisti e amministratori statali di vario genere che spingono al nazionalismo verso un nemico esterno – ed interno -, questa offensiva deve creare consapevolezza della realtà che prende forma intorno a noi, veloce, e spingerci ad avere “sangue freddo per pensare l’impensabile”.
Una narrativa frammentaria e funzionale ha dirottato i sentimenti e i pensieri verso la piena fiducia nei leader statali e del settore delle telecomunicazioni, tecnocrati e ricercatori di varia fattura. C’è spazio per ogni esperimento se può aiutare a salvarci dalla pandemia. Dalle manipolazioni genetiche con CRISP-Cas9, agli esperimenti sulle scimmie, ai progetti di vaccini sintetici in giro per il mondo, ai chip impiantati sottopelle, l’ignoranza e la paura spalancano le porte al sistema tecno-scientifico.
Negli USA e in Cina si parla già di una corsa geostrategica delle biotecnologie.
Le potenze mondiali si spintonano per accaparrarsi i laboratori migliori ed assicurarsi un posto in prima fila nella gara al vaccino e alle sperimentazioni sulle persone.

Tra i più colpiti da questa pandemia sono sicuramente gli anziani.
Dopo il 1985, anno riconosciuto come quello della prima generazione di quelli che Mark Prensky ha battezzato nativi digitali, e nei decenni successivi ancora di più, la realtà che oggi viviamo è percepita come l’unica vivibile, impensabile un passato diverso privo di comodità digitali e tecnologie suadenti.
Corriamo verso un mondo, come immaginava J.Verne ne La Parigi del XX secolo, dominato dalla tecnica e i suoi ingegneri in cui l’arte, la letteratura, l’umanità diventavano prendi-polvere ammassati in biblioteche abbandonate, dimenticate da tutti.
Questo virus colpisce principalmente le ultime generazioni di “affezionati” all’epoca pre-digitale della storia umana, i meno adattabili a questo nuovo sistema algoritmico, innervato da reti, sensori e chip. Con essi se ne vanno i racconti che descrivono l’oggi come un incubo di fantascienza assolutamente inimmaginabile qualche decennio fa.
Come scrive H. Keyeserling “dovunque penetri la tecnica, non resiste alla lunga alcuna forma di vita pre-tecnica”.
Anche se le nuove avanguardie tecnologiche sono pensate per inglobare tutte le fasce d’età con i nuovi progetti di Active and Assisted Living perchè “non può esistere una smart city senza cittadini smart e soprattutto anziani smart!”.
La memoria è indispensabile anche perché ci rammenta mondi altri, possibili, esistiti e che possono esistere sotto altre forme.
La memoria ci salva dall’inevitabilità del presente che sembra schiacciarci fino a soffocare ogni volontà ed è indispensabile, ma non può essere la chiave di lettura di questo presente.
Le nuove forme di potere che agiscono sull’oggi non hanno antecedenti storici ed analizzarli sotto la lente di modelli passati sarebbe un errore che non ci permetterebbe di coglierne in pieno le peculiarità e di conseguenza di trovare le strategie per opporvisi.

I giornali di sinistro gusto vendono migliaia di copie per i continui articoli sulla sterile conta statistica dei morti, in strada tra il vicinato non si parla d’altro.
Nelle ultime settimane in città il lutto fa da metronomo a queste giornate silenziose.
Ma se c’è un senso di lutto che sicuramente dobbiamo avere è quello per tutto ciò che ci stanno togliendo. Per tutta la libertà individuale che si stanno accaparrando e per tutta la distruzione che inesorabilmente sferzano contro la Terra e i suoi abitanti.
I tempi in cui non ci sarà più stupore e sgomento saranno i tempi in cui ci saremo normalizzati ad uno stato di cose inaccettabili. Rivendichiamoci il nostro stupore e la nostra meraviglia, fatta di rabbia e angoscia, perché sono quei sentimenti che stimolano alla consapevolezza, all’agire e alla volontà di volere senza aspettare i tempi in cui i sentimenti diventeranno “diritti” che lo stato ci concede.

Quanto prima di dimenticarci chi eravamo quando non eravamo ancora di loro proprietà, chini nella penombra a studiare vecchi libri che parlano di autodeterminazione, con uno scialle a scaldarci, la lente d’ingrandimento in mano, come se stessimo decifrando antichi geroglifici?”
S. Zuboff

Nella
Bergamo – 14 Aprile 2020

¹ Sistema di Credito Sociale cinese: il sistema nazionale per la classificazione dei cittadini funzionante tramite l’incrocio di informazioni riguardanti la condizione sociale, economica e la valutazione comportamentale di ogni individuo. Non si tratta solamente di un sistema di sorveglianza capillare e di massa ma di una precisa architettura tecnica per manovrare i comportamenti verso una direzione programmata.
E’ basato su tecnologie per l’analisi di Big Data che, tramite l’assegnazione di punteggi, crea caratteri di inclusione od esclusione nella società trasformando i punti in “diritti” che, proprio come dei punti, possono essere persi o acquisiti. Il programma prevede la stesura di liste nere esposte pubblicamente. Un sistema che incita alla partecipazione dei propri cittadini secondo un principio di interiorizzazione, affidando a meccanismi automatizzati il mantenimento dell’ordine sociale. E’ in vigore dal 2014, in fase di sperimentazione e adattamento, e da previsioni programmatiche si appresta a diventare obbligatorio per tutti i cittadini proprio quest’anno.

Sguardo obliquo

“Conosci il nemico come conosci te stesso”: sull’operato recente di RWM Italia

“Conosci il nemico come conosci te stesso. Se farai così, anche in mezzo a cento battaglie non ti troverai mai in pericolo. Se non conosci il nemico, ma conosci soltanto te stesso, le tue possibilità di vittoria saranno pari alle tue possibilità di sconfitta.”
L’arte della guerra, Sun Tzu

Mai sottovalutare i propri nemici, o leggere superficialmente le loro azioni. L’adagio di Sun Tzu, all’opposto, ci spinge ad andare in profondità nella conoscenza dell’avversario, a scrutare con attenzione le sue mosse per dedurne ogni dettaglio, per arrivare, in altre parole, a saper interpretare le sue intenzioni con la stessa chiarezza con cui formuliamo le nostre.

È a partire da questa prospettiva che analizziamo il recente operato di RWM Italia, in particolare rispetto alla sua presenza nel Sud Sardegna.

Ci siamo già occupati in passato di questa azienda che da qualche anno è divenuta nota per essere produttrice ed esportatrice di armamenti soprattutto (ma non solo) verso il Medioriente ed i suoi scenari di guerra.
L’attuale stato di emergenza dovuto alla pandemia da covid-19 ha portato ad un ridimensionamento delle attività produttive: il governo ha stabilito una differenziazione fra produzioni a carattere essenziale e non essenziale ed abbiamo già constatato come l’industria bellica, per lor signori, rientri nella prima categoria.
L’RWM è sembrata, in un primo momento, andare in controtendenza rispetto a questa decisione annunciando uno stop temporaneo alla produzione: un atto di responsabilità, in quanto lo stabilimento di Domusnovas è classificato ad alto rischio di incidente rilevante, ed un incidente in questo periodo di grande emergenza caricherebbe il sistema sanitario locale di un peso insostenibile. L’annuncio è stato subito rilanciato ed amplificato da vari media, assieme alla notizia che mascherine e vari dispositivi di protezione sarebbero stati donati dall’azienda ad ospedali e forze dell’ordine. Insomma, dei benefattori.
Se non avessimo fatto nostro l’adagio di Sun Tzu potremmo anche fermarci qui ed occuparci di altro; invece, ancora una volta, occorre guardare più in profondità.

Innanzitutto, il Piano di Sicurezza Esterno dello stabilimento è obsoleto: è scaduto otto anni fa e non è mai stato aggiornato, e nella sua ultima versione fa riferimento ad una realtà con ipotesi di produzione prevalentemente civile – il che rende la prospettiva di un incidente ancor più tragica di quanto già sarebbe normalmente. In secondo luogo, l’attività dell’azienda non si è fermata: proseguono, infatti, le operazioni di ampliamento che interessano soprattutto il vicino comune di Iglesias. L’ampliamento in questione corrisponde alla creazione di una nuova linea produttiva, di capacità superiore a quella già esistente, di un nuovo reparto di assemblaggio e caricamento di munizioni, e di altri locali che avranno funzione prevalentemente logistica.
Non si tratta di marginali modifiche, ma di un raddoppiamento della capacità produttiva, la cui realizzazione peraltro, con immensi scavi e la creazione di terrapieni artificiali, sconvolgerà il profilo dell’ecosistema circostante in maniera drammatica.
La richiesta originale risale ormai al 2017 e, da allora, prosegue in maniera “opaca”: essa avviene infatti attraverso piccole, mirate richieste fatte ai comuni di riferimento, i quali serenamente approvano ogni singola istanza della fabbrica. Invece di presentare un progetto complessivo (dal quale emergerebbe la necessità di più avvedute verifiche in vista di un mutamento paesaggistico così rilevante, in un’area considerata oltretutto di interesse pubblico e classificata come “boschiva”), RWM parcellizza la richiesta di autorizzazione sminuzzandola in mille rivoli. Ed ecco il colpo finale: solo nel mese di marzo, in piena emergenza sanitaria e sociale, il comune di Iglesias ha velocemente approvato ben otto di queste richieste.

