Santiago (Chile) – La solidarietà è il virus che il capitalismo teme

Un giorno di furti nelle catene di grande distribuzione per distribuire ai senzatetto. Materiale audiovisivo registrato nelle strade di Santiago, Cile, durante la quarantena ed il coprifuoco sotto il pretesto del virus Covid-19.

Background music: Golpebalabeso/Niña Debacle/Paniko. Recorded in Chauri Chaura Studio.

Tutte le misure sanitarie per evitare di danneggiare le persone nelle strade in termini di igiene e virus sono state prese, ma l’uso di tute bianche rappresenta un gesto di ribellione e azione contro il potere qui nel territorio governato dallo Stato cileno. Molte scuole superiori resistono ed attaccano la polizia dalle loro scuole galera mentre indossano questi vestiti che la polizia odia e teme. Qui un video, per coloro che non lo sapevano, che da l’idea del contesto.

Lunga vita alla guerra violenta contro l’autorità e lo Stato!

Fintanto che ci sarà miseria ci sarà ribellione!

Prigionieri di guerra nelle strade!

https://325.nostate.net/2020/03/28/santiago-chile-solidarity-is-the-virus-that-capitalism-fears/

Santiago (Chile) – Solidarity is the virus that capitalism fears

A day of robberies in big chain stores to distribute to homeless people. Audio-visual material recorded in the streets of Santiago, $hile in times of quarantine and militarized curfew under the pretext of the Covid-19 virus.

Background music: Golpebalabeso/Niña Debacle/Paniko. Recorded in Chauri Chaura Studio.

All sanitary measures were taken to avoid harming the street people in terms of hygiene and viruses, but the use of white overalls is a gesture of rebellion and action against the power here in the territory governed by the $hilean state. Many high school students resist and attack the police in their jails-schools while wearing these clothes that the police hate and fear. Here is a video for those who didn’t know and to give some context.

https://youtu.be/U1MgGz7pK_M

Long live the violent war against authority and power!

As long as misery exists there will be rebellion!

Prisoners of war to the streets!

https://325.nostate.net/2020/03/28/santiago-chile-solidarity-is-the-virus-that-capitalism-fears/

