Nessuna normalità

«Mai visto in vent’anni», ha dichiarato lo scorso mercoledì 6 maggio un alto dirigente di una delle principali compagnie telefoniche francesi. A cosa si riferiva? Al panico nazionale scatenato in questo periodo di pandemia, al profitto che la propria azienda ricaverà grazie al confinamento che da settimane costringe milioni di utenti a stare incollati ai dispositivi elettronici, al crollo del livello di inquinamento dell’aria dovuto alla quarantena…? No, si riferiva a tutt’altro: al sabotaggio avvenuto il giorno precedente nell’Île-de-France, la regione in cui si trova la capitale del paese con i suoi ministeri politici e le sue sedi centrali finanziarie ed economiche. Un sabotaggio definito «intenzionale e su larga scala», avvenuto per di più solo 48 ore dopo che un giornale parigino aveva lanciato il pubblico allarme sulla «ripresa dell’azione diretta» in tutto l’esagono contro le (infra)strutture del dominio.
La misura del confinamento, proclamata lo scorso 17 marzo dal governo francese per arginare la pandemia, non è infatti servita a fermare l’offensiva — di logoramento, si potrebbe dire — che da anni è in corso su tutto il territorio contro il potere. Da nord a sud, da est ad ovest, sono centinaia e centinaia gli attacchi avvenuti nel recente passato non solo contro caserme, banche ed imprese, ma anche e soprattutto contro i mezzi tecnici che permettono il normale funzionamento di questo mondo: tralicci, ripetitori, parchi eolici, antenne, centrali elettriche e centraline di ogni tipo… Azioni semplici, alla portata di tutti gli arrabbiati, realizzate con i mezzi più disparati, e proprio per questo tenute lontano dalla ribalta nazionale al fine di neutralizzarne il cattivo esempio, relegandole a fatti di irrilevante cronaca locale. Così, mentre chiunque udiva (tremante o festoso) il tonfo delle vetrine infrante che cadevano nei centri cittadini nel corso delle grandi manifestazioni periodiche, quasi nessuno sentiva crescere giorno dopo giorno la selva oscura della rivolta anonima. Snobbate dagli aspiranti strateghi di movimenti sociali bisognosi di consenso, le azioni dirette sono state sostenute ed amplificate solo da chi non fa investimenti sulla rabbia.
Ebbene, se l’emergenza sanitaria è riuscita a svuotare rondò e piazze di Francia dai contestatori in giallo che settimanalmente le affollavano, nulla ha potuto contro la determinazione e la fantasia dei singoli sabotatori — con enorme fastidio di funzionari di Stato e dirigenti di impresa (nonché di qualche teorico rrrivoluzionario). Secondo i dati ufficiali, nel mese di aprile è stato compiuto quasi un sabotaggio al giorno, il cui fruscio è paradossalmente rimbombato nel silenzio dei cori di protesta. Talmente fragoroso da attirare l’attenzione generale? La scorsa domenica, 3 maggio, il quotidiano Le Parisien ha dato risalto all’ondata di sabotaggi avvenuti un po’ dovunque, sul cui conto sarebbero in corso una decina di indagini giudiziarie. Mai rivendicati da nessuno, questi sabotaggi vengono «attribuiti all’ultrasinistra», qui intesa come sinonimo di mouvance sovversiva (laddove nell’ambito specifico che potrebbe riconoscersi in quella definizione c’è chi li rimanda invece a «eco-nichilisti» o a «nostalgici dello Stato Islamico», senza dimenticare che alcuni «“anarchici” possono essere, teoricamente e socialmente, più vicini a Julius Evola che a Errico Malatesta» [sic!]). I lettori del Parisien vengono inoltre informati dell’esistenza di un paio di siti anarchici che esultano nel riportare la notizia di queste azioni dirette, che per altro si stanno diffondendo anche altrove in Europa (vengono nominati Italia e Paesi Bassi).
Sarà il caso, sarà una coincidenza, sarà un’irresistibile ispirazione, fatto sta che due giorni dopo quel grido d’allarme l’epidemia di sabotaggio arriva alle porte di Parigi. Durante la giornata di martedì 5 maggio le fibre ottiche di alcuni gestori telefonici vengono tagliate in più punti della periferia a sud-est (a Valenton, Fontenay, Créteil, Ivry, Vitry), provocando un gigantesco black-out telematico sia nella Val-de-Marne sia in alcune zone della capitale stessa. All’inizio si sospetta che sia stato un solo individuo, armato di smerigliatrice, ad aver agito in un paio di tombini di una zona industriale. Ma poi, col passare delle ore e l’arrivo di ulteriori segnalazioni di guasti, si comincia a pensare che si sia trattato di un attacco coordinato e perfettamente organizzato, i cui danni pare ammontino ad un milione di euro. Chi si è introdotto nelle cabine sotterranee delle compagnie telefoniche non ha rubato nulla, si è limitato a tranciare di netto i cavi di fibra ottica colpendo così «la rete nevralgica della rete internet francese, dove si trovano anche nodi di comunicazione internazionale». Ci vorranno ancora parecchi giorni per ripristinare del tutto il servizio, con gran disagio per decine e decine di migliaia di utenti. Niente chiamate ad amici e parenti? Già, ma soprattutto niente scambi commerciali, niente telelavoro, niente segnalazioni ai gendarmi, niente commissariati connessi, niente videosorveglianza, niente alienazione tecnologica.
«Sabotaggi a ripetizione» tuoneranno il giorno dopo gli organi d’informazione transalpini, sorpresi della facilità con cui possano essere disturbati gli affari pubblici. E nel lanciarsi tutti dietro alla pista sovversiva anticipata dai loro colleghi del Parisien, ieri (giovedì 7 maggio) c’è stato persino chi ha tenuto a precisare che sono tre, non due, i siti anarchici che festeggiano i sabotaggi; oltre a quelli già indicati (Sans Attendre Demain e Attaque), ce n’è un altro di cui non si riporta il nome ma che ha il cattivo gusto di pubblicare la traduzione di un testo italiano (ampiamente citato nell’articolo in questione) che saluta il pensiero stupendo avuto da chi in piena pandemia continua ad attaccare, invece di iniziare a tremare. Evidentemente fra i professionisti della propaganda poliziesca c’è chi ambisce ad infittire la trama a dismisura, spingendosi al di là delle Alpi…
Ancora uno sforzo, sbirri e giornalisti, se volete fermare l’epidemia di sabotaggi! Indicare i pochi che sostengono ad alta voce queste azioni, per poi eventualmente metterli a tacere, potrà forse soddisfare la brama di facile rappresaglia, ma di certo non fermerà la rabbia che trova sempre più motivazioni per dilagare, in Francia come altrove. Se già nella notte fra il 5 e il 6 maggio un ripetitore è stato incendiato a Oriol-en-Royans, ad oltre 600 km a sud-est di Parigi, mentre la sera successiva la stessa sorte è toccata ad un ripetitore a Languenan, a 400 km ad ovest della capitale, non è certo per permettere a tre siti anarchici di aggiornare le loro pagine. Se antenne e impianti elettrici si infiammano ovunque nel mondo, dall’Italia (l’ultima volta il 29 aprile a Roma, o forse il 6 maggio a Pozzuoli, dove è esploso un trasformatore in una centrale elettrica) al Canada (nell’area di Montréal, l’ultima volta il 4 maggio), dai Paesi Bassi (una ventina i sabotaggi realizzati a partire dai primi di aprile, l’ultimo dei quali a L’Aja, il 4 maggio, contro una antenna usata da polizia ed esercito) agli Stati Uniti (l’ultima volta a Philadelphia, all’inizio di maggio), senza dimenticare la Gran Bretagna o la Germania, non è perché esista un complotto internazionale anarchico contro le compagnie energetiche e telefoniche, ma perché ovunque si sta diffondendo una medesima consapevolezza: la normalità è la catastrofe che produce tutte le catastrofi. Non si tratta di invocare il suo urgente ritorno o la sua educata revisione a chi sta in alto. Si tratta, per chi sta in basso, di ostacolarne il ritorno sia teoricamente che praticamente.
[8/5/20]

Quarantena o morte!?

