Nada, en Nantes

¿Desde hace cuanto nos dicen, nos repiten, nos advierten que nada será como antes? Que estamos atravesando un período histórico inédito, afrontando sucesos que transformarán totalmente nuestra vida en todos sus aspectos.
El trabajo, no será como antes.
La diversión, no será como antes
Ir a hacer la compra , no será como antes.
Viajar, no será como antes.
La sociabilidad, no será como antes.
Manifestarse y protestar, no será como antes… es más, no será posible.
Y así en todos los ámbitos. Porque todo debe ser reprogramado, saneado, esterilizado. Debemos habituarnos no sólo a que nos controlen y vigilen, sino también a ser aislados, vacunados, curados…
Todo esto nos lo han explicado hasta la saciedad, movilizando un pequeño ejército de expertos (virólogos, psicólogos, sociólogos…). Pero ellos, ¿lo habrán entendido? Por lo que parece, no.
Si no, no se explicaría su estupor ante el magnífico incendio que ha iluminado el cielo de Nantes. La célebre catedral gótica ha sido invadida por las llamas. Si no ha sido la voluntad de Dios, tampoco ha sido la del azar – ni cortocircuitos ni rayos. Ha sido una voluntad humana, rabiosa y determinada, la que ha colocado tres mechas en tres puntos dentro del edificio. Su imponente órgano ya no acompañará las alabanzas al Señor.
¿Y la Santa Iglesia se indigna? ¿El gobierno se indigna? ¿La opinión pública se indigna? ¿Los fieles se indignan? Pero, ¿por qué?
Si ya lo saben todos: nada será como antes. Ni siquiera las iglesias, esos lugares de culto donde se entra con la cabeza gacha a rezar a baja voz a la autoridad, como la de Nantes. Hicieron falta más de 450 años para construirla, han bastado unas pocas horas para demolirla. Ni tan siquiera las comisarías de policía de las metrópolis, esos edificios donde se entra con las esposas en las muñecas, secuestrado por la autoridad, como la de Mineápolis.

Que éstos focos de obediencia, aparentemente inextirpables, sean al fin esterilizados, ¿no es lo mínimo que puede y debe suceder?

[18/7/20]

Niente, a Nantes

Da quanto tempo ci dicono, ci ripetono, ci ammoniscono che niente sarà più come prima? Che stiamo attraversando un periodo storico inedito, affrontando eventi che muteranno totalmente la nostra vita, nei suoi aspetti maggiori come in quelli minori?
Il lavoro, non sarà più come prima.
Il divertimento, non sarà più come prima.
Andare a far la spesa, non sarà più come prima.
Viaggiare, non sarà più come prima.
La socialità, non sarà più come prima.
Manifestare e protestare, non sarà più come prima… anzi, non sarà proprio più possibile.
E così in tutti gli ambiti. Perché tutto deve essere riprogrammato, sanificato, sterilizzato. Ci dobbiamo abituare non solo a venire controllati e sorvegliati, ma pure ad essere isolati, vaccinati, curati…
Tutto ciò ce lo hanno spiegato fino allo stordimento, mobilitando un piccolo esercito di esperti (virologi, psicologi, sociologi…). Ma loro, loro avranno capito? A quanto pare, no.
Altrimenti non si spiegherebbe il loro stupore davanti al magnifico incendio che ha illuminato il cielo dell’alba sopra Nantes. La celebre cattedrale gotica è stata invasa dalle fiamme. Se non è stata la volontà di Dio, non è stata nemmeno quella del caso — niente fulmini, niente cortocircuiti. È stata una volontà umana, rabbiosa e determinata, ad aver piazzato tre inneschi in tre punti diversi all’interno dell’edificio. Il suo imponente organo non accompagnerà più le lodi al Signore.
E la Santa Chiesa si indigna? E il governo si indigna? E l’opinione pubblica si indigna? E i fedeli si indignano? Ma perché?
Eppure, lo sanno tutti che niente sarà più come prima. Nemmeno le chiese, nemmeno i luoghi di culto dove si entra a testa bassa a pregare sottovoce l’autorità, come quella di Nantes. Ci sono voluti più di 450 anni per costruirla, sono bastate poche ore per demolirla. Nemmeno i commissariati di polizia delle metropoli, nemmeno gli edifici dove si entra con le manette ai polsi in ostaggio delle autorità, come quello di Minneapolis.
Che questi apparentemente inestirpabili focolai di obbedienza vengano infine sterilizzati, non è forse il minimo che possa e debba accadere?

[18/7/20]

«Inferno o utopia?»

È una delle tante scritte comparse nei pressi del commissariato del terzo distretto di Minneapolis, quello andato in fumo nella notte fra il 28 e il 29 maggio nel corso della rivolta provocata dall’omicidio di George Floyd. Non è uno slogan, né un appello, e neppure un grido di battaglia. A fomentare ed eccitare gli animi ci aveva già pensato — ci pensa quotidianamente — il braccio armato dell’autorità, con la sua brutale arroganza. No, quella scritta vergata solleva una questione. Non rivolge una domanda al nemico (come il sarcastico «ci ascoltate adesso?»), pone a chi è sceso in strada un interrogativo su cui riflettere: to hell, or utopia? Qual è il senso di tanta rabbia e tanto furore? Cosa si vuole ottenere? Andare all’inferno, quello della riproduzione sociale, oppure dare vita all’utopia, a qualcosa che sia tutt’altro rispetto a leggi a cui obbedire, merci da acquistare, ruoli cui sottostare, denaro da accumulare, governi da eleggere e a cui delegare?
C’è chi pensa si tratti di un quesito inutile che verrà risolto da sé, superato dalla forza stessa degli avvenimenti, e che indugiare a prenderlo in considerazione fa solo perdere del tempo prezioso che viceversa andrebbe usato per risolvere problemi organizzativi immediati. Comodo determinismo che alleggerisce l’azione, sgravandola dalla fatica del pensiero, e consente di seguire più velocemente («senza tante menate») la corrente trionfale della Storia — anziché sforzarsi ad inventare e realizzare la propria, di storia. 
Eppure, i fuochi accesi a Minneapolis nel corso di quelle notti sono illuminanti anche a tal proposito. Sembra infatti, giacché testimoniato da più parti (anche da non sospettabili di complottismo), che alcuni di quegli incendi siano stati appiccati da estremisti di destra. Se ciò fosse vero, il sospetto ricadrebbe sugli appartenenti a quello che negli Stati Uniti viene ormai definito «movimento boogaloo», sigla guazzabuglio che raccoglie genericamente chi ama comparire in pubblico armato fino ai denti e lanciare infuocati proclami contro la politica del governo. Sebbene al loro interno non manchino sfumature contrastanti, gli estremisti boogaloo sono per lo più suprematisti, miliziani, maniaci delle armi, «survivalisti»… Tutta gente che non nasconde l’intenzione di scatenare una Seconda Guerra Civile in grado di ripulire le strade dalla feccia ed instaurare un «vero governo americano». 
Si dirà che si tratta di puro folklorismo, truce spettacolo mediatico che talvolta può anche fuoriuscire dalla rappresentazione ed assumere forme materiali pericolose — uccidendo una manifestante a Charlottesville nel 2017, ad esempio — ma che in sé non costituisce una vera minaccia sociale. Può darsi, ma… non si potrebbe dire lo stesso di qualsiasi nera rivolta a noi cara? In fondo siamo proprio noi a sostenere che, in determinate circostanze, ciò che in tempi di normalità appare impossibile diventa a portata di mano. Pensiamo davvero di essere gli unici ad aver osservato come basti una piccola scintilla per provocare un grande incendio, o come la fine della pace sociale possa aprire innumerevoli possibilità per rimettere in discussione questo mondo? 
No, certo. E quindi che si fa, per evitare preoccupazioni che intralcerebbero le azioni, ci tranquillizziamo ripetendoci che la situazione per forza di cose evolverà in un senso a noi propizio? Non lo pensiamo. Peggio ancora, poiché i tanti bassi istinti sono molto più facili da provare, condividere ed esaudire rispetto ai rari alti ideali, è assai probabile che se nei periodi di sommovimento ci si limitasse a lasciarsi trasportare dal vento, si finirebbe dritti all’inferno — e non verso l’utopia.
Prendiamo ad esempio la rivolta scoppiata nelle ultime settimane negli Stati Uniti. Non è il frutto della convergenza strategica di più movimenti di lotta, ognuno con una lunga storia alle spalle e una ragionevole bandiera da sventolare sopra la testa, che hanno visto ingrossare le loro fila fino a decidersi di dare all’unisono una spallata al potere. È l’improvvisa deflagrazione provocata da una scintilla verificatasi in un ambiente sovraccarico di tensioni di ogni genere. Ha colto di sorpresa tutti e un po’ tutti hanno cercato di approfittarne (compresi inquilini, ex-inquilini ed aspiranti inquilini della Casa Bianca). Come un tornado, è diventata giorno dopo giorno sempre più potente mutando con una velocità impressionante. Per evitare che travolgesse ogni cosa, e in attesa che esaurisca le proprie forze, le autorità più attente a mantenere la pace sociale sono state costrette a correre ai ripari annunciando profonde riforme (a Minneapolis lo smantellamento del locale dipartimento di polizia, a New York la penalizzazione della stretta al collo). 
Manovra disperata vanificata dallo stillicidio di omicidi commessi in quel paese dagli agenti di polizia, l’ultimo dei quali avvenuto la notte del 12 giugno, due sere fa, quando un altro nero è stato ammazzato ad Atlanta nel corso di un controllo da parte di una pattuglia. Si chiamava Rayshard Brooks e la sua terribile colpa era di dormire nella propria auto all’interno del parcheggio di un ristorante fast-food, con gran disappunto del proprietario del locale che ha richiesto l’intervento della polizia. Ora quel proprietario non avrà più preoccupazioni simili: il suo spaccio di merda è stato incendiato ieri notte, nel corso di una protesta che ha fatto registrare oltre trenta arresti. All’inizio gli agenti si sono giustificati dichiarando che Brooks si era ribellato all’arresto, minacciandoli col loro stesso taser che aveva sottratto durante la colluttazione. Ma poi l’ennesimo video li ha clamorosamente smentiti, mostrando come uno di loro gli avesse sparato alle spalle a distanza mentre cercava di scappare. L’agente che ha fatto fuoco è stato immediatamente licenziato e il capo della polizia di Atlanta si è subito dimessa al fine di «ristabilire la fiducia nella comunità», ma è ovvio che quella fiducia è persa per sempre. Andata letteralmente in fumo.
Lo scrittore nero James Baldwin diceva che «l’impossibile è il minimo che si possa domandare». Dopo l’omicidio di George Floyd nel giro di pochi giorni in tutti gli Stati Uniti folle di persone sono passate da una richiesta comprensibile, come l’arresto dei poliziotti responsabili della sua morte, ad una rivendicazione iperbolica come l’abolizione della polizia. Si tratta di una rivendicazione radicale, ottima per procurar battaglia (come scoperto dal sindaco di Minneapolis, il quale è stato insultato ed allontanato da un incontro pubblico per essersi rifiutato di appoggiarla). Ma se a furia di essere ripetuta diventasse conseguente — non più una provocazione momentanea per aprire le ostilità, bensì un obiettivo da realizzare — dove porterebbe una simile rivendicazione? All’inferno di una sicurezza la cui garanzia sarà contesa fra gruppi di autodifesa (modello sinistro, gli Asayish curdi) e movimento delle milizie (modello destro, gli Oath Keepers statunitensi), o all’utopia di una libertà che non offre alcuna garanzia, alcuna sicurezza, e dove spetta ad ognuno il compito di badare a sé, a chi ama, a chi sente vicino? Per altro, a quale nuova autorità affidare il compito di decretare tale abolizione? Lo stesso autore di La prossima volta, il fuoco ricordava che «la libertà non è una cosa che si possa dare; la libertà uno se la prende, e ciascuno è libero quanto vuole esserlo». Per cui l’impossibile è sì il minimo che si possa chiedere, ma solo perché — essendo una richiesta inaccettabile — permette di smettere di chiedere ponendo fine ai negoziati.
Che dei politici tentino di cavalcare la rivolta, che in mezzo ad essa si possa trovare di tutto, ciò non può stupire nessuno. Ma questo non significa restare indifferenti. I politici vanno disarcionati, non importa quali riforme istituiscano, quante dimissioni pretendano, che regole di ingaggio modifichino. I militanti autoritari vanno neutralizzati, non importa quali siano le loro intenzioni. Nel vecchio continente la differenza fra autorità e libertà non scompare all’interno delle composizioni «anticapitaliste», così come nel nuovo mondo non scompare all’interno delle composizioni «antigovernative». 
Inferno o utopia — o l’uno o l’altra. Ignorarlo o confonderli significa ottenere al massimo la possibilità di venir arrestati un domani per aver cercato di smerciare una banconota di 20 dollari, ma con sopra l’immagine della schiava ribelle nera Harriet Tubman anziché del presidente schiavista bianco Andrew Jackson.
 