You’ll never riot alone

C’è un’altra pandemia oggi in corso in tutto il pianeta. L’OMS non se ne occupa minimamente, non essendo di sua competenza, e i media cercano di farla passare sotto silenzio o di minimizzarla. Ma i governi del mondo intero sono preoccupati del rischio che comporta. Questa pandemia si sta diffondendo sulla scia del virus biologico che oggi sta riempiendo gli ospedali. Passa dove passa il Covid-19, insomma. Anch’essa toglie il fiato. La paura del contagio sta infatti provocando il contagio della rabbia. I primi sintomi di malessere tendono ad aggravarsi, trasformandosi prima in frustrazione, poi in disperazione, infine in rabbia. Rabbia per la scomparsa, su decreto sanitario, delle ultime briciole di sopravvivenza rimaste.
È significativo che all’annuncio delle misure restrittive prese dalle autorità per prevenire il dilagare dell’epidemia, una sorta di arresti domiciliari volontari, siano stati proprio coloro che la reclusione dietro quattro mura la soffrono già quotidianamente per costrizione — i detenuti — a dare fuoco alle polveri. Vedersi privare dei pochi contatti umani loro rimasti, per di più col rischio di fare la fine dei topi in trappola, è sfociato in ciò che non si verificava da anni. L’immediata trasformazione della rassegnazione in furore.
Tutto è iniziato nel paese occidentale più colpito dal virus, l’Italia, dove lo scorso 9 marzo sono scoppiate sommosse in una trentina di prigioni subito dopo la sospensione dei colloqui con i familiari. Nel corso dei disordini dodici detenuti sono morti — quasi tutti «per overdose», secondo le infami veline ministeriali — innumerevoli altri sono stati massacrati. In una città, a Foggia, 77 detenuti sono riusciti ad approfittare dell’occasione per evadere (anche se per molti di loro, purtroppo, la libertà è durata troppo poco). Una notizia simile non poteva che fare il giro del mondo e chissà che non abbia ispirato le proteste che, a partire da quel momento, si sono diffuse fra i segregati vivi dei quattro continenti: battiture, scioperi della fame, rifiuto di rientrare in cella dopo l’aria… Ma non solo.
In Asia, la mattina del 16 marzo gli agenti delle squadre anti-sommossa fanno irruzione in due delle maggiori carceri del Libano, a Roumieh e Zahle, per riportare la calma; alcuni testimoni parlano di inferriate divelte, di colonne di fumo, di detenuti feriti. In America Latina, il 18 marzo, avviene un’evasione di massa dal carcere di San Carlos (Zulia), in Venezuela, nel corso di una sommossa scoppiata anche là subito dopo l’annuncio delle misure restrittive: 84 detenuti riescono ad evadere, 10 vengono abbattuti durante il tentativo. Il giorno dopo, 19 marzo, anche alcuni prigionieri del carcere di Santiago, in Cile, tentano la fuga. Dopo aver preso il controllo del loro settore, dato fuoco al posto di guardia ed aperto i cancelli del corridoio, si scontrano con le guardie. Il tentativo di fuga fallisce e viene duramente represso. In Africa, il 20 marzo, c’è un altro tentativo di evasione di massa dal carcere Amsinéné di N’Djamena, capitale del Ciad. Ancora in America Latina, il 22 marzo sono i detenuti del carcere La Modelo di Bogotà, in Colombia, ad insorgere. È un massacro: 23 morti e 83 feriti fra i detenuti. Di nuovo in Europa, il 23 marzo un’ala del carcere scozzese di Addiewell finisce in mano ai rivoltosi, e viene devastata. Negli Stati Uniti, quello stesso giorno 9 detenute scappano dal carcere femminile di Pierre (South Dakota) lo stesso giorno in cui una loro compagna di sventura è risultata positiva al tampone (quattro di loro verranno catturate nei giorni seguenti). Sempre il 23 marzo, 14 detenuti evadono da un carcere della contea di Yakima (Washington DC) poco dopo l’annuncio del governatore sull’obbligo di rimanere in casa. Ancora in Asia, la liberazione «provvisoria» di 85.000 detenuti per reati comuni in Iran non serve a placare la rabbia che cova in molte galere; il 27 marzo una ottantina di detenuti evadono dal carcere di Saqqez, nel Kurdistan iraniano. Due giorni dopo, 29 marzo, un’altra rivolta esplode in Thailandia nel carcere di Buriram, nel nord-est del paese, dove alcuni detenuti riescono a fuggire. E non solo le carceri, anche i centri in cui vengono reclusi gli immigrati clandestini sono in agitazione, come dimostrano i disordini scoppiati al Cpr di Gradisca d’Isonzo, in Italia, il 29 marzo.
Ma se le galere a cielo chiuso sovraffollate di dannati della terra sembrano oggi più che mai delle bombe ad orologeria che via via deflagrano, che dire delle prigioni a cielo aperto? Per quanto tempo ancora la paura della malattia avrà la meglio sulla paura della fame, paralizzando i muscoli ed offuscando le menti? In America Latina, il 23 marzo 70 persone assaltano una grande drogheria a Tecámac, in Messico; due giorni dopo in 30 saccheggiano un supermercato di Oaxaca. Lo stesso giorno, 25 marzo, dall’altra parte dell’oceano Atlantico, in Africa, la polizia deve disperdere a colpi di lacrimogeni la folla presente al mercato aperto di Kisumu, Kenya. Ai poliziotti che li esortano a chiudersi in casa, venditori e clienti rispondono: «sappiamo del rischio del coronavirus, ma noi siamo poveri; abbiamo bisogno di lavorare e di mangiare». Il giorno dopo, 26 marzo, la polizia italiana comincia a presidiare alcuni supermercati a Palermo, dopo che in uno di questi un gruppo di persone ha cercato di uscire con i carrelli pieni senza fermarsi alle casse.