Tutto questo ad oggi è stato denunciato da vari comitati ad associazioni che si muovono su base locale e nazionale (qui ad esempio il comunicato di Italia Nostra), e non ha certo ottenuto dai media la stessa risonanza accordata invece agli annunci parziali dell’azienda. Alcuni di questi gruppi sono promotori di un ricorso al TAR il cui obiettivo è quello di bloccare l’intero ampliamento, dunque le varie autorizzazioni concesse dal comune arrivano in un momento in cui sull’opera complessiva pende ancora il giudizio di legittimità.

La sfacciataggine di RWM non ci stupisce, ma di certo non ci lascia indifferenti.
Abbiamo di fronte un nemico cinico e senza scrupoli: non ci aspettiamo nessun ravvedimento da parte di questi assassini in giacca e cravatta, men che meno ci lasciamo incantare dalla loro carità.

Folate di ribellione

I mercati, quasi vuoti per l’ingordigia dei commercianti, i quali nascondevano la merce con la speranza di continui aumenti non garantivano più al desco proletario il necessario per vivere.

Le lunghe ed interminabili file che le donne erano costrette a fare per procurare qualcosa da mangiare alle loro famiglie, il più delle volte restavano senza potersi rifornire per l’esaurimento del genere in vendita e ritornavano a mani vuote alle loro case.

Non poche volte s’inveiva con epiteti poco riguardosi verso le Autorità, preposte per il buon ordine… delle file.

Questo stato di cose determinava una situazione insostenibile. S’incominciò a forzare qualche negozio e vuotarlo letteralmente. Tale movimento riscosse la simpatia generale del popolo il quale, riversato nelle piazze, dava il basta, all’aumento dei prezzi. L’assalto ai negozi si generalizzò ed in alcuni centri i soldati facevano causa comune con il popolo.

Il governo, per sedare i tumulti e mantenere l’ordine, non potendo contare sull’esercito, doveva usare la P.S., i Carabinieri e la Finanza.

Con queste parole l’anarchico veronese Giovanni Domaschi in un suo manoscritto descriveva la situazione postbellica in Italia dell’anno 1919. Uno scenario non molto lontano da quello che potrebbe accadere con l’erosione costante dei salari, dei soldi in banca delle famiglie, con la perdita del lavoro di migliaia di persone. Purtroppo oggi la causa comune con i militari dell’epoca non ci sarà, non si può fare. Ora i militari sono al fianco delle Autorità, sono professionisti ed addestrati a sopprimere i sussulti dei poveri in mezzo mondo. Quel periodo dopo il 1919 in cui i soldati – principalmente operai e contadini che presero coscienza sulla loro pelle di cosa vuol dire la guerra, la fame e gli interessi della borghesia – erano istintivamente vicini a quelle persone che potevano essere i loro cari in altre zone della penisola disastrata dal dramma della Prima guerra mondiale.

Quello che invece sta già accadendo è l’aumento dei prezzi di frutta e verdura come annuncia la Coldiretti, con conseguenza che quello che è successo a Palermo qualche settimana fa ritorni molto presto a succedere, cioè persone che si organizzano per espropriare i negozi in mancanza di soldi per pagare gli affamatori della grande distribuzione alimentare che in questo momento continuano a riempirsi le tasche con i soldi della gente. Questo sta già avvenendo in altre parti del mondo come in Sudafrica o Messico, dove le persone, oltre ad essersi ribellate alla polizia per le restrizioni imposte, hanno approfittato del momento collettivo per riprendersi il necessario per cibarsi o per raggranellare qualche soldo vendendo la merce rubata.

È evidente che la necessità della sopravvivenza ad un certo punto coccia con la tutela dal virus. O ci si protegge dal virus o ci si organizza per non morire di fame. Finché non si riuscirà ad elaborare proposte, a far prendere coscienza, che solo dalle persone che stanno subendo questa situazione si può articolare metodi diversi da quelli restrittivi ed affamatori previsti dai tecnici dello Stato e dai padroni, si creeranno situazioni di questo genere. Domaschi non ci descrive come all’epoca le persone affrontarono l’influenza spagnola che creò molti più lutti del virus di oggi. Situazioni diverse ma riportate nelle rispettive epoche possono trovare alcune somiglianze.

Quello che è evidente è che tra le necessità delle persone e la tutela sanitaria interferisce lo Stato con le sue ordinanze e propagande, ma soprattutto la presenza in varie forme dei suoi servi e tutori del suo ordine.

Ecco allora che un po’ ovunque emerge rabbia ed insofferenza. Dalle scritte esplicite di Cagliari davanti al Commissariato di Sant’Avendrace, passiamo alla sassaiola dai balconi in Via Grimaldi a Catania dopo un fermo di polizia. Oppure agli attacchi più organizzati contro la polizia in Francia nei dintorni di Parigi e Lione, dove in modo diverso ma simile gli uomini in divisa sono stati adescati da decine di persone e presi a sassate con relative barricate, oltre che aver sparato fuochi d’artificio contro gli elicotteri che controllavano la zona rivoltosa.

Continuando con le rivolte in strada, quella più “grave” è legata ai fatti di Anderlecht, dove un ragazzo in motorino per sfuggire ad un posto di blocco si è dato alla fuga con relativo inseguimento finito tragicamente dopo che una pattuglia la ha fatto schiantare sulla propria auto. Ma questa volta non è rimasto senza risposta quello che per molti è un assassinio. Centinaia di persone tramite dei tam-tam si sono ritrovate in piazza appositamente per far capire a questi assassini che questi fatti non rimarranno impuniti. La morte di un giovane, come altre volte è successo, accende l’odio per la polizia la quale, in questo caso, subisce l’incendio di vari mezzi e la sottrazione di un’arma da fuoco. Decine di persone nelle ore successive alla rivolta vengono arrestate, ma questo per noi è secondario. Sarà l’esperienza a far sì che le persone che si organizzano non vengano individuate dagli spioni con conseguenti arresti. L’illegalità in questo caso è sinonimo di libertà; senza ribellione, senza incontro tra le persone non si farà fronte ai futuri accadimenti che raccontavamo più sopra. Per inciso questo non vuol dire non prendere le dovute precauzioni per tutelarci in senso sanitario per questo sul foglio n°4 di Cronache dallo stato di emergenza, nello scritto Ne parleremo a lungo, si rimanda agli anni ’70 in cui le persone dei quartieri discutevano direttamente ed attivamente con il personale sanitario. Discussioni da non delegare alle istituzioni che stanno e faranno sempre gli interessi di altri e non degli sfruttati.

Ma tornando all’ostilità alla polizia legata alla emergenza in corso, ecco che non si esauriscono le rivolte per far uscire i problemi degli ultimi dimenticati ed inascoltati. Dopo le costanti e attuali proteste nelle varie carceri su e giù per lo stivale, anche gli immigrati reclusi danno fuoco a quel poco che hanno per spingere chi di dovere a fare i tamponi per capire la gravità della situazione, come è successo a Roma il 14 aprile in un CAS.

Per finire passiamo a come degli assembramenti sono stati repressi negli ultimi giorni. A Francoforte il 5 aprile circa seicento persone si sono radunate per dare visibilità alla grave emergenza sanitaria nelle isole greche, dove migliaia di immigrati sono reclusi nei lager a cielo aperto finanziati dall’UE. La polizia aveva l’ordine di sciogliere la manifestazione, e le persone sono state in contatto le une con le altre solo nel momento in cui la polizia ha attaccato la manifestazione pacifica. Intervento duro e senza mezzi termini.

Ma forse quello che è più emblematico del futuro prossimo è quanto è accaduto a Bolzano. Un flash mob che è stato lanciato contro le misure restrittive della quarantena ma che non aveva intenzione di andare contro le attuali ordinanze. Semplicemente le persone che volevano partecipare a questa iniziativa volevano far emergere tutta una serie di problematiche legate alle restrizioni imposte dallo Stato e dai governatori locali. Ebbene una ragazza che non ha fatto altro che girare tramite cellulare il testo di questa iniziativa si è trovata in casa la polizia intenzionata a sequestrale il cellulare per capire chi aveva lanciato l’iniziativa e cosa doveva succedere nelle strade della città.

Dietro questo fatto si possono fare svariati ragionamenti: si potrebbe divagare dal controllo tecnologico alla mancanza di diritti di espressione del proprio pensiero e così via. Il succo che ne traiamo è molto semplice. Chi vorrà organizzarsi per fare dalle semplici iniziative dovrà prendere tutta una serie di accortezze, e le persone che fino ad ora sono state assenti dalle lotte dovranno acquisire metodi fantasiosi per sottrarsi ai controlli e alla repressione della polizia.

In questo la presenza di compagni e compagne, tramite le proposte, le esperienze, l’esempio è necessaria non solo per coltivare l’ostilità contro le Autorità; non solo per proporre ed intessere progetti di autoproduzione, autogestione e solidarietà come è successo in questi giorni sotto alle carceri in varie città, ma anche per affinare assieme agli sfruttati metodi di espropriazione per le esigenze di vita, nonché di autodifesa. Senza nulla togliere all’intervento autonomo e diretto, è necessario anche stare al fianco degli sfruttati, in una solidarietà concreta che porti a sbocchi di liberazione vera da chi ci sta ammalando, affamando e reprimendo.