[14/6/20]
 
https://finimondo.org/node/2489

Un respiro profondo

«Non andartene docile in quella buona notte
Infuriati, infuriati contro il morire della luce»
Dylan Thomas
 
No, questa volta no. L’ennesimo omicidio di un nero da parte della polizia, avvenuto lo scorso lunedì 25 maggio a Minneapolis (Minnesota), nel «paese più libero del mondo», non passerà inosservato, non finirà anch’esso a fare numero in qualche statistica. Schiacciato sotto il peso di tre poliziotti, uno dei quali col ginocchio premuto sul suo collo, George Floyd ha inutilmente invocato pietà. Le sue ultime parole sono state: «non riesco a respirare, non riesco a respirare, per favore, signore, per favore, per favore, per favore, non riesco a respirare». Ma ai signori che compongono il braccio armato dello Stato, di qualsiasi Stato, è inutile chiedere favori. È il loro lavoro non fare respirare, calpestare e soffocare ogni slancio vitale. Si arruolano appositamente per questo, per godere del potere di togliere il respiro a chi sta sotto di loro. Vengono addestrati e pagati appositamente per questo, per impedire ogni movimento di chi sta sotto di loro. E poi, se una tale richiesta proviene per di più da un poveraccio nero ed è rivolta a sbirri bianchi, allora l’esito finale è quasi sempre scontato. Talmente scontato che l’omicidio da parte della polizia è un fatto quotidiano negli Stati Uniti, considerato quasi endemico (secondo alcune statistiche, sarebbero almeno 400 le persone finora uccise dalla polizia statunitense nel 2020). È un fatto assodato, deplorato, criticato, con la stessa prontezza con cui viene metabolizzato e dimenticato.
No, questa volta no. Non è stato possibile. Se la morte di George Floyd ha suscitato ben più delle abituali polemiche sulle «tensioni razziali» che allignano negli Stati Uniti o sul razzismo dilagante fra le forze dell’ordine, se ha provocato il più ampio sollevamento che si ricordi nel paese, ciò è dovuto fondamentalmente a due motivi. Il primo è quasi banale: questo atroce omicidio è stato ripreso e il video ha fatto immediatamente il giro del mondo (proprio come accadde nel 1991 a Los Angeles con il pestaggio di Rodney King). Davanti a quelle immagini che rimbalzavano ovunque, sbattute in faccia nella loro brutalità, non è stato possibile limitarsi a scuotere la testa, a bestemmiare, a sospirare, a stringere i pugni… e rassegnarsi. 
È questa la differenza fra la morte di George Floyd e quella di Breonna Taylor, crivellata di pallottole lo scorso 13 marzo nel suo appartamento di Louisville (Kentucky) da tre agenti in borghese che vi avevano fatto irruzione senza mandato, o quella di Mike Ramos, ucciso da un poliziotto ad Austin (Texas) lo scorso 24 aprile mentre si trovava in un parcheggio a bordo della sua macchina. Lontani dagli occhi, è stato più facile tenere i loro omicidi lontani dal cuore. Già, terrificante tautologia — nella società dell’immagine è l’immagine a fare la differenza. Lo scorso 23 febbraio, mentre stava facendo jogging in un sobborgo di Brunswick (Georgia), Ahmaud Arbery è stato ucciso da un ex-poliziotto da poco andato in pensione e da suo figlio, che lo avevano inseguito scambiandolo per un ladro. Per oltre due mesi i due responsabili di quell’omicidio non sono stati infastiditi finché il 5 maggio è stato diffuso un video che riprendeva la loro prodezza; padre e figlio sono stati arrestati 48 ore dopo. Gli uomini dell’ordine possono ben uccidere chi non ha santi in paradiso, difficilmente verranno perseguiti, ma è meglio che prestino qualche attenzione a non farsi riprendere.
Il secondo motivo che ha impedito al fatto di cronaca avvenuto a Minneapolis di venire archiviato in una triste contabilità ordinaria, rendendolo viceversa dirompente, è del tutto casuale. Non c’è nulla che si assomigli più di due gocce d’acqua, ma è solo l’ultima a far traboccare il vaso. Anche se non era diverso da altri che l’hanno preceduto, l’omicidio di George Floyd  — quest’uomo qualunque, che aveva appena perso il lavoro e che cercava solo di sopravvivere, in cui è così facile riconoscersi — ha fatto da evento catalizzatore in grado di scatenare una serie di reazioni a catena che fino ad ora niente è riuscito a fermare e che stanno rendendo sempre più incandescente la situazione sociale negli Stati Uniti.
 
Dunque, cosa è successo? Nella notte di quel tragico lunedì 25 maggio è stato postato su Facebook un video ripreso da una passante che mostra gli ultimi minuti di vita di George Floyd. Si odono i suoi lamenti, si vede lo sguardo vuoto e indifferente del suo carnefice in uniforme. Sono bastate poche ore perché quel video diventasse assai più «virale» del Covid-19, indignando milioni di persone e facendo precipitare nell’imbarazzo le autorità locali. Il sindaco della città Jacob Frey, membro del DFL (un partito vicino al Partito Democratico, ma su posizioni ancora più «liberal»), esprime il proprio cordoglio alla famiglia di George Floyd e licenzia in tronco i quattro poliziotti coinvolti nella sua morte. Un provvedimento urgente più che raro, reso necessario per allontanare dall’amministrazione ogni sospetto di complicità ed abbassare così la tensione in vista delle manifestazioni di protesta previste per quel martedì 26 maggio. Per tutto il giorno in molte zone della città si terranno infatti iniziative per denunciare quanto accaduto. L’incrocio dove è morto Floyd diventa punto di ritrovo, di discussione, ed il traffico viene più volte interrotto. Cortei partono da vari quartieri della città per confluire tutti davanti al commissariato del terzo distretto, quello a cui appartenevano i poliziotti licenziati, che viene circondato da migliaia di manifestanti in preda ad una rabbia crescente. La vetrata d’ingresso va in frantumi mentre c’è chi traccia scritte sulle volanti e sui muri, e chi lancia uova e sassi contro l’edificio. Quando alcuni manifestanti cercano di infrangere le finestre del commissariato scatta la reazione dei poliziotti che si trovano all’interno, i quali respingono la pressione della folla usando gas urticanti. Ne nascono tafferugli che si spostano nel parcheggio del commissariato, i cui mezzi vengono danneggiati. Inferocita, la polizia carica i manifestanti sommergendoli di gas lacrimogeni e sparando proiettili di gomma, ma i manifestanti si difendono e daranno battaglia per tutta la notte (saccheggiando un negozio di liquori per rifornirsi di spirito). Sempre nel corso di quel martedì altri manifestanti stanno tenendo un presidio davanti alla casa di Derek Chauvin, l’ormai ex-poliziotto che nel video preme il proprio ginocchio sul collo di George Floyd.
 