Né si può dire che gli arresti domiciliari imposti a centinaia di milioni di persone abbiano fermato del tutto la determinazione di chi è intenzionato a sabotare questo mondo mortifero. Nella notte fra il 18 e il 19 marzo a Vauclin, nell’isola di Martinica, viene incendiato un locale tecnico della compagnia telefonica Orange, tagliando le linee telefoniche ad un paio di migliaia di utenti. In Germania poi, dove le misure di contenimento scattano il 16 marzo, gli attacchi notturni continuano inarrestabili. Il 18 marzo, mentre a Berlino vanno in fumo alcuni veicoli dei concessionari Toyota e Mercedes, a Colonia vengono infrante le vetrate della società immobiliare Vonovia. All’alba del 19 marzo viene attaccata un’agenzia bancaria ad Amburgo, mentre a Berlino viene incendiata l’auto di una impresa di sicurezza. Nella notte fra il 19 e il 20 viene data alle fiamme un’auto di militari riservisti a Norimberga in segno di protesta contro la crescente militarizzazione, a Werder vengono incendiati tre yacht, e Berlino perde un’altra automobile di una ditta preposta alla sicurezza. Nella notte fra il 20 ed il 21 marzo, a Lipsia viene incendiata l’ennesima auto di un’impresa legata a tecnologie di sicurezza. Quella stessa notte sia in Germania che in Francia c’è chi tenta di staccare la spina dell’alienazione. Il tentativo fallisce a Padernon, dove i teutonici pompieri salvano per un soffio un’antenna telefonica in procinto di venire avvolta dalle fiamme. La fortuna non arride nemmeno agli autori del danneggiamento di alcuni cavi di fibre ottiche nei pressi di Bram, in Francia. Parte del borgo rimarrà sì senza internet e telefono per diversi giorni, ma i responsabili saranno arrestati grazie a una soffiata di alcuni testimoni. La notte successiva, quella del 22 marzo, nei pressi di Amburgo l’auto di un doganiere va in cenere. Chi ha compiuto questa azione diffonderà un testo dove si può leggere: «È proprio in questo periodo di pandemia che si accompagna alla stretta e alla restrizione della libertà di movimento, che è ancora più importante preservare la propria capacità di azione e mostrare a se stessi, come ad altri sovversivi, che la lotta contro le costrizioni di quest’epoca continua, anche se appare folle e difficile. Se ci arrendiamo all’auspicio dello Stato di isolarci, se ci accontentiamo di scrollare le spalle di fronte alla minaccia del coprifuoco, gli diamo l’opportunità di continuare le sue macchinazioni…». Si tratta di un pensiero che scalda le teste in tutto il pianeta, se è vero che in quella stessa notte fra il 22 e il 23 marzo l’aeroporto internazionale della Tontouta, a Païta, Nuova Caledonia è stato preso di mira (vetrate infrante e veicoli doganali vandalizzati) da chi evidentemente non è d’accordo con le parole del presidente del Senato tradizionale, secondo cui «le decisioni prese nell’emergenza dalle autorità pubbliche senza una spiegazione immediata non devono incitare alla violenza».
Ma il fatto che più di altri potrebbe lasciare un segno profondo, brace che cova sotto le coltri del totalitarismo e da cui potrebbero scaturire scintille, è la sommossa (l’unica di cui sia arrivata una qualche notizia) scoppiata il 27 marzo non lontano da Wuhan, epicentro dell’odierna pandemia, al confine fra le province di Hubei e di Jiangxi. Migliaia di cinesi appena usciti da una quarantena durata due mesi hanno espresso tutto il loro apprezzamento e gratitudine per le misure restrittive imposte dal governo, attaccando la polizia che cercava di bloccare il passaggio sul ponte del fiume Yangtze.
Da un mese a questa parte, il mondo così come lo abbiamo sempre conosciuto vacilla. Nulla è più come prima e, come vanno dicendo in tanti pur di opinioni diverse, nulla sarà più come prima. A mettere in discussione la sua quieta riproduzione non è venuta affatto l’insurrezione, bensì una catastrofe. Reale o percepita che sia, non fa differenza. Non c’è dubbio che i governi faranno di tutto per approfittare di questa situazione e spazzare via ogni libertà rimasta, che non sia quella di scegliere quale merce consumare. Non c’è dubbio nemmeno che abbiano tutte le carte tecniche in mano per chiudere la partita, ed imporre un ordine sociale senza più sbavature. Ciò detto, è risaputo che perfino i meccanismi più solidi e precisi possono andare a catafascio per un nonnulla. Il loro calcolo dei rischi preventivati, ed accettati, potrebbe rivelarsi errato. Drammaticamente errato e, una volta tanto, soprattutto per loro. Sta anche ad ognuno di noi fare in modo che ciò accada.
[30/3/20]