«Le malattie infettive sono un argomento triste e terribile, certo,
ma in condizioni ordinarie sono eventi naturali,
come un leone che sbrana uno gnu o un gufo che ghermisce un topo»
David Quammen, Spillover, 2012

 

O come un terremoto che fa tremare il suolo, o come uno tsunami che sommerge le coste. Laddove non provocano vittime, o quasi, questi fenomeni non vengono nemmeno notati. È solo quando il macabro conteggio comincia a salire che cessano di essere considerati eventi naturali per diventare immani tragedie. Ed assumono contorni terribili e insopportabili soprattutto quando si verificano sotto i nostri occhi, qui ed ora, non in un continente o in un passato lontani facili da ignorare. Ora, quand’è che questi eventi di per sé naturali seminano la morte? Quando il loro verificarsi non viene tenuto minimamente in considerazione, presupposto per non prendere alcuna misura precauzionale nei loro confronti. Costruire case in calcestruzzo in zone altamente sismiche, ad esempio, è un modo sicuro per trasformare un terremoto in una catastrofe. In attesa delle prossime piogge, disboscare una montagna significa preparare una frana che spazzerà via il paese sottostante, così come cementare il letto di un fiume che attraversa zone abitate significa promettere un’esondazione che manderà sott’acqua sotterranei e parti basse degli edifici.
Lo stesso si può dire di una pandemia. Se un microrganismo è in grado di uccidere ovunque non è perché la natura è tanto cattiva e deve essere perciò addomesticata dalla scienza che è buona. Prendiamo ad esempio il coronavirus: prima l’organizzazione sociale dominante lo ha creato (con la deforestazione e l’urbanizzazione), poi lo ha diffuso in tutto il pianeta (con la circolazione aerea e il sovraffollamento), infine ne ha aggravato gli effetti (con la carenza di mezzi idonei a curarli e la concentrazione delle persone più predisposte e sensibili al contagio, trasformate in cavie delle più disparate terapie somministrate secondo discutibili criteri). Tenuto conto di ciò, dovrebbe essere chiaro che il modo migliore per ostacolare il più possibile la comparsa di un virus maligno – impedirla del tutto sarebbe pretenzioso quanto impedire un uragano, considerato poi che il corpo umano è sempre pieno di virus e di batteri di vario genere – è di sovvertire da cima a fondo il mondo in cui viviamo, al fine di renderlo meno favorevole allo sviluppo di epidemie. Mentre il modo migliore per evitare un’eventuale infezione è quello di rafforzare il sistema immunitario.

Si tratta di una duplice prevenzione, sull’ambiente generale e sui corpi particolari, che però non riscuote alcun favore. La prima perché comporta una trasformazione sociale ritenuta utopica in quanto troppo radicale, la seconda perché è un intervento biologico considerato insufficiente in quanto troppo individuale. Rimedi troppo vaghi e lontani, soprattutto viziati da un difetto fondamentale: non sono erogabili da uno Stato cui si è affidato il compito di sollevare dalla fatica di vivere. Insomma, misure poco pragmatiche e non rivendicabili all’alto. Nulla a che vedere con il potenziamento dei servizi sanitari o l’invenzione di un vaccino, rimedi oggi impetrati a gran voce da tutte le parti.

Nel nostro universo mentale a senso unico la questione della salute è come tutte le altre, oscilla fra le due corsie della via maestra data per scontata e obbligata: settore pubblico gestito dallo Stato oppure settore privato gestito dalle imprese? Poiché il secondo è riservato ai ricchi, è dal primo che la stragrande maggioranza delle persone si attende con urgenza la salvezza. Tertium non datur, direbbero i latini (e chi accusa i critici del sistema ospedaliero di fare il gioco delle cliniche di lusso). Ma dato che questa via maestra è quella perorata dal dominio e dal profitto, non sarà certo privilegiando una corsia rispetto all’altra che si potrà cambiare una situazione che è frutto proprio dell’esercizio del dominio e della ricerca del profitto.

Ecco perché è necessario fugare l’aura di ineluttabilità che fa da scudo a questa società, impedendo di intravedere altre possibilità. Qui però si sbatte contro una difficoltà in più. Quando e come uscire di strada per esplorare altri sentieri, se quando si gode di ottima salute non si pensa mai alla malattia, mentre quando si è malati si pensa solo a come venire guariti il più in fretta possibile? E come riuscirvi senza mettere in discussione non solo l’istituzione medica, ma anche il concetto stesso di salute, nonché il significato di sofferenza, di malattia e di morte?

Pensiamo ad esempio a come oggi chi osa osservare che la morte fa parte della vita, soprattutto superati gli ottant’anni di età, venga bollato di cinismo malthusiano (da chi, da aspiranti all’immortalità transumanista?). Oppure pensiamo alle considerazioni formulate a suo tempo da Ivan Illich sulla nemesi medica. Se oggi, in piena psicosi da pandemia, questo critico non certo sospettabile di estremismo anarchico fosse ancora vivo e si azzardasse a fare uno dei suoi interventi, verrebbe linciato prima sulla piazza virtuale e poi su quella reale. Ve lo immaginate se, davanti ad un pubblico distanziato e con i suoi asettici dispositivi di protezione, in spasmodica attesa di un vaccino salvifico, qualcuno cominciasse a sostenere che «solo limitare la gestione professionale della sanità può permettere alla gente di mantenersi in salute», o che «il vero miracolo della medicina moderna è di natura diabolica: consiste nel far sopravvivere non solo singoli individui, ma popolazioni intere, a livelli di salute personale disumanamente bassi. Che la salute non possa se non scadere col crescere della somministrazione di assistenza è una cosa imprevedibile solo per l’amministratore sanitario», o che «nei paesi sviluppati, l’ossessione della salute perfetta è divenuta un fattore patogeno predominante. Ciascuno esige che il progresso ponga fine alle sofferenze del corpo, mantenga il più a lungo possibile la freschezza della gioventù e prolunghi la vita all’infinito. È il rifiuto della vecchiaia, del dolore e della morte. Ma si dimentica che questo disgusto dell’arte di soffrire è la negazione stessa della condizione umana», magari concludendo con la preghiera «non lasciateci soccombere alla diagnosi, ma liberateci dai mali della sanità»?

Simili affermazioni, in giorni isterici come quelli che stiamo attraversando, apparirebbero come minimo di cattivo gusto persino a certi militanti rivoluzionari, ridotti chi ad attribuire ad uno Stato capitalista il compito di debellare un virus capitalista, chi a passare dal ruggito libertà o morte! al miagolio quarantena e sopravvivenza!. Eppure, la tanto bramata autonomia che si vorrebbe raggiungere facendola finita con tutte le dipendenze, può mai rinunciare alle sue intenzioni davanti al corpo umano, alla sua vita come alla sua morte?

Manifesto – Come distruggere un’antenna-ripetitore?