La mattina di mercoledì 27 maggio la notizia del giorno in tutto il paese è la violenza impiegata dalla polizia di Minneapolis contro i manifestanti. Qua e là cominciano a venire organizzate le prime iniziative di solidarietà. A Portland (Oregon) viene occupato il Justice Center, mentre le strade di Los Angeles sono invase da un corteo che blocca la superstrada. Una volante della polizia investe la folla dei manifestanti, che reagiscono attaccandola prima di andare a presidiare il quartier generale della polizia. L’indignazione generale è tale che lo stesso presidente degli Stati Uniti tenta di cavalcarla, scagliandosi contro il sindaco di Minneapolis accusandolo di essere un «estremista di sinistra» che reprime giuste proteste. Intanto nella città del Minnesota viene eretto un recinto di protezione attorno al commissariato del terzo distretto, mentre altre manifestazioni e presidi di protesta prendono il via. Sebbene all’inizio sia la calma a prevalere, col passare delle ore la rabbia monta, aumenta, fino a dilagare incontrollabile. Il commissariato del terzo distretto viene nuovamente attaccato e, dopo essersi scontrati con la polizia disposta anche sui tetti, i manifestanti si disperdono per la città. Decine e decine di negozi vengono saccheggiati, palazzi interi dati alle fiamme. Un manifestante sorpreso all’interno di una gioielleria viene abbattuto dal proprietario.
 
Giovedì 28 maggio gli Stati Uniti si svegliano sotto shock per quanto accaduto. A Minneapolis viene inviata la Guardia Nazionale e sulla città si alzano gli elicotteri della polizia. Se da un lato il sindaco Jacob Frey cerca di calmare i manifestanti invitandoli ad essere «migliori di quanto lo siamo stati noi», dall’altro il procuratore Mike Freeman butta benzina sul fuoco dichiarando di non intendere procedere contro gli agenti licenziati (Freeman è noto per la sua grande comprensione e la mano leggera nei confronti dei poliziotti dal grilletto facile). Le proteste si diffondono in entrambe le «città gemelle» che sorgono sulle sponde contrapposte del fiume Mississippi, Minneapolis e Saint-Paul, dove migliaia e migliaia di persone scendono in strada. Tafferugli fra polizia e manifestanti scoppiano fin dal pomeriggio. Ma è la notte, è soprattutto la notte a scatenare i rivoltosi, i quali sanno bene dove darsi appuntamento per dare battaglia. Il commissariato del terzo distretto viene nuovamente attaccato e questa volta i manifestanti riescono a penetrarvi all’interno. Davanti alla pressione di una folla furibonda, i poliziotti capiscono di avere un’unica via d’uscita e sono lieti di obbedire ad un ordine senza precedenti: abbandonano l’edificio e scappano via a bordo delle loro volanti. Il commissariato è ora vuoto, alla mercé dei rivoltosi. Prima viene saccheggiato e devastato, poi viene dato alle fiamme, da cima a fondo. Un rogo che durerà per ore, salutato da urla di gioia in una vera e propria festa di liberazione. Non soddisfatti, i manifestanti devastano, saccheggiano e incendiano negozi di ogni genere: di elettrodomestici, di alcolici, di abbigliamento, di ristorazione, di telefonia mobile, supermercati… anche qualche banca e molti uffici postali finiscono in fiamme. Secondo la polizia di Saint-Paul sarebbero oltre 170 i negozi attaccati a partire dall’inizio delle sommosse. La stessa sera alcuni autisti di autobus rifiutano di guidare i propri mezzi per trasportare poliziotti o manifestanti arrestati, esempio di non-collaborazionismo che nei giorni seguenti si estenderà ad altre categorie di lavoratori.
Non pare un’esagerazione affermare che la notte fra giovedì 28 e venerdì 29 maggio resterà nella storia. La brutale e iper-equipaggiata forza di sicurezza del paese più ricco e potente del pianeta, barricata in una sua sede, è stata letteralmente sbaragliata da migliaia di manifestanti, neri incazzati ed incazzati neri, armati con mezzi di fortuna, per lo più giovani, privi di una consapevolezza politica, provenienti dalle fasce più povere della popolazione, ma tutti uniti dall’odio per il nemico più comune, più palese e più onnipresente: la polizia.
Non solo, ma proprio mentre nell’epicentro raggiunge il suo culmine, la rivolta contro la polizia e la società che difende inizierà a divampare in altri punti del paese. Quello stesso giovedì 28 vengono infatti organizzate iniziative in solidarietà a Portland (Oregon) ed Olympia (Washington). A Phoenix (Arizona) un corteo selvaggio finisce con una sassaiola contro il commissariato locale. In California, ad Oakland viene bloccato l’ingresso di una superstrada, a Sacramento le strade vengono bloccate dai cortei, a Fontana un presidio nei pressi di un commissariato si trasforma in un blocco stradale prima di terminare con danneggiamenti e lanci di pietre contro il municipio. A Denver (Colorado) viene occupata una superstrada e scoppiano scontri fra polizia e manifestanti. A Columbus (Ohio) i tafferugli sfociano in atti di vandalismo contro il palazzo del governatore. Scontri fra manifestanti e polizia avvengono anche a Louisville (Kentucky) ed a New York.
 
L’alba di venerdì 29 maggio spunta su un paese che non sembra essere più lo stesso. Qualcosa sta accadendo, qualcosa di imprevisto fino a pochi giorni prima e che nessuno sa dove potrebbe portare. E di questo i politici si rendono ben conto, tant’è che al risveglio si ode subito il cinguettio notturno di Trump, che da simpatizzante non può che diventare avversario della protesta. Preoccupato per la fine del rispetto verso la proprietà privata, annuncia la mobilitazione della Guardia Nazionale e lancia il suo avvertimento ai rivoltosi: «quando iniziano i saccheggi, si inizia a sparare». Parole che non otterranno l’effetto desiderato, al contrario — più che scoraggiare, ecciteranno gli animi. Il procuratore di Minneapolis, travolto dagli avvenimenti, gioca il suo asso nella manica per tentare di spegnere i disordini che si stanno diffondendo incontrollabili. Dopo aver visto bruciare un commissariato di polizia della sua città assieme a decine di altri edifici, dopo che il suo ufficio è stato bombardato da migliaia di quotidiane telefonate ed e-mail di protesta, dopo che la scintilla scaturita nella sua città ha attecchito in altre parti della nazione, ordina l’arresto immediato di Derek Chauvin con l’accusa di omicidio di terzo grado (è il primo caso di un poliziotto bianco incriminato per la morte di un cittadino nero nella storia del Minnesota). Forse, se fosse stato preso subito, questo provvedimento avrebbe dato i risultati disinnescanti sperati. Ma dopo quattro giorni di sangue agli occhi, si rivela del tutto inutile. Anzi, in un certo senso peggiora pure la situazione. Perché è evidente che si tratta di un’ipocrita pezza da esibire (assieme ai risultati dell’autopsia di George Floyd, secondo i quali l’uomo non sarebbe affatto morto per asfissia ma per proprie patologie pregresse) nel disperato tentativo di coprire le vergogne istituzionali (per altro, proprio quella mattina la polizia di Minneapolis aveva arrestato in diretta un giornalista della CNN reo di avere la pelle troppo scura). La tensione non si spegne affatto, tutt’altro, è destinata ad esplodere in maniera incontrollabile ovunque quel venerdì 29, primo giorno del week-end. In tutti gli Stati Uniti sono innumerevoli le persone che scendono in strada per protestare contro la violenza poliziesca, sfidando il coprifuoco notturno.
A Minneapolis vengono erette barricate in alcuni incroci stradali per bloccare la circolazione del traffico. È la quarta notte consecutiva di scontri (almeno quattro i poliziotti rimasti feriti), saccheggi ed incendi (di una banca e di esercizi commerciali). Un altro commissariato di polizia viene assaltato e devastato, su un muro viene lasciata un’ironica domanda: «ci ascoltate adesso?».
A Washington si verifica l’incredibile: i manifestanti circondano la Casa Bianca e tentano di assaltarla. L’edificio viene chiuso in stato di massima allerta, il suo celebre inquilino viene trasferito in un bunker sotterraneo, ed il servizio di sicurezza (composto da agenti dei servizi segreti) respinge i manifestanti ricorrendo al gas urticante.
Ad Atlanta (Georgia) si apre una specie di caccia allo sbirro, diverse pattuglie della polizia vengono attaccate. Le volanti sono danneggiate e incendiate. La sede della CNN viene presa di mira dai manifestanti, che ne sfondano le vetrate.
A New York hanno luogo violenti scontri durante i quali vengono feriti almeno una decina di poliziotti. Un loro furgone viene dato alle fiamme, e si registrano centinaia di arresti. Fra questi, una manifestante accusata di tentato omicidio ai danni di quattro poliziotti per il lancio di una molotov contro il furgoncino sul quale si trovavano. La molotov non è esplosa e la ragazza viene arrestata, assieme alla sorella, dagli stessi agenti presi di mira (uno dei quali viene accolto a morsi).
A Los Angeles alcuni manifestanti attaccano un poliziotto, che riesce a fuggire. In serata viene bloccato il traffico nel centro della città e saccheggiato uno Starbucks.
A San Jose (sempre in California) i manifestanti erigono barricate con cassonetti della spazzatura poi dati alle fiamme, si scontrano con la polizia e infrangono diverse vetrine dei negozi.
A Portland (Oregon) i manifestanti danno l’assalto alla prigione e al commissariato centrale. Una galleria commerciale è saccheggiata e incendiata.
Scontri e disordini si verificano anche a Dallas (Texas), Houston (Texas), Las Vegas (Nevada), Denver (Colorado), Memphis (Tennessee)… Ma è in altre due città che avviene l’irreparabile, ciò che contribuisce ad alimentare ed estendere ulteriormente le sommosse in corso.
Ad Oakland (California) è stata una giornata di manifestazioni di protesta. In serata migliaia di persone invadono l’autostrada, bloccando il traffico. Alle 21.45 la polizia annuncia il divieto della manifestazione. I manifestanti si disperdono per la città; c’è chi incendia cassonetti della spazzatura, chi devasta e saccheggia negozi, chi penetra dentro una banca per appiccarvi il fuoco, chi fa una rude visita a qualche concessionario d’auto… davanti al municipio si può leggere la scritta «non abbiamo nulla da perdere, solo le nostre catene». Ma proprio poco dopo le 21.45, da un’auto che transita davanti al tribunale federale vengono esplosi alcuni colpi d’arma da fuoco che raggiungono due agenti di guardia, uno dei quali muore. Che il modo migliore di «stop killing black people» sia quello di «start killing white pigs»? Questa notizia viene data solo il giorno dopo e all’inizio le autorità ne enfatizzano i toni, annunciando che si tratta di un atto di «terrorismo domestico». Poche ore dopo, forse accortisi che così rischiano di indicare il cattivo esempio, gli inquirenti si affrettano a negare che ci siano collegamenti con le proteste in corso.
Invece a Detroit (Michigan) una manifestazione di protesta contro la brutalità poliziesca, iniziata nel pomeriggio nella maniera più pacifica, finisce con scontri notturni fra manifestanti e forze dell’ordine. In mezzo alla baraonda, verso le 23.30, anche qui alcuni colpi di arma da fuoco vengono sparati da un Suv. Ma questa volta contro i manifestanti, ed un ragazzo di 19 anni viene colpito a morte.
 