Folate di ribellione

Un tentativo di evasione in ritardo

La follia ha preso in mano le redini del mondo. Certo si potrebbe sostenere che non si tratta di una prerogativa del postmoderno, forse si assiste solo al ritorno del Licurgo, che per i suoi misfatti avrebbe perso il senno e avrebbe ucciso il proprio figlio e tutta la sua famiglia, o, a scelta, tutta la sua cerchia di amici, per poi giudicarsi. Oppure, qua le tradizioni divergono, sia stato successivamente catturato dal popolo indignato e poi squartato. In entrambi i casi, la follia si diffonde, raggiunge il tuo prossimo, coloro che appena ieri ti stavano più a cuore o in cui riponevi le tue speranze.

Ciò che è nuovo ed evidente della follia che ora sta imperversando nel mondo è la velocità con cui essa imperversa, superando tutti i confini e sopraffacendo il virus che l’ha introdotta nel mondo (o che l’ha semplicemente riportata in superficie, le opinioni su questo sono divergenti). Si potrebbe sostenere, non c’è bisogno di dirlo, che la vera pandemia sia la follia che si è impadronita delle persone. La sottile facciata della civiltà crolla nel giro di pochi giorni, direttive e narrazioni, apparentemente prerogativa di dittatori e despoti, vanno diffondendosi nelle cosiddette democrazie occidentali. Selezione dei malati, sorveglianza di tutti i movimenti all’aria aperta, droni che sorvolano le grandi città, furgoni con altoparlanti per le strade deserte che invitano gli abitanti a rimanere nelle loro case. Chi osa uscire all’aria aperta, fintanto che sia ancora permesso, guarda dentro occhi in preda al panico, in volti velati a stento, tutti si chinano e si affrettano. A chiunque stia ancora eretto, gli faranno passare la voglia.

Ma la gente ha anche bisogno di uscire all’aria aperta, ad esempio a Berlino, per lavorare, naturalmente, ma anche per allenarsi un po’ o per fare qualche giro in tondo. Esattamente quegli unici diritti che ancora rimangono a chi viene sbattuto in prigione. E così si gira in tondo per il cortile della prigione, a coppie, e ci si scioglie per la commozione quando il Senato annuncia di non voler essere così, che in futuro ci si potrà sedere un po’ sulla panchina. E tutti plaudono e applaudono la magnanimità dei condottieri dello Stato, e quando poi dice che adesso tutti dovranno uscire nel cortile della prigione con una maschera sul viso, che le ipotesi scientifiche sull’efficacia di tali misure hanno subito un ‘inversione di 180 gradi in una notte (sapete com’è nella scienza, un momento fa il mondo era ancora un disco e quelli che sostenevano il contrario sono stati tutti squartati, ma poof, la questione appare adesso completamente diversa), allora si applaude ancora. Punto. E se lo Stato è troppo stupido per riuscire ad ottenerne abbastanza di questi articoli da quattro soldi o per impedire che gli americani se li portino via, allora si fanno in casa a più non posso, con la sinistra avanti a tutti, che naturalmente era già in prima linea con le sue istruzioni per il fai-da-te. In ogni caso, il risultato finale è lo stesso. Non importa se li costruisci da solo agli arresti domiciliari o se lasci che i galeotti li producano nelle prigioni vere, quelle tradizionali.

E dove ci si è finalmente messi comodi nella speranza regressiva che quelli là in cima si prendano cura di tutti noi e che sia effettivamente atteso che il Feuerzangenbowle venga ripetuto in loop, arrivano alcuni facinorosi. Sostenendo che l’insieme delle cifre su cui si basano le misure dello stato di emergenza è puramente ipotetico e che certi diritti di libertà dovrebbero essere difesi. Tanto più che non è ancora scontato che le misure adottate saranno efficaci. Presentano le proprie ipotesi e i propri dati e hanno l’impertinenza di far notare che loro stessi sono esperti del campo e hanno anche una certa reputazione.

Ma con la mamma e col fidato RKI non si scherza. Soprattutto non con l’Istituto Robert Koch e la sua direzione, che all’inizio di Marzo aveva dichiarato che “il pericolo per la salute della popolazione in Germania è attualmente valutato come moderato” e continua a considerare il virus dell’influenza come più pericoloso. Ma dell’inversione di 180 gradi ne abbiamo già parlato sopra. E una volta che l’hai fatto, bisogna apparire ancora più accurati, altrimenti la gente potrebbe ricordarsi delle sciocchezze che hai detto.

La fronte severamente forma delle rughe, i dubbiosi vengono messi al loro posto e il sano sentimento popolare urla: “Assassino, assassino”, come se gli scienziati rinnegati, con le valigie piene di virus, girassero per le case di riposo e di cura a infettare i poveri indifesi che vi si trovano. E davanti, la sinistra e i suoi media, dalla taz alla ND, predicando sottomissione e ranghi saldamente uniti. E, nel mezzo, la bolla della scena extraparlamentare. Eh, tutto già solo alibi e inutile discorso sulla discussione, subito adattabile a discussione su una funzione matematica.
Ma come uscire dal pasticcio, e ci sarà un mondo dopo il delirio e, soprattutto, ci si vorrà vivere dentro? I compagni del Collettivo Wu Ming, bloccati agli arresti domiciliari da diverse settimane, si sono recentemente chiesti: “E per quanto riguarda la prossima epidemia, cosa faremo?” Perché arriverà. A meno che le condizioni di base che hanno reso possibile questa pandemia, non vengano radicalmente messe da parte. Ma questa lotta non può essere combattuta se noi, che siamo (diventati, forse vi ci eravamo pure abbandonati una volta) resistenti alla follia, non possiamo incontrarci e organizzarci. Forse sarà necessario prima ottenere piccoli successi tattici. Le azioni nei sobborghi francesi contro il divieto di uscire ne sono un esempio. Mantenere un conflitto (con gli sbirri) a fuoco lento, in modo che l’avversario cerchi o un confronto totale (con il pericolo che le cose si mettano male per lui), o si ritiri parzialmente (come è stato fatto, seguendo ordini da molto in alto).
L’operato degli sbirri a Kotti contro l’azione di 100 persone il 28.3. ha anche mostrato che pure il nostro avversario non è sicuro sul da farsi, altrimenti avrebbe proceduto molto più duramente. Finora gli sbirri e gli altri organi repressivi hanno la situazione ben sotto controllo, ma anche per loro la sorveglianza e il controllo di una città di 3 milioni di abitanti in stato di emergenza è uno scenario completamente nuovo. Osserveranno sempre come si sviluppa l’umore, e forse piuttosto si ritireranno prima del solito per evitare, a differenza di quanto avviene normalmente, un’escalation. La città (e gran parte del mondo, naturalmente) è ancora governata dal delirio e dalla sottomissione, ma quando la paura si placherà (e questa è una legge naturale di una reazione collettiva al panico), ci sarà spazio di manovra. Gli innumerevoli primi scontri nei paesi del Trikont ne sono un segno. Forse il 1° maggio (per la prima volta dopo molti, molti anni) sarà un luogo dove occupare il territorio, per allearsi con chi anche ha costruito una resistenza contro la follia. Vale la pena provare. Sembra che la prima rigidità dello shock sia stata superata, si possono trovare i primi riferimenti che cercano di analizzare la situazione e ne traggono i primi passi.
In questo contesto, una traduzione dall’Italia, che chiede una rottura di massa agli arresti domiciliari nell’anniversario della liberazione dal fascismo, il 25 aprile.

Ein überfälliger Ausbruchsversuch

Dietro l’angolo Pt.2 – Qualche ipotesi su covid 19 e sul mondo in cui vivremo

La retorica di un crescente benessere che il capitalismo avrebbe pian piano assicurato un po’ a tutti, è ormai morta e sepolta da tempo.
L’immagine con cui le autorità hanno tentato di rappresentare il mondo riservato alla gran parte degli uomini e delle donne, è diventata più simile a una scala a pioli, cui bisogna tentar di restare aggrappati con le unghie e coi denti, per evitare di cadere giù ai tanti scossoni che le vengono dati.
Una scala cui continuano a togliere punti d’appoggio, mentre aumenta il numero di uomini e donne in cerca di un appiglio. La prepotente entrata in scena del Covid19 minaccia di renderla ancor più carica e traballante.
Tenteremo di approfondire la questione in un testo che uscirà a puntate, una a settimana, in cui se ne affronteranno di volta in volta alcuni specifici aspetti. Un testo redatto a più mani, da alcuni compagni che partecipano alla redazione di questo blog e da altri che invece non ne fanno parte. I singoli capitoletti potranno quindi avere uno stile e magari dei punti di vista diversi o contenere delle ripetizioni.
Del resto le possibilità di confrontarsi collettivamente in questi giorni sono notevolmente ridotte e discutere attraverso piattaforme online non è certo la stessa cosa che farlo vis a vis.