Ricetta per un’antenna di telefonia mobile di dimensioni standard, utilizzata da due o tre gestori telefonici. Di solito, sulla parte anteriore della struttura c’è un pannello che indica le aziende che la gestiscono.
Ingredienti:
– 2 o 3 compagni/e
– Attrezzi per entrare (tronchese, piede di porco, ecc.)
– Guanti, qualcosa per coprirsi il viso, vestiti puliti, un cappello, berretto o cappuccio (per limitare le tracce di DNA)
– Carburante (500 ml di alcool bianco o di cherosene, piuttosto che benzina)
– Carburante (100 ml di benzina)
– Vari accendi-fuoco e accendini, un lungo bastoncino o asticella (fino a 4,5 metri)
– Stracci robusti o strofinacci (per assorbire il carburante)
– Un piccolo pneumatico (di carriola, di quad, di moto, ecc.) facile da trasportare in uno zaino

manifesto “Come distruggere un’antenna-ripetitore?”

 

https://finimondo.org/node/2471

Une idée formidable

Un fait divers local. On ne sait pas quand, on ne sait pas qui, on ne sait pas pourquoi, mais on sait où. Et cela suffit pour ouvrir le cœur, même si ce qui s’est passé ne semble pas avoir eu beaucoup de succès. Mais, on le sait bien, pour certaines choses, c’est l’idée qui compte.

Une idée comme celle que quelqu’un a laissée sur le mur d’enceinte d’une entreprise à la périphérie de Lecce le week-end dernier. Ce n’était pas une affiche, ce n’était pas un tag, non, c’était une marmite remplie d’essence à laquelle étaient attachées plusieurs cartouches de gaz, le tout assorti d’un retardateur rudimentaire peut-être défectueux. Il y a eu une grande flamme, mais pas d’explosion. Les organes locaux d’information nous en donnent la nouvelle, mais ils ne peuvent préciser quand cela s’est produit. Bah, entre vendredi 24 avril au soir et lundi 27 avril au matin ? Ils ne disent pas non plus qui peut l’avoir accompli, et pour quelle raison. Bah, un acte d’intimidation ou de rétorsion de la part de quelque truand ou d’un déséquilibré ? Par contre, ils ont été très précis sur l’endroit : via del Platano 7, dans le quartier de Castromediano, au siège de l’entreprise Parsec 3.26.

Mais de quoi s’occupe la Parsec 3.26 ? Il s’agit d’une entreprise informatique spécialisée dans les technologies numériques pour l’administration publique. Par exemple, elle a créé le logiciel utilisé par la police et par les banques pour la reconnaissance faciale des visages filmés par les caméras de vidéosurveillance. Ah, rien que ça ? Aurait-elle donc été prise pour cible uniquement parce que sa passion est l’ « E-government », comme on l’apprend en parcourant son site à l’insupportable langage techno-anglo-crétinisant ? Ou, toujours en lisant son site, uniquement parce qu’ « elle a lancé un département nommé Reco 3.26, actif dans la production de software dans le domaine de la Smart Recognition… Dans la recherche de systèmes biométriques en faisant appel à une team inter-disciplinaire composée d’ingénieurs et de chercheurs… Les principaux secteurs qui vont être impactés par cette technologie sont actuellement les transports, la finance, la sécurité (publique et privée). La croissance est surtout poussée par les initiatives des gouvernements en matière de sécurité. Les entreprises appartenant à des secteurs comme celui du retail et des banques sont en train d’adopter des systèmes à reconnaissance faciale pour l’identification des clients et la surveillance de leur comportement. Les solutions proposées par Parsec 3.26 représentent aujourd’hui un état de l’art des technologies de reconnaissance en Italie pour la sécurité publique. En effet, la société s’est distinguée pour avoir réalisé une solution de reconnaissance biométrique aujourd’hui utilisée par le Ministère de l’Intérieur – Direction Centrale Anti-Criminelle – dans le cadre du système SARI » ?

Serait-il donc possible que quelqu’un soit hostile à cette entreprise « distinguée » simplement parce qu’elle aide l’État à remplir les prisons et les banques à protéger leur coffres-forts ? Mais qui l’aurait cru !

En ces temps de confinement, de checks-points, d’attestations de sortie, de traçage, de surveillance avec des drones et autres joyeusetés… – de quoi faire honte aux petits joueurs des régimes totalitaires du passé –, le fait que quelqu’un ait pu avoir une telle idée juste avant, pendant ou un peu après l’anniversaire de la Libération du nazifascisme, nous laisse sous le charme. Cela n’aura été qu’une simple flambée, mais quelle lumière splendide au milieu des ténèbres de la servitude volontaire d’aujourd’hui.

Une lumière de vengeance, une lumière de dignité, une lumière de liberté.

[traduit de l’italien de finimondo, 28/4/20]

https://demesure.noblogs.org/archives/1995

Una idea estupenda

Una noticia local. No sabes cuándo, no sabes quién, no sabes por qué, sólo sabes dónde. Y eso es suficiente para abrir tu corazón, incluso si lo que pasó no parece haber sido muy exitoso. Pero, como sabes, en algunas cosas la intención es lo que cuenta.
Un pensamiento como el que el fin de semana pasado alguien dejó en la pared de una empresa en las afueras de Lecce. No era un póster, ni una pintada, no, era una olla llena de gasolina con un par de bombonas de gas, todo ello acompañado de un rudimentario detonador quizás defectuoso. Hubo un gran llamarada pero no explotó. Al informar sobre esto, los medios de comunicación locales no pueden especificar cuándo ocurrió. ¿Entre el viernes 24 de abril por la noche y el lunes 27 de abril por la mañana? Ni siquiera dicen quién pudo haberlo hecho o por qué motivo. ¿Un acto de intimidación o represalia de algún gángster o lunático? Por otro lado, fueron muy precisos en cuanto al lugar donde ocurrió: en via del Platano 7, en el barrio de Castromediano, sede de Parsec 3.26.
¿Pero de qué se ocupa este Parsec 3.26? Es una empresa de informática especializada en tecnologías digitales para la administración pública. Por ejemplo, ha creado el software utilizado por la policía y los bancos para el reconocimiento facial de las personas capturadas por las cámaras de vigilancia. Ah, ¿eso es todo? Habrá sido objetivo sólo porque, como puede comprobarse navegando por su página web en el insoportable lenguaje tecno-anglo-cretino, su “pasión es el E-Government”? Sólo porque “comenzó una división llamada Reco 3.26, activa en la producción de sistemas de software en el campo del “smart recognition”… en la investigación de sistemas biométricos y emplea equipos interdisciplinarios que incluyen ingenieros y científicos… Los sectores en los que esta tecnología tiene actualmente un mayor impacto son el transporte, las finanzas, la seguridad (pública y privada). El crecimiento está impulsado principalmente por las iniciativas gubernamentales en materia de seguridad. Las empresas de sectores como el comercio minorista y la banca están adoptando sistemas de reconocimiento facial para identificar a los clientes y vigilar su comportamiento. Hasta la fecha, las soluciones producidas por Parsec 3.26 representan el estado de las tecnologías de reconocimiento en Italia para la seguridad pública. De hecho, la empresa se ha distinguido por haber creado una solución de reconocimiento biométrico utilizada hasta la fecha por el Ministerio del Interior – Departamento Central de Lucha contra la Delincuencia dentro del sistema SARI”?
¿Cómo es posible que haya alguien hostil a esta “distinguida” sociedad sólo porque ayuda al Estado a llenar las cárceles y los bancos de las patrias para proteger sus cajas fuertes? ¡Quién lo hubiera pensado!
Bueno, el hecho de que en tiempos de confinamiento, puntos de control, auto-certificación, seguimiento, vigilancia de drones y todo eso… —que avergonzaría a los ingenuos regímenes totalitarios del pasado— alguien tuvo tal pensamiento justo antes, durante o poco después del aniversario de la liberación del nazi-fascismo, estamos encantados. Puede que haya sido sólo un incendio, pero qué espléndida luz en medio de la oscuridad de la servidumbre voluntaria de hoy en día.
Luz de la venganza, luz de la dignidad, luz de la libertad.