Con simili presupposti, è inevitabile che anche sabato 30 maggio sia una giornata infuocata in una nazione dove in almeno 25 città di 16 Stati è stato imposto il coprifuoco, e la Guardia Nazionale mobilitata in una decina di Stati. Il ministero della Difesa ordina all’esercito di prepararsi a schierare in tutto il paese le unità di polizia militare. Nel corso della giornata hanno luogo manifestazioni pacifiche (a Eureka, Des Moines, Tacoma e Geneva, dove viene chiusa la superstrada, Santa Rosa, Modesto, Houston, Bloomington, Louisville, Miami, Durham, Montgomery, Atlanta, davanti alla casa del governatore, Burlington), altre che generano scontri fra manifestanti e forze dell’ordine (a Salem, Portland, dove il sindaco ha decretato il coprifuoco dalle 20 alle 6, Salt Lake City, Oakland, Phoenix, Denver, Dallas, Oklahoma City, Columbus, Milwaukee, Tampa, Jacksonville, Little Rock, Boston, Pittsburgh).
Nell’epicentro della rivolta, Minneapolis, il governatore Tim Waltz lancia un appello ai manifestanti: «Capisco la rabbia ma tutto questo non riguarda la morte di George Floyd, né le disuguaglianze, che sono reali. Questo è il caos». Le sue parole non devono apparire molto convincenti, considerato che migliaia di manifestanti sfideranno ancora il coprifuoco e la Guardia Nazionale per andare a devastare la casa di Derek Chauvin, incendiare banche, uffici postali, ristoranti e una pompa di benzina, prima di cercare purtroppo inutilmente di bruciare il commissariato di un altro distretto.
A Washington ennesima manifestazione davanti alla Casa Bianca, protetta dalla Guardia Nazionale e — a detta del fulvo settantaquattrenne bimbominkia che vi risiede — da cani cattivissimi. Un sempre più massiccio servizio d’ordine usa nuovamente il gas urticante per disperdere la folla, ma questa volta i manifestanti resistono ed alcuni di essi riescono perfino a contrattaccare con una sassaiola. Un’auto dei servizi di sicurezza parcheggiata all’esterno viene danneggiata, così come il Ronald Regan Presidential Foundation and Institute.
A New York scoppiano ancora violenti scontri, il cui bilancio ufficiale parla chiaro: 350 manifestanti arrestati (fra cui la figlia del sindaco della città, la quale stava partecipando ad un blocco stradale), 33 agenti feriti, 47 mezzi della polizia danneggiati. Un Suv della polizia investe una barricata, ferendo alcuni manifestanti.
A Seattle (Washington), oltre a scontri con la polizia durante i quali vengono date alle fiamme alcune volanti, si verificano dei saccheggi e viene chiusa una strada interstatale.
A Reno (Nevada) la polizia fa uso di gas lacrimogeni scatenando l’ira dei manifestanti che assaltano e devastano un commissariato.
A Las Vegas (Nevada) i poliziotti vengono attaccati con bottiglie molotov mentre vengono danneggiate automobili e saccheggiati negozi.
A Jackson (Florida) durante gli scontri restano feriti diversi poliziotti, uno dei quali pugnalato al collo.
A Sacramento (California) ci sono saccheggi e scontri con la polizia. Nel pomeriggio molti manifestanti attaccano il carcere della contea, infrangendone i vetri.
Ad Emeryville (California) vengono saccheggiati grandi magazzini in diverse aree.
A San Francisco sono bloccate strade e saccheggiati negozi. Il sindaco invoca la Guardia Nazionale.
A Los Angeles scoppia una vera rivolta di massa, con negozi saccheggiati a Berverly Hills e sulla Rodeo Drive al grido di «Eat the rich!», volanti attaccate, commissariati incendiati. Viene decretato lo stato d’emergenza e mobilitate tutte le forze di polizia. 
A La Mesa (California) si verificano saccheggi e incendi di banche.
A Scottsdale (Arizona) un centro commerciale è saccheggiato.
Ad Austin (Texas) viene chiusa un’autostrada, si saccheggiano negozi, si vandalizzano i commissariati.
A San Antonio (Texas) dopo un pacifico corteo viene attaccato ed incendiato l’ufficio della libertà vigilata.
A Lincoln (Nebraska) in mezzo a proteste, blocchi stradali, scontri con la polizia, viene dato alle fiamme l’edificio delle Poste.
A Madison (Wisconsin) la protesta sfocia in scontri e saccheggi.
A Grand Rapids (Michigan) e a Kansas City (Missouri) i manifestanti riscaldano l’aria con numerosi roghi.
A Rockford (Illinois) hanno luogo scontri e saccheggi.
A Chicago i poliziotti vengono bersagliati con oggetti di ogni genere e le loro volanti fracassate.
A Cleveland (Ohio) si verificano scontri, saccheggi e molte volanti sono date alle fiamme.
A Charleston (West Virginia), Columbia (South Carolina) e Raleigh (North Carolina) le manifestazioni terminano con scontri e saccheggi, alcune volanti prendono fuoco.
A Richmond (Virginia) molti negozi vengono saccheggiati, la sede delle Daughters of the Confederacy viene incendiata. Si inizia a vandalizzare i monumenti confederali, celebrazione dello schiavismo.
A Ferguson (Missouri) viene danneggiato e fatto evacuare un commissariato, dopo che i suoi agenti sono subissati dal lancio di petardi, mattoni, sassi, bottiglie.
A Nashville (Tennessee) i manifestanti, dopo essersi scontrati con la polizia, riescono ad incendiare il tribunale.
A Syracuse (New York) viene attaccato il commissariato centrale di polizia.
A Philadelphia (Pennsylvania), dopo scontri con la polizia e incendi di volanti, alcuni manifestanti si arrampicano sulla statua di Frank Rizzo (commissario di polizia nel 1968 e successivamente sindaco della città) e le danno fuoco.
Ad Indianapolis (Indiana) viene ucciso un altro manifestante, il terzo dall’inizio delle sommosse.
 
Domenica 31 maggio la protesta contro la polizia si internazionalizza. A Rio de Janeiro si tiene una grande manifestazione contro la polizia che solo lo scorso anno in quella città ha commesso circa 1800 omicidi — una media di 5 al giorno. Sfidando le norme antipandemia, diverse manifestazioni di protesta sono organizzate anche a Londra (dove si registrano arresti), Berlino, dove l’ambasciata statunitense viene circondata dai manifestanti, Toronto e Auckland (Nuova Zelanda).
Nel frattempo le agitazioni continuano inarrestabili anche negli Stati Uniti. In una Minneapolis blindatissima tutto sembra procedere nella calma, quando un’autocisterna cerca di investire la folla di manifestanti su un ponte. Un atto che per fortuna non provocherà nessun ferito (a parte l’autista del mezzo, che viene quasi linciato sul posto).
A Washington per tutta la giornata nei pressi della Casa Bianca, soprattutto nel parco antistante, scoppiano violenti e ripetuti scontri, durante i quali rimangono feriti una cinquantina di agenti dei servizi di sicurezza. Lo scantinato della chiesa di Saint-John (chiamata «Chiesa dei Presidenti»), che si trova all’ingresso del parco, viene dato alle fiamme. Ancora una volta all’interno del palazzo governativo viene decretato lo stato di allerta e il Presidente condotto in un bunker. Altrove per la città alle manifestazioni si risponde con gas lacrimogeni e granate stordenti. La sede dell’AFL-CIO, la più potente organizzazione sindacale del paese, viene devastata e incendiata. Sul suo muro viene lasciata la scritta «il silenzio è complice». Banche e gioiellerie vengono attaccate. Molti monumenti sono vandalizzati.
A Los Angeles la polizia fa uso di gas lacrimogeni contro i manifestanti che bloccano una via commerciale nel quartiere di Santa Monica. Numerosi palazzi commerciali e negozi sono saccheggiati. Sono oltre 20 le città della California in cui avvengono saccheggi.
A New York migliaia di manifestanti invadono le strade di Manhattan per raggiungere Union Square. Scoppiano nuovamente scontri con le forze dell’ordine, sulla Broadway. In cinque quartieri della città si verificano saccheggi.
A Boston (Massachusetts) centinaia di manifestanti si scontrano con la polizia, danneggiando ed incendiando volanti. Si saccheggiano alcuni negozi.
Anche ad Atlanta (Georgia) la polizia ricorre ai lacrimogeni. Viene dato l’annuncio che due poliziotti sono stati licenziati e altri tre sospesi per «uso eccessivo della forza» durante le manifestazioni del giorno precedente.
A Philadelphia (Pennsylvania) molte volanti della polizia vengono attaccate e distrutte, e alcuni negozi saccheggiati.
Poco dopo mezzanotte un manifestante viene ucciso dalla Guardia Nazionale a Louisville (Kentucky), città che in tutto il week-end è stata teatro di violenti scontri anche perché brucia ancora il ricordo della morte di Breonna Taylor. Altri due manifestanti rimangono uccisi a Davenport (Iowa). Il capo della polizia di questa città dichiara che anche tre agenti hanno subito un agguato, e che uno di loro è rimasto ferito.
 