Cablaggi di Stato

Nella crisi sociale attuale la domanda che maggiormente sembra assediare milioni di individui asserragliati è quella su cosa accadrà dopo che la fase più acuta di emergenza sanitaria sarà finita. Il talismano naïf dell’andrà tutto bene non convinceva neppure all’inizio del domiciliamento, figurarsi dopo settimane in cui alla vecchia e nota miseria si sono aggiunte in un sol colpo le esistenze precarie di coloro che non hanno risparmi e le incertezze sul futuro dei “garantiti”, certamente ammaccati da anni di stagnazione ma finora mai privati del fine settimana in centro e delle ferie.

Un pensiero insidioso si è palesato sin da subito: l’affaire coronavirus non prevede un ritorno alla ‘normalità’ che lo ha preceduto. Se questa constatazione ormai radicata non può che essere foriera di una serie di inquietudini comprensibili e umane, non fosse altro per i piccoli sprazzi di bellezza che ciascuno tratteneva nella propria mesta quotidianità o per le rodate tattiche di sopravvivenza, i sovversivi non possono che tentare di vedere delle possibilità nella breccia inferta al Moloch che fino qualche mese fa sembrava non poter essere scalfito. Del resto la consapevolezza che la normalità pre-pandemia sia stata il problema primario non è più appannaggio di sparuti gruppi di sognatori.

Per far sì che non ci si fermi alle consapevolezze sarà però necessario fare i conti con la velocità con cui lo Stato potrebbe riorganizzare la sua riproduzione o di alcune sue propaggini “strategiche”, adattarsi ai nuovi scenari e affinare i propri strumenti. In questo senso, per rispondere alla domanda su cosa avverrà dopo, già si sono tenute numerose tavole rotonde tra governo e amministrazioni locali per la concessione di poteri extra-ordinari e la ridiscussione degli ambiti politici. Contrattazioni politiche, negoziazioni e redistribuzioni di potere, elementi complessi già da tempo sul piatto del federalismo fiscale, ora assumono la dimensione di vera e propria frizione tra alcuni presidenti di regione e il governo centrale. In una disputa su chi applica misure maggiormente adeguate, molti amministratori locali hanno imposto per il contenimento del virus più restrizioni o persino dettami diversi rispetto a quelli dei decreti-Conte, basti pensare alle zone rosse comunali o sistemi di lockdown più ferrei in alcuni territori. Se questo modus operandi si presenta a un primo livello come mossa di governance necessaria nell’emergenza che ha coinvolto in misura differenziata il paese, non si può pensare che non avrà ripercussioni politiche durature e di vasto campo. La richiesta di “pieni poteri” fatta dal piemontese Alberto Cirio, esautorata in lungo e in largo come un’esagerazione, è sicuramente più di un’esternazione mal riuscita. La forte rilocalizzazione politica avvenuta negli ultimi anni, specie per quanto riguarda le principali città, è stata già normata dagli ultimi decreti legge sulla sicurezza. Al ruolo dei sindaci-sceriffo o ai poteri aggiuntivi dati ai prefetti potrebbero presto aggiungersi quelli alle Regioni per far fronte alle varie “calamità naturali”. Poteri che, come ci insegna questo virus, saranno sempre meno basati sulla prevenzione generale per volgersi verso il governo del rischio. In un mondo di incertezza fisica ed economica, il contenimento e lo spostamento straordinario di masse umane per ragioni non più presentate come politiche e con cause rintracciabili, ma di forza maggiore e con un certo fatalismo (malattie, terremoti, crolli, valanghe, innalzamento dei mari), potrebbero entrare come strumento indispensabile nella cassetta degli attrezzi degli amministratori dei territori considerati particolarmente a rischio.

La ridefinizione degli ambiti di governo si inserisce in ristrutturazioni di altro livello in nuce già da tempo. I cambiamenti nel campo della cittadinanza e missione etica dello Stato non tarderanno a evidenziarsi infatti come il più grande sconvolgimento sul lungo periodo e la definitiva fine della modernità.

Negli ultimi anni abbiamo già intravisto un riposizionamento dei confini dell’universalità della tutela dello Stato rispetto a qualche decennio fa. Sappiamo bene come l’accessibilità ai diritti ha sempre risposto a criteri immanenti al ruolo che gli individui svolgono nella valorizzazione del capitale e all’esigenza che ne consegue di interiorizzazione di un sistema di norme basato sulla dicotomia inclusione/esclusione, tuttavia non si può negare come in buona parte del‘900 lo stato sociale sia stato una coperta ampia. Da lì tutta la retorica sull’universalità del diritto al benessere e alle pari opportunità di riuscita sociale garantite da uno Stato finalmente nel suo ruolo di padre di famiglia. Retorica questa che nello stesso momento in cui veniva sbandierata dalla sinistra, era già in procinto di essere spaccata pezzo a pezzo attraverso riforme, riformine e riformette.

L’apoteosi di questa sottrazione inesorabile si è avuta nel passato recente quando i vari diritti raccontati come conquiste si sono trasformati in ambiti di sempre maggior esclusività il cui ingresso, che sia in un’università, in una clinica o in una casa di proprietà, non è che la soglia che divide i cittadini che contano qualcosa, perché profittevoli o particolarmente devoti, dalle masse di individui che accedono ai servizi di welfare ormai solo occasionalmente. L’esempio più lampante è giustappunto quello della sanità pubblica, in cui la possibilità di riuscire a prenotare visite specialistiche è così ridotta da costringere le persone a utilizzare, in caso di aggravamento, i servizi d’emergenza del pronto soccorso.

Questo dimostra che lo Stato nelle sue compagini non è un risultato definitivo, come l’immaginario da fine della storia ha imposto a lungo, ma un continuo scontro di forze reali di cui la democrazia liberale degli ultimi quarant’anni è solo un risultato che ha incluso anche il contentino modestamente generoso dato ai vinti dell’assalto al cielo. Generoso proporzionalmente al rischio sventato di un sovvertimento generale. Non ci porterebbe molto lontano farci cullare dalla retorica dei diritti sociali negati. Non è che una preghiera lamentosa recitata a un dio che ha concesso la manna dal cielo solo quando il rapporto di forza strappato coi denti dagli sfruttati rischiava di mordergli anche il culo. Non essendosi riproposto per decenni quel pericolo alle calcagna, sventato lo scontro sovversivo, lo Stato ha semplicemente riposizionato le sue risorse tra le componenti padronali che gli esercitano maggior pressione, lasciando echeggiare nell’aria solo un piagnisteo socialdemocratico che implora per un diritto ormai solo nominale.

Le difficoltà crescenti nel mondo degli esclusi e di coloro che si trovano nella zona grigia del rischio di povertà non sono tuttavia per le istituzioni un problema di poco conto. La realtà materiale della società è ciò a cui guarda l’ordine prettamente repressivo attraverso la sfera penale. Il nemico per lo Stato ha acquisito nella confusione sociale e nell’indeterminatezza economica del nuovo millennio dei tratti meno identificabili, non più solo quelli del sovversivo, dello sfaccendato o del vagabondo. La ricerca dello sfuggente fattore criminogeno, lungi dall’essere una procedura speciale di polizia, è la stessa che blinda con checkpoint gli eventi urbani, controlla scrupolosamente ogni angolo con la videosorveglianza, presidia permanentemente determinate zone con forze di polizia: è la società stessa ad apparire come pericolosa perché per di più composta da individui non più normati da un lavoro stabile, da una fede partitica o dalla morale del vangelo, non più accompagnati con attenzione da strutture socio-sanitarie o dagli altri sistemi di welfare che ne consentivano la riproduzione in quanto lavoratori e il ricatto in quanto esistenze senza più autonomia.

I sistemi forti di welfare sono quelli che in passato hanno avuto il ruolo di accompagnamento più significativo alla sicurezza sociale, come controllo ramificato della popolazione che agiva ben prima della galera. Lavorare per pagare mutuo e macchina, la certezza di cure serie e costanti, il sogno dell’ascensore sociale per la prole e di una vecchiaia retribuita sono parti di un percorso preciso e ordinato che più generazioni hanno attraversato.

A questo paradigma preciso si è contrapposto quello delle ultime generazioni, non più irregimentate da una promessa di vita stabile e senza mappa per il futuro. L’indeterminatezza sociale è del resto ciò che ha alimentato negli ultimi anni il crescente ruolo della polizia e le legislazioni sulla sicurezza, atte a proteggere dal pericolo rappresentato dagli impoveriti e dagli sfiniti le zone ritenute strategiche per l’economia e per il suo ambiente (centri città, dipartimenti infrastrutturali o industriali, quartieri dei ricchi, parchi naturali protetti).

Da tutto ciò si evince che lo spazio di cittadinanza in cui è piombato il Covid-19 era nella sua sostanza già notevolmente riconfigurato. L’epidemia sembra imponga un momentaneo cortocircuito, e ciò che pare importi generalmente a tutti è la sua fine. Se in questo momento lo Stato si propone nuovamente come il soggetto impegnato a fronteggiare una minaccia universale, si può immaginare che fra poco potrà apparire come colui che ha fatto il necessario o, ancora peggio, l’inevitabile.