Reflexiones sobre la huelga de alquileres desde Vancouver

La llamada Vancouver ha sido en los últimos años un lugar de relativa
paz social – la intervención anarquista en las políticas locales ha sido
empujada a las sombras. Tras décadas de agitación y acción
insurreccional, las cosas se apagaron – alguna gente se marchó, sufrió
represión, luchó con el embate diario del capitalismo, o por sus propias
razones dio un paso atrás.  Aún en las sombras es donde florecemos, y
más recientemente la acción y análisis anarquistas han estado ocurriendo
en una fase semi-pública en la llamada Vancouver.
Una de tales iniciativas es la Huelga de Alquileres de Vancouver
(rentstrikevan.ca), un esfuerzo descentralizado para proveer a las
interesadas de recursos para hacer huelga a la par que agitar los fuegos
de la guerra de clases. Surge como resultado del COVID-19, un síntoma de
las interseccionadas e inseparables crisis del capitalismo, la
civilización y el colonialismo.
Agitar por la huelga de alquileres es una escalada de tensión. La fuerza
de la huelga de alquileres  viene de su número así como de la
organización y radicalidad de sus huelguistas -tanto como un mensaje
accesible es necesario para construir una participación masiva, mientras
un mensaje radical es necesario para cultivar e inspirar la acción.
Recordar la necesidad de una diversidad de tácticas y voces lleva al
establecimiento de Huelga de Alquileres Vancouver, que se erige en
contraste con los esfuerzos más reformistas de Vancouver Tenants’ Union.
A pesar de este entendimiento nos encontramos aún caminando en una fina
línea, y luchando por decidir si debemos participar en la política de
producir un discurso respetable. Reconociendo nuestro contexto local, y
la falta de un movimiento anarquista visible, nos hemos tirado a la
piscina y hemos decidido participar, con cautela. Participar en el
activismo nos da la impresión de que nos forzamos a ensombrecer nuestros
sueños más insurgentes y es agotador. Sin embargo, nos encontramos
incapaces de pagar nuestros alquileres, o queremos experimentar el no
pagarlos en tanto que la participación es necesaria. El capitalismo no
sólo nos fuerza a ir a trabajar, sino que parece que es infinitamente
capaz de constreñir nuestros deseos.
Otra tensión surge en torno a la idea de riesgo e identidad. Las huelgas
de alquileres
Another tension emerges around the idea of risk and identity. Las
huelgas de alquileres, por su naturaleza, confrontan el capital y el
proyecto colonial – por lo tanto plantean un riesgo significante para
sus participantes- Simultáneamente, las políticas de riesgo han llevado
a muchas a desacreditarlas. Muchas activistas demandan una huelga que no
ponga a nadie en riesgo, particularmente a las más vulnerables. Mientras
nosotras coincidimos en que es una noble intención, nuestras vidas están
siempre en riesgo – evitarlo es imposible y contendría muchos deseos de
lucha ofensiva. Por supuesto gente diferente, tiene razones muy
legítimas para tener diferentes umbrales de aceptación  del riesgo. Así
que queremos ser explícitas cuando decimos que no podemos garantizar la
seguridad de nadie y cualquier otra persona que lo prometa miente. Con
esto en mente, aquellas que se sientan suficientemente enfadadas o
“seguras” deberían unirse a nosotras y suspender su alquiler el 1 de
Abril.
A través de la huelga esperamos actualizar más los deseos compartidos al
oído entre colegas, los gritos salpicados en los muros de la ciudad y el
odio hacia este sistema impreso en nuestros corazones. Solidaridad con
todas las huelguistas de alquileres. Solidaridad con todos los golpes de
la huelga contra la crisis del capitalismo, colonialismo y civilización.
Solidaridad con aquellas que viven en la calle que no pueden suspender
sus alquileres, aún resistiendo en cada aliento.
Por una creciente revuelta y realización de nuestros deseos.

Chile – Acerca de los avances en la situacion de salud de nuestro compañero Juan aliste

Compañeras y compañeros:
Tenemos la feliz oportunidad de comunicar que luego de más de dos años de la crisis epiléptica que alertó de la Malformación Artereovensa del parietal derecho del cerebro ha habido un avance efectivo en el abordaje clínico de la MAV. Es así como el pasado jueves 19 de marzo del 2020, muy temprano en la mañana en medio de un nuevo Estado de Excepción Juan fue trasladado desde la Cárcel de Alta Seguridad y sometido a una radio cirugía, que a través de rayos gamma ejecuto la resección de la malformación en sí. Este procedimiento fue la respuesta del equipo de salud que lo trató desde un comienzo ante los enormes riesgos que significaba una operación de cerebro convencional. Ésta cirugía pudo ser llevada gracias a la salud y fortaleza física con que nuestro compañero ha sabido sortear todos estos años de encierro y en particular con los efectos de una epilepsia sintomática.
Ahora nos encontramos en el comienzo del fin del proceso a pesar de la gran tecnología que ha sido desplegada y del éxito de la intervención los resultados definitivos no son perceptibles antes de un año.
Aún en la posición de rehén del Estado Terrorista, el poder haber llegado a esta instancia fue resorte de la decisión fundamental de juan de combatir por su vida y su integridad, de no dejar en ningún momento de requerir la atención médica necesaria. Pero las suma de las voluntades individuales se potenciaron con las gestiones y perseverancias del entorno más cercano, como también con la incansable preocupación traducida en acciones solidarias concretas, complicidades y aportes recibidos de éste y otros territorios.
Es necesario también en éstas letras reconocer al equipo de neurología y el personal medico externo a gendarmería, quienes ignoraron las medidas dilatorias que siempre procuraron los carceleros. La desidia de la institución con la salud de nuestro compañero es lo habitual con quienes se encarceladxs, más aun con quienes se declaran enemigos del Estado y dedican sus días y esfuerzos a combatirlo. El personal médico hizo su trabajo y pusieron su energía en contra de la corriente, nos sentimos afortunados de habernos topado con este grupo de personas que permanecieron sabiamente indiferentes a las terroríficas medidas de seguridad impuestas por gendarmería y policías varios.
Imposible es para nosotrxs desatender el actual contexto de pandemia y las invivibles condiciones penitenciarias. Sabemos que para cualquier prisionero un contagio no es otra cosa que una condena a muerte, pero también mantenemos la certeza que las medidas sanitarias no pueden significar el aislamiento ni la incomunicación de nuestrxs compañerxs en prisión. Sabemos que el Estado asesino, violador y mutilador nunca buscará protegernos. Hoy nuevos combates por la vida y la liberación se abren caminos entre rejas, insalubridad, restricciones y control social.
¡Mientras exista miseria habrá Rebelión!
Estemos donde estemos y en todas las condiciones, siempre: Enemigxs del Estado
-Amigxs, compañerxs y familiares de Juan Aliste Vega-
Marzo 2020