Oggi è lunedì 1 giugno. È trascorsa una settimana dalla morte di George Floyd e tutta l’opinione pubblica statunitense è concorde nel ritenere di trovarsi di fronte «ai peggiori disordini civili dai tempi dell’assassinio di Martin Luther King». Il che è un elegante modo di fare buon viso a cattivo gioco. È infatti evidente che non è più la «questione razziale» a scaldare gli animi, come dimostra non solo la componente multietnica dei rivoltosi (Samantha Shader, la ragazza newyorkese arrestata venerdì notte per il lancio di una molotov contro la polizia, non è nera, né nativa americana, e nemmeno latina; è bianca, il colore della pelle giusto per essere lasciati in pace dal razzismo poliziesco, cosa che non le ha impedito di rischiare oggi l’ergastolo per aver cercato di vendicare George Floyd e tutte le altre vittime degli assassini in divisa), ma anche gli stessi slogan che scandiscono le manifestazioni in corso. L’appello alle Vite nere che contano ha lasciato sempre più spazio agli universali Nessuna pace senza giustizia e Non riesco a respirare. Da sgherri quali sono, i poliziotti non fanno altro che difendere il mondo dei loro padroni. Ed è proprio questo mondo che da Los Angeles a New York, passando per Minneapolis, viene dato alle fiamme. Un incendio divampato quasi con naturalezza, con rapidità impressionante, che ha sorpreso gli abituali pompieri-recuperatori lasciandoli attoniti davanti al fatto compiuto, senza più molte possibilità di intervenire. Quando un’attivista nera avvocata dei diritti civili difende apertamente i saccheggi, quando una celebre pop-star si dichiara pronta a fare qualsiasi cosa pur di buttare fuori l’inquilino dalla Casa Bianca, significa che le classiche riluttanze stanno venendo meno.
Fra le autorità cosiddette «responsabili», quelle più attente a non far precipitare la situazione, non si sa più cosa fare per calmare le acque (agitate anche dalla nuova autopsia sul cadavere di George Floyd, che ha indicato nell’asfissia provocata dalla pressione sul collo la causa effettiva della morte). Ecco quindi salire oggi alla ribalta niente meno che i poliziotti buoni, come quelli che a New York, Washington, Miami (Florida) e Santa Cruz (California) si sono messi in ginocchio in solidarietà con i manifestanti, o quelli che a Genesee (Michigan) e Norfolk (Virginia) si sono uniti ai cortei di protesta. Spettacolo mediatico più che reale defezione, senz’altro, ma avvenimento comunque indicativo e destinato ad essere presto sovrastato dall’arroganza di un governo che sputa sul fuoco nella certezza di riuscire a spegnerlo. Questa mattina l’ex-sindaco di New York, nonché consigliere di Trump sulla sicurezza, Rudolph Giuliani, ha dichiarato: «sono 7 giorni che la teppa comanda nelle città con i sindaci più democratici, è ovvio che questi sindaci sono incapaci di proteggere i loro cittadini. Danno forza ai rivoltosi abbandonando commissariati e ordinando alla polizia di stare ferma e di farsi aggredire senza procedere ad arresti» (sebbene siano migliaia gli arrestati nel corso delle sommosse). Poche ore dopo, il suo tracotante superiore, stanco di venire rinchiuso nel bunker di una Casa Bianca da giorni sotto assedio, ha annunciato che considererà «terroristi» i militanti Antifa (che considera i fomentatori dei disordini) e sollecitato governatori, sindaci e commissari a riportare Legge & Ordine usando le maniere forti contro i manifestanti: «Se non dominate le vostre città e i vostri Stati, vi spazzeranno via… A Washington stiamo per fare qualcosa che la gente non ha mai visto».
Appellandosi all’Insurrection Act del 1807, vuole inviare l’esercito nelle strade. Successe già nel 1967 o nel 1992, dopo le rivolte di Detroit e Los Angeles. Ma quelle rivolte erano circoscritte ad una singola area, qui è tutta la nazione che andrebbe pattugliata militarmente. Una simile decisione cosa può provocare? Riporterà la pace sociale o scatenerà la guerra civile? Trattare da insurrezione una protesta generalizzata costellata da sommosse non è forse il modo migliore per materializzare ciò che si è evocato? Senza dimenticare che con somma ipocrisia è la stessa Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti a proclamare il diritto, anzi, il dovere di rovesciare un governo dispotico.
Tanto più che — qualora politici e miliardari non se ne siano ancora accorti — in tutti gli Stati Uniti sta già accadendo qualcosa che alla Casa Bianca di Washington non avevano mai visto: la diffusione della consapevolezza che sotto il peso dell’autorità non si riesce né a muoversi né a respirare, ovvero a vivere. Che è inutile chiedere favori a chi ci tiene, più o meno premuto, il piede sul collo. Che quando la sola scelta lasciata da questa società è quella fra obbedire in silenzio o venire schiacciati, non resta che rifiutare entrambe le alternative e armare questa consapevolezza con la rivolta. Sfidando coprifuoco e forze dell’ordine, gas urticanti e pallottole. Sfidando la paura e la rassegnazione, il senso di impotenza ed il realismo. Scendere in strada e battersi, con furia, senza moderazione, scoprendo che non si è affatto soli, che non si è affatto deboli, e che è possibile, è sempre possibile rovesciare la situazione. 
Cominciare a respirare, nella sola maniera possibile: non facendo più respirare l’autorità.
 
Finimondo.org [1/6/2020]
 

Un sussurro da nessun luogo

Saluti da nessun luogo
 
Cari amici e compagni,
È da molto tempo che mi porto dietro l’idea di farmi risentire. Ovunque io sia, qualunque cosa succeda, qualsiasi difficoltà o bella esperienza mi accada all’esterno della prigione fisica — ho sempre sentito il bisogno di rendervi partecipi. Dopo tutto, siete una parte indispensabile della mia vita che ha messo profonde radici nel mio cuore.
Ma ogni volta che mi sedevo davanti a un foglio bianco, mi mancava la capacità di scrivere. Di raccontare. Ogni volta rimanevo in silenzio e questo mi rattristava. In che modo le parole possono veramente trasmettere quel che sento? Continuavo a torturare la mia mente con questa domanda quando mi ritrovavo seduto alla mia scrivania a fissare quella pagina bianca davanti a me. Mentre cercavo le parole, il mondo si metteva a roteare più velocemente, per poi fermarsi bruscamente. Se all’inizio di febbraio di quest’anno qualcuno avesse seriamente voluto farmi credere che il virus proveniente dalla città cinese di Wuhan avrebbe messo metà del pianeta sotto una campana di vetro nel giro di poche settimane, avrei scosso la testa ridendo. Ma eccoci oramai in pieno processo autoritario di trasformazione radicale dello status quo.
 
«Ritorno alla vecchia normalità!», implorano i reazionari nostalgici. Come sempre interessati a salvarsi il culo e a chiudere a chiave la propria porta il più in fretta possibile.
«Avanti verso una nuova normalità!», predicano i liberali della cibernetica. Piccoli collaboratori di Stato risvegliati, sempre animati di buone intenzioni…
E i potenti cosa fanno? Sono divisi, unanimi, esitanti, determinati, totalitari, ragionevoli, scientifici, religiosi… La tavolozza è infinita ma illustra comunque la stessa cosa: agiscono secondo la massima della conservazione del potere. Sempre ed esclusivamente a tale scopo.
Disquisire fra «vecchia» e «nuova», o in altre parole di come vogliamo essere amministrati e tenuti al guinzaglio, non è questione che possa interessare gli individui che aspirano all’autodeterminazione. Come possiamo opporci al diktat delle leggi e dei loro valori, come sabotarlo col pensiero e con la dinamite e aprire così una breccia per qualcosa di nuovo — ecco una musica per le orecchie di chi è in cerca di terra sotto l’asfalto.
Sono in fuga da quasi 4 anni, il che mi impedisce di discutere con voi codeste questioni cruciali. Di formulare o respingere certe ipotesi con voi, di elaborare approcci al vostro fianco e di testarli col cuore in mano. Ovviamente, questo mi fa stare male. Poiché una tale discussione significherebbe che posso vedervi, ascoltarvi, sentirvi e risentirvi. Non potete neanche immaginare quanto mi manchi questa vicinanza immediata — quanto mi manchiate tutte e tutti enormemente!
Sia chiaro, non sono insieme a voi ma sono al vostro fianco — su una traversa laterale di nessun luogo da dove vi saluto e vi sussurro i più calorosi saluti. Non lasciamo che il tempo che scorre s’interponga fra noi e offuschi a poco a poco i momenti vissuti insieme e le esperienze comuni.
Grazie a voi, sono felice di aver ritrovato le mie amate parole e il desiderio di raccontare, siete formidabili.
Restiamo in contatto.
 
In solidarietà e in affinità bruciante di libertà,
il vostro amico e compagno da nessun luogo
 
metà maggio 2020
[Trad. da SAD]
 

L’éternel apprentissage

« Sur tous les plans : politique, mœurs, esprit, matière on expérimentera ce qu’il y a derrière le progrès : la mort.

Quel défi !

Ou l’Auschwitz de la nature

Ou le Stalingrad de l’industrie

Toute prédication est inutile. Le progrès ne s’arrêtera que par lui-même, par les catastrophes qu’il engendrera. »

Voilà ce qu’écrivait, au milieu des années 70, un poète suisse dont le nom n’apparaît pas dans la liste des précurseurs de la pédagogie des catastrophes si chères aux partisans de la Décroissance. Serge Latouche, leur maître incontesté, s’est toujours déclaré optimiste concernant la capacité des désastres de réveiller la conscience. Oui, mais quelle conscience ? Celle de la classe politique, poussée par la force des événements à remettre sur la bonne voie de la frugalité une humanité perdue, rendue sourde, aveugle et muette par sa dépendance prolongée et toxique au consumérisme. C’est une conviction qui réapparaît encore aujourd’hui, avec environ la moitié de la population mondiale confinée à la maison afin d’échapper à un virus jugé responsable de la mort de plus de cent mille personnes à travers la planète.