[finimondo.org]

Pensiero stupendo

Un fatto di cronaca locale. Non si sa quando, non si sa chi, non si sa perché, si sa solo dove. E ciò basta per aprire il cuore, anche se ciò che è successo pare non abbia avuto molto successo. Ma, come si sa, in certe cose è il pensiero che conta.
Un pensiero come quello che lo scorso fine settimana qualcuno ha lasciato sul muro di cinta di una ditta, alla periferia di Lecce. Non era un manifesto, né una scritta, no, era una pentola piena di benzina con attaccate un paio di bombolette di gas, il tutto corredato da un innesco rudimentale forse difettoso. Una grande fiammata c’è stata, l’esplosione no. Nel darne notizia, gli organi di informazione locali non sanno specificare quando ciò sia avvenuto. Boh, tra venerdì 24 aprile sera a lunedì 27 aprile mattina? Non dicono nemmeno chi possa essere stato, e per quale motivo. Boh, un atto di intimidazione o di ritorsione da parte di qualche malavitoso o squilibrato? In compenso sono stati molto precisi sul dove si sia verificato: in via del Platano 7, nel rione Castromediano, sede della Parsec 3.26.
Ma di cosa si occupa codesta Parsec 3.26? È un’azienda informatica specializzata in tecnologie digitali per la pubblica amministrazione. Ad esempio, ha creato il software usato dalla polizia e dalle banche per il riconoscimento facciale di chi viene ripreso dalle telecamere di videosorveglianza. Ah, tutto qui? Sarà stata presa di mira solo perché, come si apprende scorrendone il sito dall’insopportabile linguaggio tecno-anglo-cretinizzante, la sua «passione è l’E-Government»? Solo perché «ha avviato una divisione denominata Reco 3.26, attiva nella produzione di sistemi software nell’ambito smart recognition… nella ricerca in sistemi biometrici e si avvale di team interdisciplinari che includono Ingegneri e Scienziati… I settori maggiormente nei quali va a impattare questa tecnologia attualmente sono i trasporti, finanza, sicurezza (pubblica e privata). La crescita è spinta soprattutto dalle iniziative dei governi in tema di sicurezza. Le aziende appartenenti a settori come quello del retail e quello bancario stanno adottando sistemi di riconoscimento facciale per l’identificazione dei clienti e il monitoraggio del loro comportamento. Ad oggi le soluzioni prodotte Parsec 3.26 rappresentano lo stato dell’arte delle tecnologie di riconoscimento in Italia per la pubblica sicurezza. Difatti la società si è contraddistinta, per aver realizzato una soluzione di riconoscimento biometrico ad oggi utilizzata dal Ministero dell’interno – Direzione Centrale Anticrimine nell’ambito del sistema SARI»?
È mai possibile che ci sia qualcuno ostile a questa «contraddistinta» società solo perché aiuta lo Stato a riempire le patrie galere e le banche a proteggere le proprie casseforti? Chi lo avrebbe mai detto!
Ecco, il fatto che in tempi di confinamento, posti di blocco, autocertificazioni, tracciamento, sorveglianza coi droni e quant’altro… — roba da far vergognare quelle mammolette dei regimi totalitari del passato — qualcuno abbia avuto un simile pensiero poco prima, durante o poco dopo l’anniversario della Liberazione dal nazifascismo, ci lascia incantati. Sarà anche stata solo una fiammata, ma quanta splendida luce in mezzo alle tenebre dell’odierna servitù volontaria.
Luce di vendetta, luce di dignità, luce di libertà.
***
La notizia sui media locali:

(Non) Ci sono paragoni?

«Tra l’11 giugno 1940 e il 1 maggio 1945, durante la seconda guerra mondiale, a Milano persero la vita sotto i bombardamenti 2 mila civili, in 5 anni; per il coronavirus, in due mesi, in Lombardia ci hanno lasciato 11.851 civili, 5 volte di più… Un riferimento numerico clamoroso»

Domenico Arcuri, 18 aprile 2020

In effetti, ha proprio ragione. Il riferimento numerico avanzato ieri mattina dal commissario all’emergenza è davvero clamoroso. Pure noi ne siamo rimasti impressionati. Va da sé che lo scopo del funzionario, come dei vari mass-media che ne hanno ripreso ed amplificato le parole, è solo quello di aggiungere paglia sul fuoco della retorica bellica con cui il governo intende raggiungere un’unità nazionale altrimenti impensabile. Ma questo confronto fra i bombardamenti del passato e la pandemia del presente è interessante da molti punti di vista, oseremmo quasi dire rivelatore. Ecco perché vale la pena soffermarvisi un attimo. Ma solo un attimo, sia chiaro. Sul bordo del baratro, troppe vertigini potrebbero fare male.
Già incaponirsi a descrivere un’emergenza sanitaria come se fosse un conflitto militare è imbarazzante. Essendo stato detto e ripetuto fino allo sfinimento che questo virus non è un’arma biologica e non è stato creato in qualche laboratorio segreto, si può escludere che a seminare morte negli ospedali e nelle case di riposo lombarde sia stata l’improvvisa aggressione di un esercito straniero. L’inevitabile destino è stato semmai accelerato dal prolungato predominio dell’economia su ogni aspetto dell’esistenza umana. Migliaia di anziani e malati sono morti perché oramai il profitto è diventato al tempo stesso la ragione sociale delle imprese, la ragione politica degli Stati e la ragione di vita degli esseri umani, al cospetto del quale tutto è deperibile, dalle misure di sicurezza agli affetti familiari. Ma poiché il rimedio pratico a questa ovvietà non si limiterebbe a sospendere il tran-tran quotidiano per un periodo, bensì a porvi fine per sempre, il solo modo per ripristinare la normalità è quello di attribuire alla natura invisibile responsabilità di uno Sviluppo portato avanti da precise persone che rivestono un ruolo sociale specifico ed hanno nome, cognome e indirizzo.
È stupefacente come chi è preso dal clamore di questo riferimento storico-numerico non si renda conto che paragonare i bacilli di un virus ai piloti alleati non è esattamente una brillante trovata. Né lo è paragonarne le vittime. I bombardamenti che colpirono Milano tra il 1940 e il 1945 furono realizzati dalle forze inglesi ed americane allo scopo di colpire il governo fascista, all’epoca alleato col nazismo. L’intento era spingere la popolazione alla rivolta contro Mussolini. A quale mente bacata può venire in mente di paragonare quella guerra con questa pandemia? All’epoca sotto le macerie di una città morirono migliaia di uomini, donne e bambini, dilaniati dalle bombe. Si possono paragonare con le vittime oggi conteggiate in un’intera regione solo per via del risultato, per altro dall’esito sempre incerto, di un tampone? I 200 bambini sicuramente vittime del bombardamento che nell’ottobre del 1944 fu effettuato per tentare di distruggere la fabbrica Breda, possono mai essere paragonati ai 160 anziani morti in parte per un virus al Pio albergo Trivulzio?
Il riferimento numerico del commissario all’emergenza non è perciò solo clamoroso, è soprattutto aberrante. Ma c’è un particolare che lo rende quasi comico. Infatti, se quella contro il virus è una guerra perché in Lombardia in due mesi si dice abbia prodotto cinque volte le vittime dei bombardamenti di Milano durante la seconda guerra mondiale, allora in Germania cosa dovrebbero dire? Che si stanno proteggendo contro le zanzare? In fondo cosa sono per quella nazione le oltre 4.000 vittime odierne attribuite al virus, paragonate alle centinaia di migliaia di esseri umani periti in quegli anni fra le macerie di Amburgo, Dresda, Berlino…?
Inoltre, c’è da rimarcare che un’ottantina di anni fa il morale della popolazione civile italiana è stato oggetto di continue discussioni tra i vertici politici e militari inglesi, i quali erano certi che l’Italia sarebbe stato l’unico paese in Europa a crollare rapidamente sotto i bombardamenti. Nell’agosto 1940 Anthony Eden, segretario di Stato per la guerra, scrisse a Churchill: «È mia convinzione che sia di importanza primaria sviluppare la nostra offensiva contro gli italiani nel Mediterraneo via terra, mare e aria. L’Italia è il partner debole [dell’Asse], e abbiamo più possibilità di buttarla fuori dalla guerra bombardandola rispetto a quante ne abbiamo con la Germania». Quattro mesi dopo, una riunione al ministero della Guerra concluse che l’Italia non aveva bisogno di bombardamenti particolarmente violenti, poiché il temperamento emotivo degli italiani era talmente debole da piegarsi anche ad attacchi minori; la «psicologia degli italiani» era considerata «non adatta alla guerra». La paura provocata in tutto il Belpaese dal bombardamento su Genova avvenuto il 9 febbraio 1941 sembrò confermare la considerazione del governo inglese sul coraggio italiota, avendo osservato una fonte d’intelligence: «per quanto il reale impatto del bombardamento sia stato limitato, i suoi effetti morali e psicologici sono enormi». Dopo i bombardamenti avvenuti alla fine del 1941 su alcune città del nord Italia, fra cui Milano, il capo dell’aeronautica inglese Arthur Harris notò che, sebbene fossero stati più leggeri rispetto a quelli che colpirono la Germania, «l’effetto sul morale italiano fu enorme e completamente sproporzionato».
Come dire che durante la seconda guerra mondiale gli italiani erano considerati non solo dei cialtroni che avevano dato il potere a un buffone come Mussolini, ma pure dei codardi che andavano in panico per un nonnulla. Talmente abulici da non essere in grado né di rovesciare il proprio regime che li opprimeva da vent’anni, né di prendersela con chi ora li stava bombardando («Uno degli aspetti più sorprendenti rispetto allo stato dei sentimenti in Italia è la relativa assenza di ostilità nei confronti dei britannici e degli americani. Questo atteggiamento non sembra esser stato seriamente intaccato dai recenti pesanti attacchi aerei sulle città italiane», scriveva nel 1943 Eden, divenuto ministro degli esteri).
Insomma, verrebbe pure da ridere a considerare gli odierni virologi alla stregua dei vecchi gerarchi in camicia nera — per quanto, un Burioni criminale di guerra… —, ma se proprio vogliono che paragoniamo il vile credere-obbedire-combattere di chi faceva il saluto fascista al pavido credere-obbedire-vaccinarsi di chi si confina volontariamente in casa, come non accontentarli?