Territoires du Nord-Ouest (Canada) – Entraide en contexte de pandémie (ou le vieux rêve du monde ébréché)

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Les discours qui circulent actuellement dans la population oscillent à différents degrés entre la béatitude procurée par une pause bien méritée et la course aux munitions causée par les replis identitaires. L’objet de ce texte n’est pas l’analyse exhaustive des situations exceptionnelles causées par la pandémie, bien que nous encourageons toute initiative en ce sens. Plutôt, nous voulons soulever le fait que la peur éprouvée par plusieurs a des chances d’être et est déjà récupérée par des attitudes, des propos et des comportements fascistes.

Le stress, les conflits, les commentaires douteux entendus dans les épiceries et dans les hôpitaux en témoignent. Les violences conjugales et les tensions personnelles exacerbées dans les appartements et les régions confinées en sont un autre exemple. Pour faire face à cette récupération illégitime de la crise, nous croyons qu’il est nécessaire de visibiliser activement un discours honnête d’entraide et de prise de pouvoir commune. S’assurer que nos discours qui prônent la responsabilisation, la communalisation et les libertés politiques et économiques soient visibles et surplombent les récupérations fascistes est primordial.

Tant que nos corps seront mobilisés et/ou mis en danger par la coercition de l’État, tant que nos actions seront surveillées et nos droits suspendus, tant que le capital négociera violemment son pouvoir dans les vides laissés par la pandémie, nous devront concentrer nos efforts à répondre aux bonnes questions et à regarder en face la tension à laquelle nous sommes tout·e·s confronté·e·s : obéir à des mesures totalitaires pour protéger la vie ou assumer des formes d’indocilité qui risquent de l’écorcher en passant.

Ce texte a été écrit par des personnes blanches cisgenre appartenant au spectre hétérosexuel.

Notre point de vue situé peut expliquer certaines mécompréhensions et/ou exclusions pouvant être véhiculées par ce texte. Les réinterprétations sont les bienvenues.
Ce texte sera écrit au « nous » dans le contexte paradoxal où la distanciation physique est popularisée. Nous avions déjà commencé à prendre de la distance, mais voilà que cette reine virale nous demande d’agrandir le fossé entre les individus, entre les communautés. Nous souhaitons prendre acte de cette situation afin de choisir nos camps. Nous souhaitons bâtir des ponts entre les îlots qui continuerons à résister à l’ensemble des plaies – et pas seulement au virus.

L’état d’exception nous a toujours fait rêver. Il est à la fois étrange et fascinant de voir les rythmes basculer, les consciences s’affûter, les allié·e·s se pointer. Il est à la fois inquiétant et merveilleux de voir que les privilèges dont chacun·e jouissait (consciemment ou non) sont mis au jour, rendus disponibles à la vue de tout·e·s, révélés.

Au même moment, certaines questions se précisent. Nos privilèges étaient-ils si invisibles?

N’avions-nous pas amorcé un travail solide pour les révéler? Et aussi, la situation d’exception engendrée par la pandémie sera-t-elle suffisante pour que tous nos privilèges soient mis au jour? Sommes-nous tout à fait conscient·e·s des enjeux territoriaux, coloniaux ou environnementaux qui nous assurent encore un certain confort, une certaine portée dans nos actions? Si les réponses à ces questions seront structurantes pour les prochains mois, la situation nous oblige à voir que les privilèges auxquels certain·e·s d’entre nous s’étaient habitué·e·s participaient à un refus général du changement social, au déni collectif de la largeur des possibles qui nous étaient déjà permis.