Et ce seraient les anarchistes les naïfs, ceux qui s’illusionnent, les habitants de la Lune ! Heureusement que l’on considère pragmatiques, concrets et les pieds bien au sol, ceux qui prétendent que la paix dans le monde est garantie par les armées, que les finalités des banques sont éthiques, ou que c’est le Parlement qui pense à « décoloniser l’imaginaire » !

Pour soutenir son argumentation, Latouche rappelle entre autres que le désastre moche et méchant provoqué par le « grand smog de Londres » – la stagnation d’un mélange de nuage et de fumée de charbon qui entre le 5 et le 9 décembre 1952 causa dans la capitale anglaise 4.000 morts sur le coup et 10.000 par la suite – conduisit quatre années plus tard à l’institution de la belle et bonne loi Clean Air Act. Le pauvre homme oublie non seulement que la consommation de charbon n’a jamais diminuée depuis, et qu’au contraire elle a augmenté avec la pollution dans les métropoles, mais aussi que déjà auparavant à Donora (USA), entre le 26 et le 31 octobre 1948, un mélange de nuage et de fumée des aciéries avait causé 70 morts et détruit les poumons de 14.000 habitants.

De la même manière, il ne semble pas que le désastre survenu dans le complexe chimique de Flixborough (Angleterre) le 1er juin 1974 ait servi à prévenir celui qui eut lieu à Beek (Pays Bas) le 7 novembre 1975. Et tous deux n’ont pas empêché la fuite de dioxine survenue à Seveso, le 10 juillet 1976. Quelle leçon a été tirée de ces trois expériences tragiques ? Aucune. En effet, le pire devait encore arriver, et eut lieu à Bophal (Inde) le 3 décembre 1984, quand une véritable hécatombe eut lieu : des milliers de morts et plus d’un demi-million de blessés, suite à une fuite d’isocyanate de méthyle. Il vous semble que finalement les complexes chimiques ont été fermés ? Certainement pas, et on ne peut pas dire non plus que l’usage industriel de substances nuisibles ait disparu, si l’on pense au flux de cyanure qui s’échappa le 31 janvier 2000 d’une mine d’or en Roumanie, empoisonnant les eaux de différents fleuves, dont le Danube.

Et les désastres provoqués par la production de l’or noir ont-ils déjà enseigné quelque chose ?

L’accident d’un pétrolier de ExxonMobil, qui s’est échoué le 24 mars 1989 dans le détroit de Prince William en Alaska, causant le déversement dans la mer de plus de 40 millions de litres de pétrole, n’a Sûrement pas servi à empêcher le naufrage du pétrolier Haven, qui le 14 avril 1991, a répandu 50.000 tonnes de pétrole dans les fonds de la mer Méditerranée, après en avoir brûlé 90.000 en plein air. Une blague à côté de l’accident du 20 avril 2010 dans le golfe du Mexique, quand furent versé en mer depuis la plateforme Deepwater Horizon dépendant de la BP entre 500 et 900 millions de litres de pétrole pendant 106 jours.

Ou bien nous voulons parler de la plus meurtrière des industries énergétiques, l’industrie nucléaire ? Sans citer les 130 accidents au cours des cent cinquante dernières années, celui qui eut lieu dans la centrale États-unienne de Three Mile Island le 28 mars 1979 a-t-il peut-être empêché celui qui eut lieu dans la centrale russe de Tchernobyl le 26 avril 1986 ? Absolument pas, en revanche les deux ont habitué les esprits à se résigner à celui qui éclata à Fukushima le 11 mars 2011. Si bien que les USA, la Russie et le Japon continuent imperturbablement, parmi d’autres, à utiliser de l’énergie atomique.

Maintenant, en admettant qu’il existe véritablement une disponibilité à apprendre, qu’est-ce que l’épidémie actuelle qui terrorise le monde entier pourrait-elle enseigner ? Qu’il faudrait renoncer à la déforestation, à l’urbanisation, aux avions… ou bien qu’il faut renforcer la recherche scientifique, rendre la vaccination obligatoire, diffuser toujours plus le contrôle des autorités « compétentes » ? En d’autres termes, faut-il arrêter le progrès et ses effets létaux, ou bien l’accélérer pour les dépasser ? Il n’y a aucun doute que pour presque tout le monde, la nécessité d’atteindre le bien-être à travers le développement perpétré par l’État reste un axiome. Un tabou si absolu qu’il ne faut même pas le proclamer. Voilà la normalité dont on réclame à voix haute le retour, et qui n’offre aucune issue à ses fausses alternatives. Cette normalité suspendue par décret ministériel sera rétablie dans une forme encore plus aggravée. Le droit au divertissement assuré par un drone au-dessus de la tête.

Le catastrophisme pédagogique n’est que l’extrême remède du déterminisme. Tous les prêches envers la fatalité libératoire de la Raison, du Progrès, du prolétariat ou des contradictions intrinsèques du capitalisme, ayant fini dans la poussière de l’histoire… seule la soudaine tragédie planétaire permet une fin heureuse à ceux qui ne cessent pas d’attendre que quelque chose arrive, au lieu d’agir pour le faire arriver.

Finimondo

A bassa voce

Arrabbiati. Alle nostre latitudini, gli individui affetti da rabbia venivano sottoposti a severe misure di detenzione fino all’inizio del XIX secolo, poiché si pensava che la malattia di cui soffrivano potesse trasformarli in animali selvatici. Oggi si vogliono rinchiudere gli arrabbiati che non rispettano né i limiti di spostamento né i gesti-barriera quotidiani (tre multe e potenzialmente si è arrestati, grazie allo stato di emergenza prolungato al 23 luglio), giacché si ritiene che il male dell’insubordinazione di cui soffrono necessiti della loro trasformazione in esseri addomesticati. Ma ciò significa dimenticare troppo in fretta che la rivolta può scoppiare anche nel cuore di questi luoghi di infamia, come ad Uzerche (Corrèze) lo scorso marzo, dove duecento prigionieri hanno devastato e poi incendiato circa 300 celle. In questa grande prigione sociale a cielo aperto, l’attuale laboratorio del «deconfinamento» significa null’altro che un tentativo di stringere le sbarre delle gabbie in cui tentiamo di sopravvivere, e di cui la galera sarebbe sia il punto cieco che l’apice (come punizione e come minaccia). Distruggerle tutte non è quindi solo una necessità per avanzare verso l’ignoto di una pratica esagerata di libertà, è anche uno slancio di vita elementare — siano esse di cemento munito di torrette, di cavi interrati o di servitù volontaria.
 
Attaccare. Lo Stato e i suoi alleati occasionali a tratti sconcertanti che raccomandavano di autorecludersi in massa nel nome del bene comune mentre il dominio si dava carta bianca, ci sono rimasti male. Sia in periferia, dove gli scontri con la polizia non si sono fermati — con incendi di telecamere, di volanti e di edifici istituzionali —, che durante le passeggiate al chiaro di luna che hanno provocato un po’ dovunque la distruzione di decine di strutture di telecomunicazione, questi 55 giorni di confinamento nell’esagono sono stati anche contrassegnati da una certa conflittualità. Non quella di manifestanti che rivendicano un cambiamento dall’alto, ma quella di piccoli gruppi mobili che agiscono direttamente senza aspettarsi né chiedere nulla a nessuno, prendendo di mira due pilastri indispensabili a questo mondo: gli sbirri e i gendarmi garanti di un ordine spietato, e le reti di dati che gli consentono di funzionare in ogni circostanza (dal telelavoro alla telescolastica, dall’economia alla telegiustizia). Se già si sapeva che la guerra sociale non conosce tregua, è rimarchevole che alcuni ribelli e rivoluzionari non abbiano ceduto al ricatto volto alla pacificazione della mano del potere che cura a suo piacimento (selezionando, ad esempio, chi deve morire o vivere), mentre lava l’altra che colpisce, mutila, assassina e imprigiona. Ora che queste due mani si congiungono esplicitamente per formare gli sbirri in camice bianco delle Brigate Sanitarie e altri dispositivi di tracciamento; ora che i poteri di polizia si estendono a una miriade di tirapiedi armati della loro buona coscienza sanitaria (seguaci dei braccialetti elettronici, secondini col volto ben mascherato, controllori di temperature troppo alte, guardiani delle distanze di sicurezza); ora che è più che mai evidente che la digitalizzazione della nostra sopravvivenza continuerà ad accelerare… questi differenti attacchi e sabotaggi condotti in condizioni più difficili del solito potrebbero avere qualcosa da dirci: la normalità è la catastrofe che produce tutte le catastrofi. Non si tratta di implorare il suo ritorno urgente o la sua educata revisione a chi sta in alto, ma di impedirne il ritorno, sia teoricamente che praticamente, attraverso l’auto-organizzazione e l’azione diretta.
 
Dati. Dai campi in cui gli input chimici permanenti sono misurati da droni e satelliti, fino agli esseri viventi addomesticati dall’ecologia della catastrofe munendo gli alberi di sensori e gli animali di chip, attraverso città intelligenti che intendono valorizzare il minimo flusso, dobbiamo affrontare continuamente questa economia del dato che quantifica il mondo riducendolo a una serie di cifre ingurgitate dai computer (presto quantistici), ma anche ad astrazioni matematiche che permettono ogni potere. Cosa c’è di più apparentemente oggettivo dei dati, se non fosse che questi sono influenzati dalla scelta arbitraria di ogni loro misura e criterio iniziali la cui domanda contiene già la risposta e che questa elaborazione di modelli è proprio ciò che consente di integrare l’autorità della gestione senza mai mettere in discussione le cause del problema, per concentrarsi sulle sue sole conseguenze previste? Come affermavano qualche anno fa alcuni feroci oppositori del nucleare e del suo mondo, dopo la distruzione volontaria di rilevatori di radioattività nei pressi di centrali nucleari: «Staccata dai suoi usi, la misura è un surrogato di sapere, quale che sia la sofisticazione delle conoscenze che vi sono investite per farla apparire. Essa diventa uno strumento ideologico quando, come il denaro, permette di modulare le effettive disuguaglianze senza rovesciare i rapporti di dominio che ne sono la causa».
La moltiplicazione di rilevatori di calore con droni e termocamere, la modellizzazione epidemiologica mediante algoritmi di comportamenti sociali ed interazioni umane per registrare, sorvegliare e tracciare, alla fine non fanno altro che consacrare una misurazione di tutto ciò che non può essere risolto dagli individui singolari, per farli rientrare nei ranghi o isolarli. Per l’ennesima volta, se l’epidemia di covid-19 non è che il pretesto per accelerare e consolidare una griglia tecnologica e sociobiologica non prevista, costituisce nel contempo il suo schema ideale nel nome di ciò che è in gioco: il pericolo di una morte improvvisa che rinvia alla vita in sé e non alla sua qualità. È così che finiamo per belare «viva la vita» come qualsiasi mistico religioso, piuttosto che cercare di rafforzare ed estendere il legame tra quest’ultima e la rivolta contro l’esistente che le dà un senso.
 