Eterno apprendistato

«Su tutti i piani: politico, morale, spirituale, materiale,
si sperimenterà ciò che c’è dietro il progresso: la morte.
Che sfida!
O l’Auschwitz della natura
O la Stalingrado dell’industria
Ogni predica è inutile. Il progresso si fermerà solo da sé,
grazie alle catastrofi che provocherà»
Così scriveva a metà degli anni 70 un poeta svizzero, il cui nome non compare nella lista dei precursori della pedagogia delle catastrofi tanto cara ai sostenitori della Decrescita. Il loro indiscusso maestro Serge Latouche si è sempre dichiarato ottimista a proposito della capacità dei disastri di risvegliare la coscienza; sì… ma quale? Quella della classe politica, spinta dalla forza degli eventi a riportare sulla retta via della frugalità un’umanità smarrita, resa sorda, cieca e muta dalla prolungata dipendenza tossica dal consumismo. È una convinzione che fa capolino anche oggi, con circa metà della popolazione mondiale confinata in casa per sfuggire ad un virus ritenuto responsabile della morte di oltre 100.000 persone in tutto il pianeta.
E sarebbero gli anarchici quelli ingenui, gli illusi, gli abitanti sulla Luna! Meno male che pragmatico, concreto, coi piedi piantati per terra, viene considerato chi pretende che la pace nel mondo sia garantita dagli eserciti, che le finalità delle banche siano etiche, o che a «decolonizzare l’immaginario» ci pensi il Parlamento!
A sostegno della sua argomentazione, Latouche ricorda fra l’altro che il disastro brutto e cattivo provocato dal «grande smog di Londra» — il ristagno di un miscuglio di nebbia e fumo di carbone che dal 5 al 9 dicembre 1952 causò nella capitale inglese 4.000 morti nell’immediato e 10.000 nel periodo successivo — portò quattro anni dopo all’istituzione della bella e buona legge Clean Air Act. Il poveruomo dimentica non solo che il consumo di carbone da allora non è mai diminuito, anzi, è aumentato di pari passo all’inquinamento nelle metropoli, ma che già a Donora (Usa), dal 26 al 31 ottobre 1948, un miscuglio di nebbia e fumo delle acciaierie aveva causato 70 morti e rovinato i polmoni di 14.000 abitanti.
Allo stesso modo, non pare proprio che il disastro avvenuto nell’impianto chimico di  Flixborough (Inghilterra) l’1 giugno 1974 sia servito a prevenire quello verificatosi a Beek (Olanda) il 7 novembre 1975, e entrambi non hanno impedito la fuga di diossina avvenuta a Seveso il 10 luglio 1976. Quale lezione è stata tratta da quelle tre tragiche esperienze? Nessuna. Infatti il peggio doveva ancora arrivare e si verificò a Bophal (India) il 3 dicembre 1984, quando ci fu una vera e propria ecatombe: migliaia di morti e oltre mezzo milione di feriti per una fuoriuscita di isocianato di metile. Vi risulta che alla fine gli stabilimenti chimici siano stati chiusi? No di certo, e neanche si può dire che sia venuto meno l’uso industriale di sostanze nocive, se pensiamo al flusso di cianuro partito il 31 gennaio 2000 da una miniera d’oro in Romania che ha avvelenato le acque di diversi fiumi, fra cui il Danubio.
E i disastri provocati dalla produzione dell’oro nero, hanno mai insegnato qualcosa? L’incidente di una petroliera della ExxonMobil, incagliatasi il 24 marzo 1989 nello stretto di Prince William in Alaska, che ha causato lo sversamento in mare di oltre 40 milioni di litri di petrolio, non è certo servito ad impedire il naufragio della petroliera Haven, la quale il 14 aprile 1991 ha disperso 50.000 tonnellate di greggio nei fondali del mar Mediterraneo dopo averne bruciati 90.000 all’aperto. Una bazzecola in confronto all’incidente del 20 aprile 2010 nel golfo del Messico, quando dalla piattaforma Deepwater Horizon dipendente dalla BP furono versati in mare per ben 106 giorni dai 500 ai 900 milioni di litri di greggio.
O vogliamo parlare della più micidiale delle industrie energetiche, quella nucleare? Senza soffermarsi a citare i 130 incidenti degli ultimi cinquantanni, quello avvenuto nella centrale statunitense di Three Mile Island il 28 marzo 1979 ha forse impedito quello accaduto nella centrale russa di Chernobyl il 26 aprile 1986? Manco per niente, in compenso entrambi hanno abituato gli animi a rassegnarsi anche a quello scoppiato a Fukushijma l’11 marzo 2011. Tant’è che USA, Russia e Giappone continuano imperterriti, fra gli altri, a fare uso ancora oggi dell’energia atomica.
Ordunque, ammesso (e non concesso) che esista davvero una disponibilità ad imparare, cosa potrebbe insegnare l’attuale epidemia che sta terrorizzando il mondo intero? Che bisognerebbe rinunciare alla deforestazione, all’urbanizzazione, agli aerei… oppure che si deve potenziare la ricerca scientifica, rendere obbligatoria la vaccinazione, estendere sempre più il controllo delle autorità «competenti»? In altre parole, occorre fermare il progresso con i suoi effetti letali, oppure accelerarlo per superarli? Non c’è dubbio che per quasi tutti la necessità di arrivare al benessere tramite uno Sviluppo portato avanti dallo Stato rimane un assioma, un tabù così assoluto da non dover nemmeno essere proclamato. È questa la normalità di cui si reclama a gran voce il ritorno, e che non offre alcuna via d’uscita dalle sue false alternative. Sospesa per decreto ministeriale, verrà ripristinata in forma ancora più abbrutita. Il diritto alla movida garantito da un drone sopra la testa.
Il catastrofismo pedagogico non è che l’estremo rimedio del determinismo. Finite nella polvere della storia tutte le preci alla fatalità liberatoria della Ragione, o del Progresso, o del proletariato, o delle contraddizioni intrinseche del capitalismo… non resta che un’improvvisa tragedia planetaria a promettere il lieto fine a chi non cessa di attendere che qualcosa accada, anziché agire per farla accadere.
Finimondo