Les amitiés, l’accès à un toit, à un puits, à de l’eau potable, aux denrées de base, des légumes, de la farine, des protéines, de la drogue ou de l’alcool, de l’espace pour marcher sans se faire accoster par un flic ou un macho. Les connexions, les bandes passantes, les vitamines, l’entraide, la blancheur, l’argent.

Une autre question centrale nous taraude : qu’est-ce qu’on fait avec tous ces privilèges?

Certains vont nous être utiles. Il faudra apprendre à les partager, à les démanteler pour mieux les distribuer, à renoncer à quelques-uns d’entre eux. Continuer à se remettre en question personnellement. Les temps de crise ne sont pas une excuse pour s’asseoir sur ce qu’on a accumulé, ni pour manquer de responsabilité sous le couvert de l’urgence.

L’état d’exception soulève avec plus d’acuité encore d’autres questions que nous nous posions déjà. Des questions comme : pour ou contre la survie de l’espèce humaine et sinon, à quel prix?

Pour ou contre le capitalisme et sinon, à quel prix? À quelle forme de responsabilité individuelle et collective pouvons-nous réellement aspirer et de quelle nécessité sera-t-elle garante?

Autant que nous croyons que les questions seront amenées à se préciser dans les prochains mois, autant que nous croyons que l’organisation politique qui est déjà là est suffisante.

Nous croyons que nous avons déjà tout ce qui est nécessaire pour survivre et pour faire exister les systèmes et les mondes dont nous rêvions – et ce, dans le sens où nous allions déjà.

Nous croyons que toutes les personnes qui liront ce texte et qui se reconnaîtront font déjà partie de ce monde parallèle dont nous parlons depuis longtemps, celui qui s’est construit lentement à partir de nos infrastructures, celui qui s’est solidarisé, déjà, à partir d’idées et de consciences communes, celui qui permet nos pluralités, nos différences.
Bien que la peur soit tout à fait légitime, nous souhaitons amorcer le mouvement des corps et le mouvement des idées vers la réalisation d’une situation commune, d’un intérêt commun – soit, le rayonnement de nos mondes au-delà des territoires oppressifs.

Bien que la méfiance soit compréhensible, nous souhaitons confirmer la théorie par la pratique et assumer, ensemble, l’incertitude inévitable d’une telle démarche. Nous souhaitons respecter les rythmes de chacun·e tout en incitant au mouvement. Nous souhaitons continuer à prendre soin les un·e·s des autres, à soigner nos relations, à assumer nos responsabilités les un·e·s envers les autres.

Nous souhaitons voir apparaître, bientôt, la cartographie située de nos communs.
Avant la pandémie, nous nous demandions déjà comment sortir de l’immobilisme, de
l’isolement, du mal-être dans ce monde d’oppression. Nous nous demandions comment sortir de nos quotidiens pour avoir un peu de temps, pour penser à d’autres façons de vivre et d’être ensemble. Nous nous disions que pour sortir de l’isolement, il faudrait se reconnaître, avoir envie de faire des choses ensemble, avoir un imaginaire qui nous donnerait envie. Nous nous demandions : quelle vision du futur nous motive, pour vrai? Qu’est-ce qu’on trouverait important de faire, ici et maintenant?

Les premières réponses que nous avons trouvé à ces questions étaient contenues dans les théories et les pratiques féministes. Nous croyons que la diversité peut être un atout en temps de nécessité et cela doit être porté en assumant que les féminismes radicaux sont des moteurs centraux, prioritaires et transversaux qui affectent tous les aspects de nos vies – privés, sociaux et politiques.

Lorsque nous appelons à l’entraide, nous nous fions sur les consciences et les condamnations actives déjà présentes sur le terrain pour refuser tous les comportements racistes, coloniaux, homophobes, validistes, sexistes, transphobes, classistes. Mais nous ne voulons pas nier l’écart qui persiste entre les discours et la pratique. L’effort déjà déployé témoigne de ce que beaucoup d’entre nous aimeraient. La réalité, qui est que nous n’y sommes pas tout à fait, doit encore faire
partie de l’équation.