Distanziamento sociale. L’integrazione di distanze di sicurezza asettiche tra gli esseri umani nelle strade, nei trasporti, nelle caserme di addestramento o in quelle di sfruttamento è in linea col progetto di un dominio su corpi-soggetti atomizzati che interagiscano essenzialmente in modo telematico. In un momento in cui ciascuno è chiamato a diventare un imprenditore autonomo che valorizza anche il suo capitale-salute, perché rischiare l’ignoto al di fuori della famosa cerchia familiare che costituisce notoriamente un modello di salubrità fisica e mentale? Il distanziamento fisico permanente tra individui permetterebbe così che il gregge si mantenga in buona salute e produttivo malgrado l’epidemia in corso e quelle a venire, facilitando la sorveglianza, l’identificazione e l’isolamento dei corpi sospetti, indocili o superflui grazie ad una massa circolante meno compatta. Allo stesso modo consentirebbe di accelerare una ristrutturazione del flusso dei contatti e dei rapporti umani ottimizzandoli maggiormente affinché non si perdano più in tutti questi eccessi di vita troppo umani e decisamente improduttivi. Ammettiamo che contestare un tale progetto verso un mondo meglio ordinato e più fluido che arriva fino alla minima nostra interazione fisica sarebbe a dir poco irresponsabile!
Un simile progetto di massa non può beninteso funzionare in modo unilaterale grazie al solo manganello, e cosa c’è di meglio di un’epidemia col suo corteo di morti per poter contare sulla partecipazione di una maggioranza di cittadini impauriti che preferiscono la sicurezza alla libertà, la gerarchia accettata alla reciprocità senza delega, l’autorità rassicurante all’auto-organizzazione incerta? A titolo di esempio, gli occhi del potere che già si esercitavano a individuare ogni assembramento sospetto, a reprimere qualsiasi movimento incontrollato di massa, a regolare i comportamenti imprevedibili al di fuori della circolazione ordinaria non sono più soli: «mantenete la distanza» e che ognuno rimanga chiuso nel suo perimetro invisibile, rischia di diventare una delle ingiunzioni più banali, sia essa sbraitata da un drone poliziesco o borbottata da qualcuno perso nel suo schermo.
Il fatto che le misure di distanziamento sociale siano seguite ben oltre situazioni e relazioni interindividuali particolari, dal senso di colpa o dal riflesso di obbedienza, mantiene soprattutto l’illusione che questa società di concentramento e di flussi non sia la fonte dell’epidemia di covid-19, ma che sia sufficiente gestire bene questo momento adattandosi alle nuove condizioni perché tutto l’orrore di questo mondo possa continuare a propagarsi (quasi) come prima. Il diffuso rispetto per questo distanziamento da sé e dagli altri, insostenibile senza grossolane contraddizioni, è il risultato di un esercizio difensivo di temperanza e autodisciplina — integrato perfino in alcuni incontri o manifestazioni — che non solo non agisce contro l’esistente mortifero, ma per di più rafforza solo l’insieme delle separazioni che già lo attraversano. Separazioni in seno alla pienezza della vita per estrarne la sfera del lavoro che consenta l’economia, o quella del sapere condiviso che permetta l’educazione; completa separazione tra ciò che produciamo e le sue finalità; separazione, inoltre, tra il pensiero e l’azione, che apre la strada alla politica.
Una volta che la vita viene sezionata in pezzi catalogati e staccati gli uni dagli altri, una volta che il mondo interiore, il linguaggio e l’immaginario vengono ridotti a riprodurre un eterno presente col dominio come unico orizzonte, non restava ancora che distanziare radicalmente gli atomi fra di loro e con il loro ambiente immediato all’interno della massa informe: la crescente virtualizzazione dei rapporti vi sta in parte provvedendo, il distanziamento fisico generalizzato potrebbe completare questo lavoro di separazione dal reale, trasformando senza ritorno ciò che resta di direttamente sensibile in ognuno di noi.
 
Virus. Se ciò che preoccupa le belle anime del movimento è frenare la diffusione su scala collettiva del covid-19, si pensa veramente che moltiplicare i piccoli gesti individuali distanziati, mascherinati e di barriera cambierà la situazione, come si autogestisce la propria dose di radioattività in territorio contaminato per continuare a consumare e a produrre? Non è ovvio che gli imperativi economici li rendano altrettanto vani a livello globale quanto il differenziare i rifiuti per salvare il pianeta? Anche a costo di comportarsi da amministratori responsabili del disastro, perché non tentare allora di sradicare i principali focolai di contaminazione che ormai sono noti a tutti, come il trasporto pubblico, i commissariati, le scuole, le fabbriche e i magazzini? Tanto più che si conosce da secoli anche un comprovato rimedio contro i virus: il fuoco. Certo, questo rischierebbe di provocare tutta una serie di altri problemi, come quello di un mondo che ci ha reso completamente dipendenti, ma alla fine bisogna pur sapere cosa si vuole: cercare di frenare il virus chiedendo allo Stato più mezzi per gli ospedali e la ricerca, così come il rigoroso tracciamento delle persone contaminanti, oppure occuparsene direttamente da soli devastando l’organizzazione sociale ed economica che lo favorisce e lo propaga. Sempre che si voglia salvare qualcosa, ovviamente.
 
[Avis de tempêtes, n. 29, 15/5/20]
 

Scusa, hai da accendere?

Era il 26 febbraio 2019 quando, all’indomani di una retata di anarchici, scrivevamo:
«Oggi, in piena idiocrazia, un pensiero (“non si può fare la rivoluzione senza ammazzare”) proferito in privato (ma intercettato da qualche cimice) e per di più da terzi, viene pubblicamente usato per giustificare l’arresto di alcuni anarchici in Trentino. Rei di cosa? Di aver ospitato in casa propria qualcuno che ha espresso ad alta voce un ragionamento logico del tutto ovvio? No, non si può fare la rivoluzione senza ammazzare. Così come non si può fare una frittata senza rompere le uova. E allora? Fare simili osservazioni non significa essere un killer né uno chef. Una tale banalità può essere considerata prova a carico solo da inquirenti bimbiminkia, può essere sbattuta in prima pagina solo da giornalisti bimbiminkia, può indignare solo cittadini bimbiminkia. Psicoreato creato dalla forza dell’ignoranza.
E quanto è antiquato l’uomo con la sua dignità, se chi pretende di esercitare niente meno che la Giustizia trova sospetto e criminale il cercare di difendere la propria vita privata da una curiosità continua, assillante e palese (non ipotetica)? Non basta fare il mestiere di sbirro, bisogna proprio avere la testa ed il cuore da sbirro per non capire che ogni intrusione nella vita privata altrui è insopportabile. Altrimenti, perché mai 1984 è considerato un romanzo su una società totalitaria da incubo? In fin dei conti, i suoi abitanti erano liberi di obbedire al regime; in fin dei conti, se non facevano nulla di male non avevano nulla da temere da quella sorveglianza incessante; in fin dei conti, per evitare di finire nella stanza 101 dovevano solo dire di sì ad ogni decisione dall’alto. Quanta idiozia è necessaria per non capire che ad essere trasparenti dovrebbero essere coloro che pretendono di governare gli altri, se vogliono sperare di essere creduti nei propri disinteressati intenti, giacché la trasparenza di comportamenti richiesta a chi viene governato non è che controllo poliziesco totalitario? Vero è che, subissati da quotidiani programmi televisivi che abituano a sbirciare l’intimità altrui e sovrastati da ansie telematiche di condivisione, la pretesa sbirresca di un controllo onnipresente diventa quasi scontata.
Poiché tutto si tiene con tutto, è letteralmente tutto che sta imputridendo sotto i nostri occhi ed il nostro naso rendendo l’aria letale. La meschinità politica si accompagna allo squallore sociale, che si accompagnano alla grettezza economica, che si accompagnano alla miseria affettiva, che si accompagnano alla devastazione ecologica, che si accompagnano alla mediocrità artistica, che si accompagnano alla inettitudine filosofica, che si accompagnano a…
Lungo questa china, che sorta di cosa è diventata la specie umana? Rimanere aggrappati alla propria umana antiquità è un dolce conforto, non un grande stimolo. Resistenza senza attacco. Per risalire quella china — anzi, per superarla e puntare alle stelle — interrompere il rifornimento dell’ignoranza è il minimo che si possa progettare ed iniziare ad intraprendere».
È trascorso poco più di un anno. Non siamo più solo in piena idiocrazia, ma anche in dichiarata pandemia virale. Un binomio micidiale giacché è noto come uno degli effetti del terrore sia quello di paralizzare (ciò che resta de) il pensiero. No, non si tenta di risalire quella china, si continua a precipitare nell’abisso — e sempre più rapidamente. Il controllo onnipresente è diventato in poche settimane non più una semplice pretesa sbirresca, ma una vera e propria misura legal-sanitaria approvata ed introiettata da gran parte della popolazione mondiale, il cui imputridimento etico è arrivato alla autoreclusione volontaria, alla delazione di chi osa prendere il sole all’aperto, al linciaggio dei runner. Se fino allo scorso secolo l’essere umano era pronto a combattere e a morire pur di strappare e difendere la propria libertà, oggi è pronto a rinunciarvi pur di sopravvivere. Pronto ad accettare di uscire di casa solo umiliandosi con una auto-certificazione scritta. Pronto ad accettare di venire controllato in ogni minimo spostamento. Pronto ad accettare di rendere conto di ogni sua decisione. Pronto ad accettare di venire sorvegliato da droni, di venire «tracciato» da dispositivi elettronici, di venire marchiato con vaccini o microchip… Ecco cosa è diventata la specie umana.
Non stupisce perciò molto la notizia dell’ennesima retata di anarchici, scattata lo scorso 14 maggio su ordine della Procura di Bologna. Anche questa volta gli inquirenti non hanno mancato di ostentare una becera sincerità sul conto delle loro motivazioni. Se un anno fa non si facevano scrupoli nel dichiarare che per finire nel loro mirino basta che qualcun altro esprima in casa propria un pensiero loro sgradito, oggi — dopo aver tranquillamente precisato che solo uno dei dodici inquisiti (sette dei quali arrestati) è ritenuto responsabile del principale reato specifico perseguito — finiscono il loro comunicato stampa con queste parole: «In tale quadro, l’intervento, oltre alla sua natura repressiva per i reati contestati, assume una strategica valenza preventiva volta ad evitare che in eventuali ulteriori momenti di tensione sociale, scaturibili dalla particolare descritta situazione emergenziale, possano insediarsi altri momenti di più generale “campagna di lotta antistato” [sic!] oggetto del citato programma criminoso di matrice anarchica».
Linguaggio chiaro e preciso, seppur legnoso, come ai vecchi tempi! Pare che in Italia non sia stato affatto Mussolini l’inventore degli arresti preventivi, i quali erano già stati attuati dal governo (del futuro antifascista) Nitti nel gennaio del 1920 alla vigilia di uno sciopero di ferrovieri. I trascinatori degli organismi di base furono prelevati dalla loro casa prima ancora che le agitazioni avessero inizio. Il regime totalitario fascista non fece altro che ripetere, estendere e consolidare questa prassi già in uso, mandando al confino o facendo arrestare teste calde non per qualcosa che avevano commesso, ma per ciò che avrebbero potuto commettere. Il regime totalitario democratico odierno, avendo già confinato in casa tutti i suoi sudditi col pretesto di un’epidemia, deve ricorrere al carcere per attuare questo medesimo intervento di rivendicata «strategica valenza preventiva»: quando il clima sociale è quello di una polveriera, chi mostra una certa passione per i fiammiferi deve essere neutralizzato. Non dopo, né durante, ma prima, possibilmente molto prima che divampi l’incendio. Colpire alcuni per avvisarne molti. Punto e basta, senza cavillose perdite di tempo o pedanterie giuridiche.
Avendo già fatto strage di ogni minima libertà individuale — e dei diritti costituzionali da tanti strombazzati — fra il plauso o la comprensione di quasi tutte le sue vittime, cosa volete che sia per il potere fare una retata negli ambienti sovversivi indirizzata a reprimere ciò che si è e non ciò che si è fatto? Chi volete che se ne accorga, a parte i compagni degli arrestati, diretti o trasversali che siano? Chi volete che se ne adiri, i cittadini ammutoliti dalla mascherina e accecati dal disinfettante?
Beh, per lo meno un pregio lo ha avuto la schiettezza esibita dagli inquirenti. Spiegando quali siano le loro motivazioni, hanno mostrato anche quali siano le loro preoccupazioni. Diciamo che le hanno fatte intuire, capire, intravvedere… Per conoscerle fino in fondo, bisognerà osservarle più da vicino, toccarle, illuminarle. Magari con un fiammifero.
 