You’ll never riot alone

Nunca lucharás solx

Hay otra pandemia en curso en todo el planeta. La OMS no se ocupa de ello en absoluto, ya que no es de su competencia, y los medios de comunicación tratan de silenciarla o minimizarla. Pero los gobiernos de todo el mundo están preocupados por el riesgo que implica. Esta pandemia se está extendiendo sobre la estela del virus biológico que está llenando los hospitales. Pasa por donde pasa el Covid-19. También corta el aliento. El miedo al contagio está causando, de hecho, la rabia. Los primeros síntomas del malestar tienden a empeorar, convirtiéndose primero en frustración, luego en desesperación, y finalmente en rabia. Rabia por la desaparición, por decreto sanitario, de las últimas migajas de supervivencia que quedaban.

Es significativo que tras el anuncio de las medidas restrictivas adoptadas por las autoridades para evitar la propagación de la epidemia, una especie de arresto domiciliario voluntario, fueran precisamente quienes, tras cuatro muros ya sufrían diariamente el confinamiento por coacción – los presos – los que prendieron la mecha. El verse privados de los pocos contactos humanos que les quedaban, además, el riesgo de acabar ratones enjaulados ha llevado a lo que no sucedía durante años. La inmediata transformación de la resignación en cólera.

Todo comenzó en el país occidental más afectado por el virus, Italia, donde estallaron disturbios el 9 de marzo pasado, en una treintena de prisiones inmediatamente después de la suspensión de las conversaciones con los familiares. Durante los disturbios, murieron doce prisioneros – casi todos “por sobredosis”, según los infames velos ministeriales – otros innumerables fueron masacrados. En una ciudad, en Foggia, 77 prisioneros consiguieron aprovechar la oportunidad de escapar (aunque para muchos de ellos, por desgracia, la libertad duró demasiado poco). Tales noticias sólo podrían dar la vuelta al mundo y quién sabe si habrá inspirado las protestas que, a partir de ese momento, se extienden entre los segregados vivos de los cuatro continentes: palizas, huelgas de hambre, negativa a volver a sus celdas después del patio… Pero no sólo eso.

En Asia, la mañana del 16 de marzo, agentes de las brigadas antidisturbios hicieron una redada en dos de las mayores prisiones del Líbano, en Roumieh y Zahle, para restablecer la calma; algunos testigos hablan de barrotes arrancados, columnas de humo, presos heridos. En América Latina, el 18 de marzo se produjo una fuga masiva de la prisión de San Carlos (Zulia), en Venezuela, durante un motín que estalló inmediatamente después del anuncio de medidas restrictivas: 84 presos lograron escapar, 10 fueron abatidos durante el intento. Al día siguiente, 19 de marzo, algunos prisioneros de la prisión de Santiago de Chile también intentaron escapar. Después de tomar el control de su sector, prender fuego al puesto de guardia y abrir las puertas del pasillo, se enfrentaron con los guardias. El intento de fuga fracasa y es severamente reprimido. En África, el 20 de marzo se produce otro intento de fuga masiva de la prisión de Amsinéné en N’Djamena, la capital del Chad. Todavía en América Latina, el 22 de marzo, son los presos de la prisión La Modelo en Bogotá, Colombia, los que se levantan. Es una masacre: 23 muertos y 83 heridos entre los prisioneros. De nuevo en Europa, el 23 de marzo, un ala de la prisión escocesa de Addiewell termina en manos de los insurgentes y es devastada. En los Estados Unidos, 9 reclusos escaparon de la prisión de mujeres de Pierre (Dakota del Sur) el mismo día en que una de sus compañeras direra positivo en la muestra (cuatro de ellas serán capturadas en los próximos días). También el 23 de marzo, 14 reclusos escaparon de una prisión del condado de Yakima (Washington DC) poco después de que el gobernador anunciara su obligación de permanecer en casa. Todavía en Asia, la liberación “provisional” de 85.000 presos por delitos comunes en Irán no sirve para apaciguar la ira que albergan muchas cárceles; el 27 de marzo, unos 80 presos escaparon de la cárcel de Saqqez en el Kurdistán iraní. Dos días después, el 29 de marzo, estalló otro levantamiento en Tailandia en la prisión de Buriram, en el noreste del país, donde algunos detenidos lograron escapar. Y no sólo las prisiones, sino también los centros de detención de inmigrantes clandestinos están en agitación, como lo demuestran los disturbios que estallaron en el CPR de Gradisca d’Isonzo, Italia, el 29 de marzo.

Pero si las prisiones “al cielo cerrado” superpobladas con los condenados de la tierra parecen más que nunca bombas de relojería que poco a poco explotan, ¿qué pasa con las prisiones al cielo abierto? ¿Cuánto tiempo más prevalecerá el miedo a la enfermedad sobre el miedo al hambre, paralizando los músculos y nublando las mentes? En América Latina, el 23 de marzo, 70 personas atacaron una gran tienda de comestibles en Tecámac, México; dos días después, 30 personas saquearon un supermercado en Oaxaca. El mismo día, 25 de marzo, al otro lado del Océano Atlántico, en África, la policía tiene que despedazar a las multitudes en el mercado abierto de Kisumu (Kenya). A los policías que les instan a encerrarse en sus casas, los vendedores y los clientes responden: “sabemos del riesgo del coronavirus, pero somos pobres; necesitamos trabajar y comer”. Al día siguiente, 26 de marzo, la policía italiana comenzó a vigilar algunos supermercados de Palermo, después de que un grupo de personas tratara de salir con los carritos llenos sin parar en la caja.