Come scrivevamo il cosiddetto governo del rischio, con il suo portato di fatalismo e il suo giustificarsi attraverso forze di causa maggiore, riammanta la legittimità statuale dei suoi significati più antichi per quanto riconfigurati.

E gli esempi ungheresi e sloveni sbiadirebbero, nella loro piccolezza, di fronte ad uno Stato che esercita i suoi poteri non più camuffato dietro il consenso o la rappresentanza democratica ma nuovamente votato alla missione etica della sopravvivenza.

In quest’ottica l’ordine sovrano, in linea con la tendenza degli ultimi anni, si potrebbe applicare come il riconoscimento di cittadini ai soli occupati, per tracciare una linea di inimicizia formalizzata, militare, spaziale e di controllo per tutti gli altri.

Per chi ancora si ricorda dell’assalto al cielo sarebbe la conferma di un fronte di guerra che prima sembrava più rarefatto e che ora si farà più netto e preciso.

Se vi siete persi la prima puntata di Dietro l’angolo potete leggerla cliccando sotto.

Tra salti e accellerazioni. A mo’ d’introduzione.

Dietro l’angolo Pt.2 – Cablaggi di Stato

La pandemia della paura

C’era uno slogan anarchico che mi piaceva particolarmente e che recitava grosso modo così: “Una società che incarcera è essa stessa un carcere”. Questo oggi è più vero che mai e al tempo del Covid-19 si può ben dire che non c’è più alcun dubbio sulla reale natura di tutte quelle strutture della civiltà che oggi si sono dimostrate delle vere e proprie gabbie e dei sistemi oppressivi come la città, lo stato, l’esercito, le tecnologie e la scienza. Nulla si può scindere dall’attuale sistema di dominio, sono tutti tasselli che compongono un unico quadro che oggi si è mostrato in tutta la sua terrificante realtà. Risulta così, ormai evidente, che tutto quello che sta succedendo non è semplicemente un’”emergenza” sanitaria, ma una riorganizzazione in chiave tecnico scientifica delle nostre vite, per costruire quel mondo nuovo che non ha più bisogno di esseri umani, ma di ingranaggi della Megamacchina, un mondo di perfetti ammalati alla continua dipendenza delle droghe
vendute e commercializzate da Big Pharma!

«La piena realizzazione di noi stessi inizia col riconoscere ciò che non siamo»
Laurens Van Der Post

In questi anni l’idea chiara che mi sono fatto è che la civiltà sia un’incubatrice, che la malattia e il deperimento dei nostri corpi siano un sacrificio che dobbiamo compiere sull’altare del progresso e della modernità. Abbiamo imparato, e siamo stati condizionati molto bene in questo, che andare avanti, sognando un futuro migliore, è l’unica cosa che conta, ma nessuno ci ha mai detto che per fare ciò dobbiamo immolare la nostra sanità mentale, la nostra felicità e tutte quelle capacità umane che da sempre ci hanno  contraddistinto come specie e che ci hanno permesso di apprezzare le piccole cose della vita e di essere felici, nonostante tutto.
I Boscimani, che erano una tribù indigena di cacciatori-raccoglitori (parlo al passato perché ciò che di loro è rimasto oggi non fa onore alla storia millenaria di questo popolo), diceva con ostinazione che la verità, il bello e le più grandi risposte della vita andavano ricercate nel piccolo, in ciò che appariva “inutile” o “di poco conto”. Ecco allora come Laurens Van Der Post, ispirato dai tantissimi anni trascorsi con i boscimani, potè scrivere le seguenti parole: «le loro azioni [degli uomini sulla terra] erano come luce delle stelle, si
concretavano al momento in cui erano compiute, ma il loro significato, la luce che consisteva nel loro scopo, la loro essenza, richiedeva anni per affiorare alla coscienza, per non parlare poi di attingere la chiarezza nello spirito umano. Era impossibile vivere, quindi, senza mostrare una grande reverenza nei confronti di ciò che era piccolo. […] Il significato di ciò che è grande poteva inverarsi solo in quanto era significativo nel
piccolo» i .
Ecco allora che oggi, al contrario dei Boscimani che guardavano al piccolo per godere della vita e assaporare la semplicità della loro esistenza, siamo costretti a guardare al nostro passato, ad analizzare ogni piccolo segno, ogni passo fatto, per renderci conto che tutto quello che viviamo oggi non è altro che il prodotto di errori su errori, di devastazioni dopo devastazioni, di pezze messe su ferite che non sono mai riuscite a rimarginarsi, ma che noi abbiamo creduto di poter curare con sempre nuove tecnologie, nuova scienza,
nuove forme di governo non riuscendo a capire, nella nostra cecità, che il problema era un altro, che questi non erano che i sintomi di una malattia molto più profonda e lacerante.

«Un’occhiata alle città tutte identiche che stiamo costruendo dappertutto nel mondo
dovrebbe essere sufficiente a dimostrare che questo genere di progresso è come il
proliferare di una singola cellula a spese di tutte le altre, la cellula che produce il cancro
che poi uccide l’intero corpo».
Laurens Van Der Post

Il passaggio probabilmente cruciale nella nostra storia è rappresentato dallo stanziamento e da tutto quello che questa “scelta” ha comportato in termini di dominio, potere, addomesticamento, controllo, sfruttamento e mercificazione della natura. Indubbiamente, al di là del pensiero con la quale ognuno può valutare se sia stata una scelta secondo lui giusta o meno, è da questo momento che fanno la comparsa gli stati, gli eserciti, il potere e cioè tutte le forme patologiche di dominio, ma non solo. È sempre da questo momento e cioè da quando abbiamo deciso, di ammassarci in città, di vivere a diretto contatto con gli animali addomesticati, di coltivare e disboscare zone sempre più vaste, che sono insorte quelle che oggi chiamiamo malattie!Tutto questo non è sempre esistito e bisogna dirlo e urlarlo a gran voce soprattutto oggi che questa è la causa della prigionia forzata di tutta la specie umana civilizzata, dall’Italia agli Stati Uniti, dalla Corea ad Israele, dalla Spagna al Libano. Indipendentemente dalle cause di quella che oggi viene definito Covid-19, che ieri si chiamava SARS e che domani avrà necessariamente un altro nome per le stesse paure, non cambia ciò che è sotto i nostri occhi e cioè il fatto che è la civiltà, il nostro stile di vita, la causa di tutto ciò.
Jared Diamond sotto questo punto di vista, in “Armi, Acciaio e Malattie”, l’ha spiegato in maniera molto chiara scrivendo che: «i peggiori killer dell’umanità nella nostra storia recente (vaiolo, influenza, tubercolosi, malaria, peste, morbillo e colera) sono sette malattie evolutesi a partire da infezioni animali» ii . Diamond continua poi dicendo: «gli insediamenti agricoli attirarono i roditori, che sono notori veicoli di malattie. Il disboscamento, infine, rende l’habitat ideale per il prosperare della zanzara anofele che porta la malaria. Se la nascita dell’agricoltura fu una festa per i nostri microbi, l’arrivo delle città fu addirittura la manna dal cielo: in città c’erano molti più ospiti potenziali, e in condizioni igieniche ancora peggiori. […] Un altro momento di gloria nella storia dei germi fu l’apertura delle rotte commerciali, che trasformarono i popoli d’Europa, Asia e Nord-Africa in un gigantesco banchetto per microbi» iii .
Che forse tutto questo non possa essere trasposto qui, oggi, per analizzare il “cattivo” virus del Covid-19? Forse che i più grandi focolai non sono le zone più densamente abitate e più inquinate dei paesi colpiti? Forse che il veicolo attraverso il quale tutto ciò ha assunto caratteri planetari non sia dovuto al fatto che la globalizzazione dell’economia è arrivata a colonizzare ogni angolo di questo mondo? È davvero tutta colpa della “natura cattiva” come da sempre dicono?
Quella che viene combattuta (per usare il gergo militare e scientifico che piace tanto ai lor signori) oggi negli ospedali è una battaglia persa. Non si potrà mai risolvere un problema partendo dall’effetto e quello che in questi giorni viene ripetuto ovunque è che “andrà tutto bene” e che “tutto si risolverà per il meglio”, ma perché dovrebbe essere così?
Quello che sta succedendo sembra avere più a che fare con un progetto politico che con un’emergenza sanitaria. Sembra che qui a voler essere estirpata sia l’umanità piuttosto che una malattia che, nata in seno a questa civiltà, non ha fatto altro che approfittare del terreno fertile sul quale si è posata per diffondersi in tutto il globo.