D’autre part, nous avions déjà fait le choix d’identifier quatre aspects systémiques de
l’oppression :

• le sexisme et l’hétéro-patriarcat dans la parenté-affinité
• le capitalisme dans l’économie
• l’autoritarisme en politique
• le racisme et le colonialo-impérialisme dans la communauté

Ces différents systèmes d’oppression s’entrecroisent, interagissent et se renforcent les uns les autres, d’où la nécessité de les combattre comme un tout et non de façon isolée.

À partir de maintenant, nous voulons choisir de prioriser les luttes anti-capitaliste et antiautoritaire, ce qui implique de sortir du capitalisme et de s’organiser sans l’État actuel. Nous devons dès maintenant repenser nos façons de fonctionner ensemble : d’où l’idée de préciser nos communs(1) et de se doter de nos propres structures. L’état d’exception dévoile ce que nous savions déjà : des structures, qu’on les veuille ou non, sont déjà là. Nous devons choisir les nôtres et non celles imposées par l’État.

Dans le quotidien, nous continueront à travailler à ce que l’on travaille déjà, soit, à sabler l’engrenage du colonialisme pour le faire disparaître, à mettre en place des relations de solidarité avec les réfugié·e·s et les personnes plus vulnérables, à mettre en place des moyens pour mieux se comprendre, à solidifier nos structures de soin qui nous permettent de rester inclusif·ve·s et accueillant·e·s (« care »), à travailler les opportunités que l’on a de prévenir/sortir de l’isolement, de la dépression, de l’anxiété, et cette fois-ci, des impacts du coronavirus.

Idéalement, cela se ferait par région-clé – les déplacements, l’accès aux ressources et les pratiques anti-autoritaires seraient codifiées à partir de ce qui se fait déjà.
Récupérer les communs, hors des directives gouvernementales, est le devoir politique,
économique et écologique de notre temps. La condition de possibilité du communalisme, c’est tout sauf « chacun·e fait ce qu’ielle veut ». Car le communalisme engage. Il est incompatible avec toute forme de libéralisme. Il ne peut exister sans certaines obligations (2). Dans le communalisme, il y a le principe de l’auto-organisation de ses membres et le droit de sanction: l’idée n’est pas de se surveiller, mais de s’assurer qu’il n’y a pas d’abus. Il y a aussi l’idée du déplacement (ir)régulier des pouvoirs, qui prévient toute forme d’accaparement.

Même si nos pratiques sont déjà libertaires, subversives et que l’on peut s’en féliciter, les louanges que l’on peut en faire aujourd’hui ne sont que la moitié de ce que nous pourrons en faire dans quelques mois et dans quelques années, lorsque nous aurons fait émergé la nouvelle cartographie de cet état d’exception.

Nous ne pouvons plus nous en remettre à des lendemains qui chantent en allusion à
d’hypothétiques pratiques communautaires isolées. Nous avons plusieurs choses à partager:

nos pratiques anti-oppressives, nos structures, nos pratiques de soin, le matériel, les denrées de base.

Nous ne savions pas trop comment libérer du temps pour nous organiser.

Nous n’arrivions pas trop à voir comment redéfinir les échanges commerciaux/economiques sans l’argent sale du capitalisme.

Nous ne savions pas trop comment revenir à l’essentiel, comment nous passer collectivement et activement des avantages que nous procuraient les systèmes oppressifs.

Nous ne nous attendions pas vraiment à une pandémie mondiale.

Après un mois d’exception en Italie, les dauphins sont revenus à Venise. Ce n’est qu’une facette des possibles qui sont ouverts par la situation qui commence.

Nous ne voulons pas être sauvé·e·s par l’État et nous ne voulons surtout pas que les choses reprennent comme avant.

Proposition d’entraide et actions concrètes

• Nous proposons que toute personne se reconnaissant dans cet appel à l’entraide puisse choisir en toute liberté un lieu d’atterrissage. Le lieu d’atterrissage est le lieu qu’on choisit pour s’impliquer, former ou se joindre à une commune. Nous croyons qu’à
ce stade-ci, la proximité territoriale est le facteur le plus important., bien que le
ravitaillement, les affinités et la connexion internet soient des ressources précieuses;

• À partir de là, continuer activement la mutualisation des moyens de production
(production alimentaire, ateliers de tout genre, cliniques, etc) et la mutualisation des
ressources (bouffe, argent, soins, etc);

• Continuer à s’assurer que les gens autour de nous ont accès à l’information, relayer
des points de vue critiques et différents des médias mainstream;

• S’assurer que nos discours soient présents dans les médias sociaux, les espaces,
les territoires et dans nos échanges avec nos voisin·e·s;

• S’assurer que la grève des loyers et que toute action collective réduisant le pouvoir
du capitalisme soient effective(s);

• Multiplier les actions solidaires avec les personnes les plus précaires (isolement,
vieillesse, pauvreté, sans-statuts, monoparentalité, personnes vivant avec un handicap,
etc) et s’autoformer, s’autoéduquer à la pluralité des vécus et des situations.