Ognuno ha le sue debolezze

In periodo di confinamento, alcuni non hanno più granché da mettere sotto i denti. Questo è dovuto principalmente alla chiusura di molti negozi di alimentari. Ma per soddisfare il loro feroce appetito, i nostri amici roditori, che sono dotati di un olfatto assai sviluppato tra le specie che popolano il pianeta, hanno trovato una prelibatezza altrettanto succulenta e abbondante.

A partire dal XVIII secolo, Rattus norvegicus ha progressivamente sostituito alle nostre latitudini Rattus rattus, più comunemente chiamato «ratto nero». Più grande, più grosso e più goloso del suo predecessore, possiede un gusto assai sviluppato e non esita a scegliere il proprio cibo per trovare gli alimenti che più gli piacciono. D’altra parte, è in grado di registrare il gusto di ciò che mangia e riesce perfino a capire se un alimento che già conosce sia stato modificato.

A Poitiers, nella Vienne, la notte tra l’11 e il 12 aprile i nostri fini buongustai si sono concessi una leccornia situata sotto il cemento tra il municipio e la biblioteca multimediale. Ma cosa ci potrà mai essere a pochi metri sotto i nostri piedi che i roditori sappiano apprezzare adeguatamente? Cavi in fibra ottica le cui guaine sono ricche di amido. Questi potrebbero dunque diventare uno dei loro pranzi preferiti negli anni a venire, considerata la loro diffusione in tutto il territorio.

Il loro pasto non è stato gradito dal dominio, avendo escluso in particolare diversi server installati nei siti annessi del Comune.

Questo piccolo animale molto mobile e con un’alta capacità riproduttiva non ha mai goduto di grande popolarità nel corso della storia, soprattutto perché è considerato responsabile della propagazione della peste oltre che di una moltitudine di malattie. Ma che importa la cattiva reputazione, questa esagerata squisitezza del Poitou può parlare al cuore di coloro che hanno già gioito per i recenti sabotaggi contro la rete…

Da lì a vedervi la zampata di un movimento di ultra-Rattus che, in pieno confinamento, moltiplica i pasti ricchi di fibre e rosicchia le arterie del dominio tecnologico…

11/05/2020, Finimondo

Tradotto da Sans attendre demain

La bell’arte del sabotaggio

Tra gli idioti della rete che vedono il capitalismo e lo Stato unicamente sotto forma di grandi figure mediatiche o di oscuri interessi che governerebbero il mondo, e gli sciocchi felici del movimento rrrivoluzionario incapaci di comprendere che una relazione sociale s’incarna anche negli uomini e nelle strutture del dominio all’angolo della strada, stiamo assistendo a una vera e propria gara a chi la spara più grossa. Alcuni s’inventano dei cattivoni capri espiatori, distanti e caricaturali il più possibile, mentre altri fanno acquisire coscienza dei bisogni primari o documentano i minimi recessi intricati della miseria e dell’oppressione del momento.
Non sorprende quindi che molti di loro non sappiano offrire altro che un imbarazzato silenzio di fronte alla moltiplicazione di attacchi che stanno colpendo alcune strutture del potere, soprattutto di telecomunicazione, in pieno confinamento. Gli uni perché questi attacchi colpiscono necessariamente accanto al club di burattinai che esiste solo nella loro testa, gli altri perché non distruggono collettivamente delle astrazioni. Dato che gli autori di questi attacchi sono spesso abbastanza furbi da non lasciare alcuna indicazione a nessuno, ciò diventa subito il colmo dell’incomprensione per ogni griglia di lettura troppo limitante. Come, individui che si permettono di sabotare le strutture dello Stato e del capitale fuori da un movimento sociale e per ragioni proprie, senza rendere conto a nessuno né trasmettere altri segnali al di là di mucchi di cavi bruciati o tagliati! Come, individui che osano pensare ed agire da soli in ogni angolo del territorio senza rispettare il confinamento del potere né spandere il loro morboso pathos davanti all’orrore del mondo? Sarebbe dunque questo l’autismo degli insorti, l’assenza di rivendicazioni rivolte a chicchessia (allo Stato come al movimento), ma le cui azioni parlano direttamente a tutti coloro che vi si riconoscono, le condividono e possono riprodurle a proprio piacimento? Come si fa ad inserirle nelle nostre piccole caselle, trattandosi di azioni individuali, anonime e diffuse, perfino coordinate, e avendo di fronte lo Stato che ci martella col suo ritornello contro-insurrezionale («cospirazionisti», «ultra-sinistra», ecc…)? È meglio fare i pappagalli poliziotteschi alla «chi è?» o gli struzzi innocentisti alla «guardate altrove»? Rifarsi alle griglie interpretative del potere o riflettere da sé difendendo ciascuno a proprio modo gli atti che ci ispirano?
Ad esempio, traendo la constatazione che il dominio ha più che mai bisogno di cavi in fibra ottica o di antenne-ripetitori per spingere una digitalizzazione applicata a tutti i campi dell’economia e della vita sociale. Non solo in materia di controllo e di sorveglianza (dai droni ai tablet Neo, dal coordinamento di polizia alle telecamere, dai processi in videoconferenza al tracciamento dei potenziali appestati), ma anche per accelerare il telelavoro, la scuola a distanza, la tele-medicina o da un po’ di tempo la circolazione di denaro e di affari. Per non parlare degli aspetti più miserabili della derealizzazione tecnologica in termini di relazioni o di passatempi virtuali, o tutto ciò che questo periodo di ristrutturazione ci assicura ancora come piacere. In questa prigione sociale a cielo aperto, diventa ogni giorno sempre più evidente che il «deconfinamento» è solo un’estensione del «confinamento» accompagnato da condizioni differenziate, così come la nuova normalità non è che un’intensificazione di quella precedente.
Ciò lascerà magari allibito qualche imbrattacarte di prefettura o di redazione, ma tagliare o incendiare cavi di ogni tipo attraverso cui transitano energia e dati, che per di più hanno il vantaggio di trovarsi un po’ dappertutto, ci sembra non solo una proposta di fatto all’altezza della posta in gioco, ma anche un mezzo sicuro di disturbo di questa mortifera normalità. Di quella prima del confinamento (la proliferazione di questo genere di attacchi risale almeno al periodo del movimento dei gilet gialli), come di quella che si profila oggi. E far tacere le poche voci sovversive che difendono apertamente la bell’arte di sabotare gli ingranaggi del dominio, in particolare le sue infrastrutture critiche, non cambierà la situazione: queste azioni diffuse e varie sono ormai promesse di un bell’avvenire distruttivo in questo migliore dei mondi tecnologizzati. Un mondo di autorità in cui la miseria e l’avvelenamento del pianeta nel nome del denaro ci ricordano costantemente che il capitalismo è un sistema mortifero e che lo Stato è un nemico.
[trad. da demesure]