«…mio caro Bernard, penso che abbiate ragione. Il terreno è ben più importante del
microbo. Il terreno è tutto, il microbo è nulla…»
(lettera di L. Pasteur a C. Bernard)

Quando però parliamo delle malattie non dobbiamo dimenticarci che se esse hanno avuto un terreno politico- sociale, che ha reso estremamente facile la diffusione delle epidemie, con le città e i grandi assembramenti urbani, questo però è stato reso possibile anche e soprattutto dall’influenza che l’agricoltura, attraverso il suo percorso di millenni, ha avuto nel rendere la specie umana più debole e di salute cagionevole.
Innanzitutto bisogna ricordare, e qui possiamo citare John Zerzan, che «l’agricoltura rende possibile una divisione del lavoro molto più marcata, fissa le fondamenta materiali della gerarchia sociale e dà inizio alla distruzione dell’ambiente. Sacerdoti, sovrani, corvè, discriminazione sessuale, guerre sono solo alcune delle immediate conseguenze specifiche» iv . Indipendentemente dal fatto che se ne voglia prendere atto o meno,
l’agricoltura (e l’allevamento), come dominio dell’uomo sulla natura, opera un profondo cambiamento non solo in termini di devastazione ambientale, ma agisce anche ad un livello inconscio e psicologico modificando il nostro modo di rapportarci sia con l’ambiente che ci circonda (trasformandolo in una merce dal quale trarre il massimo del profitto) sia influenzando i rapporti con gli altri che da quel momento non saranno più di cooperazione, ma si trasformeranno in rapporti coercitivi di potere e di conflittualità (la proprietà privata, diretta conseguenza dell’agricoltura e dello stanziamento, è emblematica a spiegare ciò).
La grande varietà di cibo, viene ripetuto come un mantra ormai addirittura anche dai medici, è fondamentale per mantenere un corpo in salute. Infatti una cosa è usare integratori, naturali o sintetici, di vitamine come surrogati dei cibi naturali (in questi giorni, ad esempio, i medici hanno scoperto l’acqua calda e viene consigliato di assumere vitamina D sintetica per rafforzare il sistema immunitario, quando basterebbe  invece violare questa stupida quarantena ed esporsi al sole primaverile!), un’altra è attraverso l’alimentazione fornire tutte le sostanze nutritive di cui il nostro corpo necessita.
Parlando così di alimentazione e di “terreni fertili” per lo sviluppo della malattie, bisogna notare che «se gli esseri umani del paleolitico godevano di una dieta estremamente varia, cibandosi di alcune migliaia di specie di piante, la coltivazione ha ridotto drasticamente queste risorse.» v e Zerzan continua, «la fine della vita del raccoglitore-cacciatore determinò un calo di taglia, statura e robustezza dell’apparato scheletrico e favorì il
diffondersi della carie dentale, delle carenze alimentari e di gran parte delle malattie infettive» vi . Se mettiamo quindi insieme queste conoscenze che ci derivano da molte fonti antropologiche e ascoltiamo ciò che ormai da due secoli ci dicono gli Igienisti, e cioè i rappresentanti della corrente dell’Igienismo Naturale, ci possiamo rendere facilmente conto di quanto fondamentalmente non sbagliano affatto quando essi dicono «il
virus è niente, il terreno è tutto».
Sì perché tutto dipende dal terreno bio-chimico sul quale i batteri si poggiano, se una persona è sana infatti, e per sana si intende una persona non stressata, che svolge attività fisica, che prende il sole, non assume droghe e farmaci vari e che si alimenta in maniera naturale e quindi senza cibi industriale e pieni di pesticidi, non si ammalerà. E questo non lo dico io, ma basta guardare alla storia dell’Igienismo che è piena di esempi e
dimostrazioni pratiche al riguardo. Bisogna poi ricordare anche che di batteri noi siamo fatti e che siamo da essi praticamente circondati in ogni momento della nostra vita convivendoci in maniera armoniosa e simbiotica.
Quindi oggi non si nega l’esistenza di persona ammalate e ricoverate negli ospedali, ma si vuole porre l’accento sul fatto che se ci sono così tante persone malate (e il Covid-19 probabilmente è solo l’ultimo dei problemi) è perché il nostro modo di vivere, di alimentarci, e di delegare la nostra salute a specialisti ci ha resi dei malati cronici incapaci di essere padroni delle nostre vite e di decidere della nostra salute.
Sempre citando Jared Diamond: «alla fine ci accorgiamo che solo una dozzina di specie vegetali costituisce più dell’80 per cento del raccolto annuo sulla terra: sono cinque cereali (grano, mais, riso, orzo e sorgo), un legume (la soia), tre tuberi (patata, manioca e patata dolce), due piante zuccherine (la canna e la barbabietola da zucchero) e una pianta da frutto (banana). I cereali forniscono da soli più della metà delle calorie consumate dalla popolazione mondiale».
Possiamo trovare altre conferme di questo degrado costante nella nostra alimentazione, che dagli albori dell’agricoltura ci ha portato fino ad oggi, nei resoconti di, ad esempio, Rooney che ci dice come i popoli preistorici trovavano sostentamento in più di 1500 specie di piante selvatiche; di Wenke che ci parla di come tutte le civiltà si sono basate sulla coltivazione di una o più specie di queste sei piante: grano, orzo, miglio, riso, mais e patata; e infine abbiamo Pyke che, senza tanti giri di parole, ci dice come nel corso dei secoli il numero dei diversi cibi commestibili che venivano e vengono mangiati è costantemente diminuito.
È evidente quindi come l’alimentazione moderna sia non solo costituita da cibi morti, inscatolati, conservati, edulcorati e colorati, ma anche molto poco varia e scarsissima di frutta, verdura, semi e soprattutto cibi selvatici (animali e vegetali) che da un punto di vista alimentare sono, senza ombra di dubbio, molto migliori rispetto ai loro discendenti addomesticati e resi più “appetibili” dopo anni di selezioni. Ci si ingozza poi prevalentemente di cereali e legumi alimenti che il nostro corpo molto spesso digerisce poco e male causando infiammazioni all’apparato digerente, fermentazioni e costipazioni che sono la causa di moltissimi mali odierni.
Non è stata però solo l’alimentazione a subire un processo di degradazione nel passaggio da uno stile di vita essenzialmente nomade di raccolta e caccia ad uno stanziale civilizzato, ma si potrebbe parlare a lungo del notevole calo di attività fisica fondamentale per il corretto funzionamento del nostro organismo, della minore esposizione ai raggi del sole che faticano ad entrare nelle città e ancor di più nelle nostre case, dello stress e
della paura che si sono impadroniti delle nostre vite e infine come non ricordare della degradazione spirituale dovuta ad una vita che impone la prevaricazione come mezzo per rapportarsi all’altro/a. Tutto ciò ha fatto di noi una specie perennemente ammalata, perennemente alla rincorsa di una felicità e di un benessere che non possono essere ottenuti se non attraverso la messa in discussione di tutto ciò che ci circonda. Tant’è vero che è sempre Zerzan che ci dice come «DeVries ha citato un’ampia serie di paragoni che permettono di constatare la superiorità dei raccoglitori e cacciatori in materia di salute, tra cui l’assenza di malattie degenerative e di infermità mentali, nonché la capacità di partorire senza difficoltà e dolore. Ha anche rilevato che tali caratteristiche tendono a deperire in seguito al contatto con la civiltà» vii e, continua Zerzan,«nel complesso, la dieta dei raccoglitori è migliore di quella dei coltivatori, l’inedia è molto rara e lo stato di salute è generalmente migliore, con molte meno malattie croniche» viii .
E proprio oggi, a conferma del fatto che Big Pharma non ha alcun interesse alla nostra salute, i diktat emessi a gran voce dagli altoparlanti del potere invocano la segregazione in casa, l’isolamento, la quarantena, l’astinenza dal sole e dall’aria pulita, il non contatto con gli altri. Ironico o grottesco?
Forse ci sarebbe bisogno di riflessioni maggiormente approfondite su ognuno dei punti sopra citati, ma come non fa a saltare subito all’occhio che in simili condizioni di isolamento e di allontanamento dai nostri bisogni fisiologici naturali e sociali, l’essere umano è perduto? Il contatto umano di un abbraccio, di un bacio o di una carezza, l’incrociare un viso sorridente (invece che coperto da una stupida e inutile mascherina), sono indubbiamente degli antidolorifici naturali che ci permettono, o per lo meno ci permettevano, ancora di vivere nonostante i disastri che attanagliano il nostro tempo. Per troppo tempo è stato sottovalutato questo aspetto, per troppo tempo abbiamo fatto finta di credere che quantità significhi qualità, quando invece i nostri antenati raccoglitori-cacciatori hanno sempre preferito la complicità di pochi individui, l’egualitarismo di
una piccola comunità, ai grandi numeri dei popoli civilizzati, e così oggi ci troviamo a questo disastroso punto, soli e isolati, in balia di chi specula sulla nostra vita e in preda ad una disperazione esistenziale e irrazionale.
Proprio a questo proposito forse basterà ricordare il fatto, narrato molto bene da Van Der Post, in cui i Boscimani del deserto del Kalahari, dopo aver passato tutta la vita dormendo sotto il cielo stellato del deserto e aver vissuto in totale libertà e comunione con gli altri membri della banda, una volta che subivano lo stanziamento forzato in comodi alloggi donati dal governo, essi si lasciavano morire non sopportando le privazioni di quel nuovo stile di vita. Preferivano la morte ad una vita in cattività! Tutto questo è indicativo del processo di addomesticamento e di deprivazione che anche noi ogni giorno subiamo, quando a causa di misure dittatoriali subiamo il confinamento in case che, per quanto siano confortevoli e sfarzose, sono pur sempre prigioni dalle quali non possiamo vedere le stelle, non possiamo toccare il prato e non possiamo stare a diretto contatto con i nostri conoscenti e amici più cari. A riguardo risultano laceranti e forse più chiare, perché arrivano direttamente al cuore, di molte vane parole, la descrizione che Van Der Post fa del suo amico, e guida, Boscimana Dabè: «le regole di comportamento europee che gli erano state imposte […] lo avevano solo reso profondamente triste, e aveva dato ai suoi occhi, quando non era occupato in qualcosa, un’espressione che non riuscivo a sopportare. […] Però, quando fu di nuovo con la sua gente aveva cominciato lentamente a cambiare. […] Il cambiamento si era dapprima manifestato con un aumento di fiducia. […] Poi cominciò a punzecchiarmi un po’, finchè un giorno rise» ix .
Ecco, la domanda da porci è: noi saremo ancora in grado di tornare a ridere dopo tutto questo? Saremo in grado di toglierci quella mascherina dalla bocca, di abbracciare i nostri cari, di non temere di contagiarci facendo l’amore e smetterla di avere paura l’uno dell’altro?
«La verità», recitava una vecchia canzone, «è che vorremmo innamorarci e non ammalarci». Ecco perché penso che l’umanità risulta evidentemente essere ammalata, questo è verissimo, ma non di Covid-19, non di obesità, non di cancro o chissà cos’altro, ma di civiltà, è lì che vanno ricercate le cause dei nostri mali odierni!