 

1 Les communs impliquent que la propriété n’est pas conçue comme une appropriation ou une privatisation mais comme un usage. Hors de la propriété publique et de la propriété privée, les communs forment une troisième voie.

2 Voir l’exemple du tequio zapatiste, ces sessions de travail collectives auxquelles chaque membre des communautés chiapanèques doit se soumettre. La définition du travail ici doit être élargie aux formes souvent invisibilisées ou hiérarchisées par le capitalisme (travail domestique, charge mentale, travail émotionnel, etc).

 

Manila (The Philippines) – Covid-19 lockdown: quarantine reflections

Original article by sze-tao.

This is not martial law. Our enemy is the virus.”

— some poor politician in Malacañang (living a simple life & shops at Jaeger-LeCoult1)

Inhale slowly 1001, 1002, 1003, 1004. exhale slowly 1001, 1002, 1003, 1004.

We are in 1984. the Marcos nightmare is back.

This is a practice of our social conditioning. a social conditioning to authoritarianism and its ultimate dream: an authoritarian society.

Poverty is a social condition that is characterized by the lack of resources necessary for basic survival or to meet a certain minimum level of living standards expected for each of us. This is us (Filipinos) being discriminated. And if you stretch your imagination, this is Class War.

Everyone is molded into accepting the discrimination we all experience every day and to eventually give control of our lives to the government and its cronies. We are not simply asked to obey the rules that military personnel and politicians have outlined for us but to stop questioning them. Blind obedience spelled #sumunodlangkayo [just obey].

That is the goal of this lockdown, enhanced community quarantine and 8PM to 5AM curfew hours. It is not de facto martial law, it’s simply Martial Law.

When the current president regurgitates from enforcing a community quarantine to an ‘enhanced’ community quarantine and finally to ‘extreme enhanced’ community quarantine; your eyes blink in confusion. As the excuses and denials about enforcing Martial Law accumulates, Duterte assigns all retired army generals (not doctors/medical personnel) to the committee for the “Covid-19 National Action Plan.” Finally, the granting of ‘Special Powers’ via the signing of “Bayanihan Act of 2020” seals the autocratic hand that will address the crisis spawned by COVID-19 pandemic.

Ultimately, authoritarianism is a personality trait2 that reflects certain values, preferring social conformity over personal autonomy. And this is where the anarchists come to play.

We are under attack. our humanity is being attacked. Our fundamental attitudes towards the world: conformity versus autonomy, nurture or discipline is forced into our being.

The imposition of community passes, illegal arrests of curfew violators, nationwide relief goods distribution corruptions, privileged/VIP prioritization, suppression of press freedom and later an overall murder of dissent (online or offline) are mere consequences.

It is not unusual for us to burst in anger for the daily assault on our human rights while we are contemplating our own fear, our life in danger amidst this imposed isolation. Most, if not all of us have long accepted the inability of governments worldwide to provide all our needs in crisis. And yes, we have long understood the limits of capitalism and its unhealthiness to our planet.

So, we are anarchists. Descendants of geographer Kropotkin who advised that the basic biological drive to mutual aid is definitive of humans; that the not so visible side of success in species survival is in collaboration with other species. Anthropologists have long discovered that primitive societies have almost always practiced some form of ‘gift economies’ (whose competitive drive is not to accumulate goods but give them away!3) and have preferred to share resources. That what really matters is the relations between people, that exchange is about creating friendships or working out rivalries.

How does it apply here? When a question about status of testing kits to address the COVID-19 cases becomes a platform for creative poems4 and other creative pursuits; we nod our heads in agreement. We do not need to bury the state further down the rabbit hole, they’ve done it a long, long, long time ago. In crisis, anarchist values get activated. You just need to look around, we’re at work (or play) and getting away with doing the things we love. And yes, this a rhetoric. We are everywhere.

http://libcom.org/blog/covid-19-lockdown-quarantine-reflections-30032020

Athens – Art intervention in supermarkets in Vironas and Kesariani

One the night of 20/03/2020, supermarkets in vironas and kaisariani were painted,due to the new working conditions that the state is trying to impose,on the state of affairs created by using Covid-19 as an excuse.

  • Lockdown to the profitability of super markets,not in our lifes
  • Life not survival
  • Sundays the shops CLOSED
  • No more hours working,no lay offs
  • We are workers,not volunteers