Tampoco puede decirse que los arrestos domiciliarios impuestos a cientos de millones de personas hayan detenido por completo la determinación de quienes pretenden sabotear este mundo mortífero. En la noche del 18 al 19 de marzo en Vauclin, Martinica, se incendió una sala técnica de la compañía telefónica Orange, cortando las líneas telefónicas a un par de miles de usuarios. En Alemania, donde las medidas de contención se pusieron en marcha el 16 de marzo, los ataques nocturnos continuaron imparables. El 18 de marzo, mientras en Berlín algunos vehículos de los concesionarios de Toyota y Mercedes se queman, en Colonia se rompen los cristales de la inmobiliaria Vonovia. En la madrugada del 19 de marzo una agencia bancaria en Hamburgo fue atacada, mientras que en Berlín el coche de una empresa de seguridad fue incendiado. En la noche del 19 al 20 de marzo, un coche perteneciente a una reserva militar en Nuremberg fue incendiado en protesta por la creciente militarización, tres yates fueron incendiados en Werder, y otro coche perteneciente a una empresa de seguridad se perdió en Berlín. En la noche del 20 al 21 de marzo, otro coche de una empresa de seguridad fue incendiado en Leipzig. Esa misma noche, tanto en Alemania como en Francia, hay quien intenta desconectar a la alienación. El intento fracasó en Padernon, donde los bomberos teutones salvaron una antena telefónica a punto de ser envuelta en llamas. La suerte no sonrió tampoco a los autores de daños en algunos cables de fibra óptica cerca de Bram, Francia. Parte del pueblo permanecerá sin Internet y sin teléfono durante varios días, pero los responsables serán arrestados gracias a un chivatazo de algunos testigos. La noche siguiente (del 22 de marzo) el coche de un oficial de aduanas se incendia cerca de Hamburgo. Quien realizó esta acción hizo circular unt exto en el que se puede leer: “Es precisamente en este período de pandemia que trae un endurecimiento y la restricción de la libertad de movimiento, en el que es aún más importante preservar la capacidad de acción y mostrarse, al igual que otros subversivos, que la lucha contra las limitaciones de esta época continúa, aunque parezca loca y difícil. Si nos rendimos al deseo del Estado de aislarnos, si nos contentamos con encogernos de hombros ante la amenaza del toque de queda, le damos la oportunidad de continuar sus maquinaciones…”. Es un pensamiento que pasa por las cabezas en todo el planeta, si bien es cierto que esa misma noche, entre el 22 y el 23 de marzo, el aeropuerto internacional de Tontouta, en Païta, Nueva Caledonia, fue objeto de ataques (rotura de cristales y ataque de vehículos de la aduana) por parte de quienes evidentemente no están de acuerdo con las palabras del Presidente del Senado tradicional, según las cuales “las decisiones adoptadas en la emergencia por los poderes públicos sin una explicación inmediata no deben incitar a la violencia”.

Pero el hecho de que más podría dejar una profunda huella, brasas que se incuban bajo las brasas del totalitarismo y de las que podrían brotar chispas, es el motín (del que sólo han llegado algunas noticias) que estalló el 27 de marzo no lejos de Wuhan, epicentro de la actual pandemia, en la frontera entre las provincias de Hubei y Jiangxi. Miles de chinos que acababan de salir de una cuarentena que duró dos meses expresaron su aprecio y gratitud por las medidas restrictivas impuestas por el gobierno, atacando a la policía que intentaba bloquear el paso por el puente del río Yangtsé.

Desde hace un mes, el mundo tal como lo conocemos se tambalea. Nada es como antes y, como mucha gente dice a pesar de sus diferentes opiniones, nada volverá a ser lo mismo. No fue la insurrección, sino una catástrofe, lo que puso en duda su tranquila reproducción. Real o percibido, no hay diferencia. No hay duda de que los gobiernos harán todo lo que puedan para aprovechar esta situación y eliminar cualquier libertad que quede, aparte de la de elegir qué bienes consumir. Tampoco hay duda de que tienen en sus manos todas las fichas técnicas para cerrar el juego, e imponer un orden social sin más manchas. Dicho esto, es bien sabido que incluso los mecanismos más sólidos y precisos pueden acabar mal parados a causa de pequeños actos. Su cálculo de los riesgos estimados y aceptados podría resultar erróneo. Dramáticamente equivocado y, por una vez, especialmente para ellos. También depende de todos y cada uno de nosotros asegurarnos de que esto suceda.

[30/3/20]
Finimondo

[Traducido de Finimondo ]

In Corpore Vili

Here we go. A few hours ago the nationwide state of (health) emergency has been declared. Almost total lockdown. Almost deserted streets and squares. Forbidden to leave the house without a reason considered valid (by whom? by the authorities, of course). Forbidden to meet and hug. Forbidden to organize any initiative requiring even a minimum of human presence (from parties to rallies). Forbidden to be too close to anyone. Suspension of all social life. Warned to stay locked up at home as much as possible, obligated to clinging to some electronic device in anticipation of the news. Obliged to follow the directives. Obliged to always carry a “self-certification” justifying all of your movements, even if you go out on foot. For those who do not submit to the measures taken, the sanctions may include arrest and detention.

And all this for what? For a virus that still divides the experts about its actual dangerousness, as the contested opinions presented by the virologists show (not to mention the substantial difference towards this topic between many European countries)? What if instead of the coronavirus – with its mortality rate of 2-3% everywhere in the world except for the northern Italian regions – an Ebola capable of decimating the population by 80-90% had arrived here? What would have happened? Would it have given way to immediate sterilization by bombardment of the hotspots?
Given the connection of the dynamics in industrial societies and the modern western concept of freedom, it is not surprising that a politics of complete domestic lockdown and curfews is imposed on everyone in order to slow down the spread of viral infection.
What is surprising, if anything, is that such measures are so passively accepted. Not only tolerated, but internalized and justified by the majority of the people. And not only by court minstrels who invite everyone to stay at home, not only by respectable citizens who ensure (and control) each other so that “everything will be alright”. But even by those who because of the infectious horror, are no longer willing to listen to the (until yesterday hailed) refrains against the “state of exception”. They now prefer to take sides in favour of an illusory matter of fact. For never are words so useless as in moments of panic. Let us return to the popular psychodrama in progress in the Belpaese. And let us look at its social effects rather than its biological causes.
Whether this virus comes from bats or from some secret military laboratory, what’s the difference? Nothing. One hypothesis is as good as the other. Besides the lack of information and more precise knowledge in this regard, a trivial observation remains valid: similar viruses can indeed be transmitted by certain animal species. Just as among the many sorcerer’s apprentices of “unconventional weapons” there may well be someone more cynical or reckless. So what?

That said, it is all too obvious that in today’s world it is information that defines what exists. Literally, only what is in the media does actually exist. This point of view gives reason to those who say that turning off the television would be sufficient in order to stop the epidemic from spreading.
Without the media panic-mongering no one would have paid much attention to an unexpected form of flu, whose victims would have been remembered only by their loved ones and some statistics. It would not be the first time. This is what happened with the 20,000 victims caused here in Italy in the autumn of 1969 by the Hong Kong flu, the so-called “spatial influenza”. At that time the mass media talked a lot about it. Since the previous year it sowed death all over the planet, yet it was simply considered as a more virulent form of flu than usual. And that was it. After all, can you imagine what the proclamation of a state of emergency in Italy in December of 1969 would have caused? The authorities could have done it, but they knew they couldn’t afford it. It would have led to uprisings without any doubt. They had to make do with the fear sown by the massacres of the state.