«La dimensione umana viene cancellata dai grattacieli, la deprivazione sensoriale si fa più
profonda e gli abitanti sono assaliti dalla monotonia, dal rumore e dalle altre nocività.
Anche il mondo dal cyber-spazio è un ambiente urbano, che accelera il declino radicale
della presenza e del contatto fisico. Lo spazio urbano è il simbolo, in continua progressione (verticale e orizzontale), della sconfitta della natura e della morte della comunità.»
John Zerzan

Si potrebbe citare Kai W. Lee che «alla domanda se fosse immaginabile il passaggio a una città sostenibile: La risposta è no.» x oppure citare James Baldwin che «disse a proposito del ghetto [ma che] può valere pienamente per la città: si migliora soltanto in un modo: radendolo al suolo». Da qualsiasi angolazione la guardiamo, non solo la città ma la civiltà tutta, è un cancro in continua espansione, è un abominio pronto e bisognoso di divorare qualsiasi cosa e che va fermato ad ogni costo.
Sicuramente uno dei pilastri fondanti della civiltà e della nostra società tutta è la paura. La dipendenza che abbiamo instaurato con essa ha scavato dentro di noi mettendo il seme di una paura profonda che coincideesattamente con quella che ha un tossicodipendente di rimanere senza la sua dose giornaliera. Bisogna avere il coraggio di mettere in discussione e affrontare questa paura, ma prima è necessario capire che di quella
sostanza, della civiltà, possiamo fare benissimo a meno come d’altronde la nostra storia ce lo ricorda bene.
Oggi risulta ancora più evidente il fatto che tutto è stato plasmato per fare in modo che questo terrore si impadronisse delle persone, perché fossero portate a stare in casa di fronte ai propri dispositivi tecnologici in attesa della loro dose giornaliera di notizie che deve essere somministrata da parte del governo e dai suoi lacchè.
Oggi questi lacchè hanno il camice bianco, parlano un linguaggio forbito e sono sui libri paga di Big Pharma e per questo pensano di potersi arrogare il diritto di dire a tutti come ci si deve comportare e cosa si può o non si può fare.
Con pochi decreti questi signori, che ora sappiamo essersi uniti nel “Patto trasversale per la Scienza” (che si descrive in maniera abbastanza buffa e emblematica come: “uno strumento di progresso e di civiltà nelle mani dei cittadini”), hanno imposto misure da stato di polizia, hanno limitato ogni libertà, stanno condizionando la nostra esistenza e, dalle ultime notizie di denunce ai dissidenti, vuole farsi portavoce dell’unica verità assoluta che può essere divulgata e guai a chi la contesta. La nuova caccia alle streghe è iniziata e di questo passo i vaccini obbligatori a 7,5 miliardi di persone sarà solo un ovvio e logico step
successivo per questa “razionale” e “scientifica” dittatura!
Le comunità, non è più un segreto, non esistono più, i grandi agglomerati urbani le hanno da tempo fatte a pezzi. Nessuno conosce più nessuno, tutti si guardano con non-curanza e indifferenza, ognuno prova repulsione al contatto con un altro essere umano e tutti provano orrore e paura al solo pensiero di uno starnuto che possa infettarli…è ovvio che quindi sotto questo punto di vista questa “emergenza” ci ha solo reso (o forse ce lo sta solo palesando) più soli, più vulnerabili, più estranei alla realtà fuori dalla nostra porta
e maggiormente pronti a rivalutare entusiasticamente la vita online, la vita sui social-network, insomma quella non-vita alla quale purtroppo sempre più persone fanno affidamento e sulla quale puntano tutte le proprie aspettative di rivalsa.
È vero, la gente non ne può più di stare in casa, non servono a nulla le minacce di carcere o di multe salatissime a fermare i “furbetti” (!) che hanno bisogno di stare all’aria aperta, ma penso che non si possa non constatare che questo alla fine dei conti non sia un valido motivo per non guardare in faccia la realtà e non esserne turbati. In fondo quanti alla fine di tutto ciò non tireranno un sospiro di sollievo e diranno “meno male che c’era la tecnologia”? Eccola la trappola, la nostra amata civiltà non è in grado di sorreggersi senza
tutta questa tecnologia e ci vuole far credere che invece siamo noi essere umani a non poterne fare a meno.
Come sempre, la storia tragicamente si ripete e i problemi tecnologici ancora una volta vorrebbero essere superati con nuova tecnologia, i problemi scientifici con nuova scienza e i problemi di malattie con nuove medicine e veleni che causeranno nuove malattie…in un loop infinito che ci porta dritti verso la morte!
La tecnologia non ci ha salvato, essa ha salvato l’economia da una crisi ancora più profonda, ha salvato i governi che tramite tutta questa tecnologia hanno potuto indirizzare l’opinione pubblica, controllarla e punirla (più o meno) efficacemente (siamo arrivati, per adesso, a 190mila denunce per aver violato i domiciliari); ancora una volta dobbiamo smetterla di pensare che il problema sia il Covid-19, perché qui in ballo c’è molto di più.
Tutto questo credo che rappresenterà ovviamente un momento che farà da spartiacque nella storia, perché probabilmente sarà da questa “emergenza” che la quarta rivoluzione industriale (quella dell’automazione, della robotica, delle scienze convergenti e del transumanesimo) e i suoi sostenitori trarranno nuova linfa, ed è chiaro che qui si deciderà il destino della specie umana.
Ovviamente i piccoli o grandi passi fatti negli ultimi anni nella direzione della riproduzione artificiale dell’umano, della clonazione, delle bio e nanotecnologie erano già un importante incipit, ma non bastavano.
Oggi con la scusa dell’emergenza Covid-19, come di ogni altra “emergenza” nella storia, si stanno ponendo le basi non solo politiche, ma anche sociali per un’acclamazione totale della realtà aumentata, del 5G e di tutto ciò che ci potrà in futuro far sembrare più protetti e sicuri nei confronti non solo di altre possibili epidemie, ma anche della natura malvagia e per tenerci a distanza da quei pericolosi, sporchi e malaticci esseri umani.È così che il pericolo più grande oggi, la reale posta in gioco, è quella di smarrire la nostra umanità (intesa come l’insieme delle capacità umane, empatia in primis). Tutto questo deve essere messo in discussione perché i nostri figli, o comunque le nuove generazioni, in futuro possano ancora avere la possibilità di stupirsi, innamorarsi e godere delle piccole cose, da un tramonto ad un fiore che sboccia, da un abbraccio forte e vigoroso ad una stella cadente.
Da sempre siamo stati schiacciati dal peso delle nostre catene, sono millenni che lavoriamo, viviamo e moriamo alla mercé di un meccanismo che ha come unico scopo la propria riproduzione e il consumo di ogni bene che la natura ci ha donato. Ishmael, il gorilla protagonista del romanzo omonimo di Daniel Quinn, direbbe che stiamo recitando la storia sbagliata e che questa non è assolutamente l’unica storia o la storia, ma
è solo quella che Madre Cultura ci ha insegnato a recitare da 12mila anni a questa parte. L’incantesimo quindi può e deve essere svelato e lo potremo fare solo mettendo da parte la nostra cultura predatrice e prevaricatrice, per lasciare spazio a quell’istintualità che da sempre ha guidato gli uomini non civilizzati nel corso di 3 milioni di anni e che ancora oggi gli permette di vivere in pace e armonia con il proprio ambiente e in una guerra permanente con la civiltà.
Questo forse è l’aspetto che più ci deve colpire, non c’è nulla di ineluttabile nulla è già stato scritto, tutto questo quindi può essere messo in discussione, passo dopo passo, perché l’essere umano è naturalmente Anarchico!
Quindi usciamo all’aria aperta, oggi pulita più che mai per lo meno in pianura padana, e riprendiamoci non solo la nostra salute, ma anche il piacere di una passeggiata in compagnia, del sole che scalda la pelle e l’animo e del vento che ci fa sbattere le palpebre, insomma il piacere di una vita che va vissuta non da dietro
uno schermo, ma nella realtà di tutti i giorni mettendo in discussione ogni verità che ci vorrebbero vendere a buon mercato e costruendo qualcosa di nuovo. La vita può essere molto meglio di questa triste e banale caricatura, la vita è tutta un’altra cosa e come diceva Valery: «Si alza il vento. Bisogna tentare di vivere» xi .

Selvaggia-mente

Per ogni tipo di osservazione, per un confronto o una semplice chiacchierata è attivo il seguente indirizzo
mail: rennaincattivita@insiberia.net
Note:
L. Van Der Post, Oltre l’orizzonte, TEADUE, Milano, 1998.
J. Diamond, Armi acciaio e malattie, Einaudi, Torino, 2014.
iii
Ibid.
iv
J. Zerzan, Futuro primitivo, Nautilus Edizioni, Torino, 2001.
v
Ibid.
vi
Ibid.
vii
Ibid.
viii
Ibid.
ix
L. Van Der Post, Il cuore del cacciatore, Adelphi, Milano, 2019.
x
J. Zerzan, Il crepuscolo delle macchine, Nautilus Edizioni, Torino, 2012.
xi
P. Valery, Il cimitero marino, Cahiers de “Dante”, Parigi, 1935.

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La pandemia della paura

Eterno apprendistato

«Su tutti i piani: politico, morale, spirituale, materiale,
si sperimenterà ciò che c’è dietro il progresso: la morte.
Che sfida!
O l’Auschwitz della natura
O la Stalingrado dell’industria
Ogni predica è inutile. Il progresso si fermerà solo da sé,
grazie alle catastrofi che provocherà»
Così scriveva a metà degli anni 70 un poeta svizzero, il cui nome non compare nella lista dei precursori della pedagogia delle catastrofi tanto cara ai sostenitori della Decrescita. Il loro indiscusso maestro Serge Latouche si è sempre dichiarato ottimista a proposito della capacità dei disastri di risvegliare la coscienza; sì… ma quale? Quella della classe politica, spinta dalla forza degli eventi a riportare sulla retta via della frugalità un’umanità smarrita, resa sorda, cieca e muta dalla prolungata dipendenza tossica dal consumismo. È una convinzione che fa capolino anche oggi, con circa metà della popolazione mondiale confinata in casa per sfuggire ad un virus ritenuto responsabile della morte di oltre 100.000 persone in tutto il pianeta.
E sarebbero gli anarchici quelli ingenui, gli illusi, gli abitanti sulla Luna! Meno male che pragmatico, concreto, coi piedi piantati per terra, viene considerato chi pretende che la pace nel mondo sia garantita dagli eserciti, che le finalità delle banche siano etiche, o che a «decolonizzare l’immaginario» ci pensi il Parlamento!
A sostegno della sua argomentazione, Latouche ricorda fra l’altro che il disastro brutto e cattivo provocato dal «grande smog di Londra» — il ristagno di un miscuglio di nebbia e fumo di carbone che dal 5 al 9 dicembre 1952 causò nella capitale inglese 4.000 morti nell’immediato e 10.000 nel periodo successivo — portò quattro anni dopo all’istituzione della bella e buona legge Clean Air Act. Il poveruomo dimentica non solo che il consumo di carbone da allora non è mai diminuito, anzi, è aumentato di pari passo all’inquinamento nelle metropoli, ma che già a Donora (Usa), dal 26 al 31 ottobre 1948, un miscuglio di nebbia e fumo delle acciaierie aveva causato 70 morti e rovinato i polmoni di 14.000 abitanti.
Allo stesso modo, non pare proprio che il disastro avvenuto nell’impianto chimico di  Flixborough (Inghilterra) l’1 giugno 1974 sia servito a prevenire quello verificatosi a Beek (Olanda) il 7 novembre 1975, e entrambi non hanno impedito la fuga di diossina avvenuta a Seveso il 10 luglio 1976. Quale lezione è stata tratta da quelle tre tragiche esperienze? Nessuna. Infatti il peggio doveva ancora arrivare e si verificò a Bophal (India) il 3 dicembre 1984, quando ci fu una vera e propria ecatombe: migliaia di morti e oltre mezzo milione di feriti per una fuoriuscita di isocianato di metile. Vi risulta che alla fine gli stabilimenti chimici siano stati chiusi? No di certo, e neanche si può dire che sia venuto meno l’uso industriale di sostanze nocive, se pensiamo al flusso di cianuro partito il 31 gennaio 2000 da una miniera d’oro in Romania che ha avvelenato le acque di diversi fiumi, fra cui il Danubio.
E i disastri provocati dalla produzione dell’oro nero, hanno mai insegnato qualcosa? L’incidente di una petroliera della ExxonMobil, incagliatasi il 24 marzo 1989 nello stretto di Prince William in Alaska, che ha causato lo sversamento in mare di oltre 40 milioni di litri di petrolio, non è certo servito ad impedire il naufragio della petroliera Haven, la quale il 14 aprile 1991 ha disperso 50.000 tonnellate di greggio nei fondali del mar Mediterraneo dopo averne bruciati 90.000 all’aperto. Una bazzecola in confronto all’incidente del 20 aprile 2010 nel golfo del Messico, quando dalla piattaforma Deepwater Horizon dipendente dalla BP furono versati in mare per ben 106 giorni dai 500 ai 900 milioni di litri di greggio.
O vogliamo parlare della più micidiale delle industrie energetiche, quella nucleare? Senza soffermarsi a citare i 130 incidenti degli ultimi cinquantanni, quello avvenuto nella centrale statunitense di Three Mile Island il 28 marzo 1979 ha forse impedito quello accaduto nella centrale russa di Chernobyl il 26 aprile 1986? Manco per niente, in compenso entrambi hanno abituato gli animi a rassegnarsi anche a quello scoppiato a Fukushijma l’11 marzo 2011. Tant’è che USA, Russia e Giappone continuano imperterriti, fra gli altri, a fare uso ancora oggi dell’energia atomica.
Ordunque, ammesso (e non concesso) che esista davvero una disponibilità ad imparare, cosa potrebbe insegnare l’attuale epidemia che sta terrorizzando il mondo intero? Che bisognerebbe rinunciare alla deforestazione, all’urbanizzazione, agli aerei… oppure che si deve potenziare la ricerca scientifica, rendere obbligatoria la vaccinazione, estendere sempre più il controllo delle autorità «competenti»? In altre parole, occorre fermare il progresso con i suoi effetti letali, oppure accelerarlo per superarli? Non c’è dubbio che per quasi tutti la necessità di arrivare al benessere tramite uno Sviluppo portato avanti dallo Stato rimane un assioma, un tabù così assoluto da non dover nemmeno essere proclamato. È questa la normalità di cui si reclama a gran voce il ritorno, e che non offre alcuna via d’uscita dalle sue false alternative. Sospesa per decreto ministeriale, verrà ripristinata in forma ancora più abbrutita. Il diritto alla movida garantito da un drone sopra la testa.
Il catastrofismo pedagogico non è che l’estremo rimedio del determinismo. Finite nella polvere della storia tutte le preci alla fatalità liberatoria della Ragione, o del Progresso, o del proletariato, o delle contraddizioni intrinseche del capitalismo… non resta che un’improvvisa tragedia planetaria a promettere il lieto fine a chi non cessa di attendere che qualcosa accada, anziché agire per farla accadere.
Finimondo

La Ribellula n°2

Ecco il nuovo numero de

Ribellula 2

Riproponiamo il testo della copertina e del retro:

Voglio vedere i colori dei fiori, in queste primavere
e per questo lottare
Un mondo in cui non puoi essere lumacona
Una vita in cui manca il tempo per la vita
Odiare torna ad essere essenziale
Odiare la produzione bestiale, il demente capitale, odiare chi comanda e calpesta

Torniamo lumaconi, torniamo tisane.

°°°

Il 25 Aprile – festa della liberazione secondo il calendario –
è un giorno in cui si celebra e si ripete un NO al fascismo,
si ricorda l’importanza del liberarsi da ogni fascismo.
A 75 anni dalla fine della dittatura e del fascismo storico, ci sono
infatti sempre diverse forme di oppressione, manifestazioni di
quello che Umberto Eco chiamava l’Ur-fascismo,
declinato secondo i tempi che cambiano.
Il senso della giornata del 25 Aprile non può essere allora
la semplice rievocazione di una passata liberazione:
occorre rivendicare la propria libertà.
E il modo migliore di rivendicarla è praticarla.

Cosa fai allora questo 25 Aprile?

Io credo che uscirò di casa. Andrò a camminare per i boschi,
sugli stessi sentieri dove i partigiani vivevano la propria vita
libera in tempi in cui, proprio come oggi, le strade di città non lo
permettevano. Incontrerò persone con cui passeggiare insieme,
parlare di persona, scambiarsi idee,
confrontare opinioni, sviluppare riflessioni.
Io mi assumerò le mie responsabilità, come quella di decidere come
vivere in un modo che reputo giusto e sano,
perché libertà è innanzitutto non delegare simili scelte.

Tu resti a casa?