Now, does it make sense to assume that a Far Eastern virus has erupted in the world with such virulence only here in Italy? It is much more likely that it was only here in Italy that the media decided to highlight the news of the outbreak. Whether it was a precise choice or a communication error, this could be a matter of debate for a long time to come. What is all too obvious, on the other hand, is the unleashed panic. And to whom and what it benefits.
Because, one must admit, there is nothing more capable of evoking terror than a virus. It is the perfect enemy, invisible and potentially omnipresent. Unlike what happens with Middle Eastern jihadists, its threat extends and legitimises the need for control almost unlimitedly. Now it’s not the possible perpetrators to are monitored from time to time. But the possible victims, everywhere, all the time. The suspect is not the “Arab” who wanders around in places considered sensitive, but those who breathe because they breathe. If you turn a health problem into a problem of public orderand think that the best way to cure is to repress, then it becomes clear why one of the candidates for the role of super-commissioner of the fight against the coronavirus was the former chief of police at the time of the G8 in Genova 2001 and current president of the biggest Italian arms company (but since business is business, in the end they preferred a manager with military training: the director of the national agency for investment and business development). Is it perhaps a question of responding to the demands expressed in the Senate by a well-known politician, who stated that “this is the third world war our generation is committed to undergo, destined to change our habits more than September 11th”? After Al-Qaeda, here is Covid-19. And here are also the bulletins of this war at the same time virtual and viral
; the numbers of dead and wounded, the chronicles from the battle fronts, the narration of the acts of sacrifice and heroism. Now, what has the rhetoric of war propaganda ever served to, throughout history, if not to put aside any divergence and mobilize to form ranks behind the institutions? At the moment of danger, there must be neither divisions nor criticism but only unanimous support behind the flag of the homeland. Thus, in these hours inside the buildings, the idea of a public health government is being aired. Without forgetting a first side effect that is not at all unwelcome: whoever sings out of tune can only be a defeatist who deserves to be lynched for high treason.
As has already been mentioned, we do not know whether this emergency is the result of a premeditated strategic project or of a run to the shelter after a mistake has been made. We do know, however, that – in addition to flattening any resistance to Big Pharma’s domination of our lives – it will serve to spread and consolidate voluntary servitude, to make obedience internalized, to get us used to accepting what is unacceptable. What could be better for a government that has long since lost all semblance of credibility, and by extension for a civilization that is clearly rotting? The bet made by the Italian government is huge: to establish a red zone of 300,000 square kilometres as an answer to nothing. Can a population of 60 million people snap to attention and throw themselves at the feet of those who promise to save them from a non-existent threat, like a Pavlov dog drooling at the simple sound of a bell? This is a social experiment whose interest in the results transcends Italian borders. The end of natural resources, the effects of environmental degradation and constant overcrowding are announcing everywhere the unleashing of conflicts, whose prevention and management by power will require draconian measures. This is what some have already called “ecofascism”, whose first measures will not be very different from those taken today by the Italian government (which in fact would be the delight of any police state). Italy is the right catalytic country and a virus is the perfect transversal pretext to test such procedures on a large scale.
So far the results seem to be exciting for soul engineers. With very few exceptions, everyone is willing to give up all freedom and dignity in exchange for the illusion of salvation. If the favourable wind should change direction, they can always announce that the dangerous virus has been eradicated to prevent the boomerang effect. For the time being, it has been the inmates killed or massacred during the riots that broke out in about thirty prisons after the visiting hours were suspended. But obviously it was not an embarrassing “Mexican butcher’s shop”, but a commendable Italian pest control. The fact that the emergency offers those in authority the possibility of publicly adopting behaviour that until yesterday was kept hidden can also be seen in the small facts of the news: in Monza a 78 year old woman, who visited the polyclinic because she was suffering from fever, coughing and breathing difficulties, was subjected to coerced treatment (Trattamento Sanitario Obbligatoria) after having refused to be hospitalized on suspicion of coronavirus. Since TSO (established in 1978 by the famous law 180) can only be applied to so-called psychically ill people, that forced hospitalization was an “abuse of power” (as beautiful democratic souls like to say). One of many committed daily, only in this case it was not necessary to minimize or conceal it, and it was made public without the slightest criticism. A similar approach was taken in the case of seven foreigners guilty of… playing cards in a park. It is the least that could happen to contrarian individuals without any “sense of responsibility”.
Yes, responsibility. That’s a word on everyone’s lips today. You have to be responsible, a reminder that is constantly repeated and that translated by the new speak of power means only one thing: you have to obey directives. Yet it is not difficult to understand that it is precisely by obeying that one avoids all responsibility. Responsibility has to do with conscience, the happy encounter between sensitivity and intelligence. Wearing a mask or being locked up at home just because a government official dictated it does not indicate active responsibility, but passive obedience. It is not the result of intelligence and sensibility, but of credulousness and dabbleness seasoned with a good dose of cowardice. An act of responsibility should arise from the heart and head of each individual, not be ordered from above and imposed under threat of punishment. But, as is easy to guess, if there is one thing that power fears more than any other, it is precisely consciousness. Because it is from the conscience that protest and revolt is born. And it is precisely in order to blunt every conscience that we are bombarded 24 hours a day by the most futile television programs, on-screen entertainment, radio chatter, telephone chirping… a mammoth enterprise of social formatting whose purpose is the production of mass idiocy.

Now, if one considered the reasons for declaring the state of emergency with a minimum of sensitivity and intelligence, what would come of it? That an unacceptable state of emergency has been declared for inappropriate reasons by an unreliable government. Can a state which ignores the 83,000 victims caused each year by a market in which it has a monopoly position, and which leaves it a net profit of 7.5 billion Euro be credible when it claims to establish a red zone throughout the country to stem the spread of a virus that, according to many of the virologists, will help to cause the deaths of a few hundred people, who are already ill, perhaps even killing some of them directly? Perhaps in order to prevent 80,000 people from dying from air pollution every year, have you ever thought of blocking factories, power stations and cars throughout the country? And is it this same state that has closed more than 150 hospitals in the last ten years that is now calling for more responsibility?
As for the materiality of the facts we may doubt whether we really want to face them. Certainly not the sinister imbeciles, who in view of the massacre carried out in every sphere by this society, are only capable of cheering for the revenge of the good welfare state (with its public health and its great useful works) on the bad liberal state (stingy with the poor and generous with the rich, completely unprepared and close to facing a new “crisis”). And even less so do the good citizens ready to remain without freedom in order to have crumbs of security.
Because facing the materiality of the facts means also and above all to consider what you want to do with your body and your life. It also means accepting that death puts an end to life, even because of a pandemic. It also means respecting death, and not thinking that you can avoid it by relying on medicine. We’re all going to die, all of us. It’s the human condition: we suffer, we get sick, we die. Sometimes with little, sometimes with a lot of pain. The mad medicalisation, with its delusional purpose of defeating death, does nothing but root the idea that life must be preserved, not lived. It’s not the same thing.
If health – as the WHO has been claiming since 1948 – is not simply the absence of disease, but full physical, mental and social well-being, it is clear that the whole of humanity is chronically ill. And certainly not because of a virus. How should this total well-being be achieved? With a vaccine and antibiotic to be taken in an aseptic environment? Or with a life lived in freedom and autonomy? If hospitals so easily pass off the “presence of vital parameters” as a “form of life”, is it not because they have forgotten the difference between life and survival?
The lion, the so-called king of animals, symbol of strength and beauty, lives on average 10-12 years in the savannah. When it is in a safe zoo its lifespan can double. Locked in a cage he is less beautiful, less strong – he is sad and obese. They have taken away his risk of freedom to give him security. But in this way he no longer lives, he can at most survive. The human being is the only animal who prefers to spend his days in captivity rather than in the wild. It does not need a hunter to point a rifle at him, it is voluntarily behind bars. Surrounded and dazed by technological prostheses, it no longer even knows what nature is. And it is happy, even proud of the superiority of its intelligence. Having learned to do the math, it knows that eight days as a human being is more than one as a lion. Its vital parameters are present, especially the one considered fundamental by our society: the consumption of goods.

There is something paradoxical in the fact that the inhabitants of our titanic civilization, so passionate about superlatives, are trembling confronted with one of the smallest living micro-organisms. How dare a few millionths of an inch of genetic material jeopardize our peaceful existence? It’s nature. Considering what we’ve done to it, it would also be right to wipe us out. And all the vaccines, intensive care, hospitals in the world, they can never do anything about it. Instead of pretending to tame her, we should (re)learn to live with nature. In wild societies, without relationships based on power, not in civilized states.
But this would require a “change in behaviour” not very welcome to those who govern us, to those who want to govern us, to those who want to be governed.

[12/3/20]